Dic 152014
 

Avevo appena sette anni quando questa tenera madre, occupata senza tregua dalla cura della mia salute e della mia educazione, si accorse che dimagrivo a vista d’occhio. Venne chiamato un bravo medico per un consulto sulla mia malattia: avevo un appetito divorante, niente febbre, non sentivo alcun dolore; tuttavia la mia vivacità era svanita e le gambe mi reggevano a stento. Mia madre, in pena per la mia vita, non mi lasciava più sola e mi faceva coricare insieme a lei. Quale non fu la sua sorpresa quando una notte, credendomi addormentata, si accorse che avevo la mano su quella parte che ci distingue dagli uomini, dove, con uno stropicciamento leggero, mi procuravo dei piaceri sconosciuti a una bambina di sette anni e molto noti tra quelle di quindici. Mia madre riusciva a stento a credere a ciò che vedeva. Solleva dolcemente la coperta e il lenzuolo, prende una lampada accesa che si trovava nella camera, e da donna saggia e prudente aspetta con pazienza la fine di quel mio atto. Fu come doveva essere: mi agitai, trasalii, il piacere mi svegliò. Mia madre in un primo momento mi sgridò molto e mi chiese dove avevo imparato gli orrori di cui era appena stata testimone. Le risposi piangendo che non capivo a cosa si riferisse, che non sapevo cosa volesse dirmi con parole come accarezzamento, impudicizia e peccato mortale. L’ingenuità delle risposte la convinse della mia innocenza, e alla fine mi riaddormentai. Nuove carezze da parte mia, nuovi pianti da parte di mia madre. Infine, dopo qualche notte di attenta osservazione, non dubitò più che era solo la forza del mio temperamento a farmi fare dormendo quello che serve a dar sollievo a tanti poveri religiosi vegliando. Decise dunque di legarmi entrambe le mani, in modo che mi fu impossibile continuare i miei trastulli notturni. Recuperai ben presto la salute e il mio originale vigore. Persi l’abitudine, ma si rafforzò l’indole.

A dieci anni sentivo un’inquietudine, dei desideri di cui non conoscevo il fine… A quel tempo ci radunavamo spesso, ragazzine e ragazzini della mia età, in una soffitta o in qualche camera appartata. Là ci divertivamo con dei curiosi giochetti: uno di noi faceva la parte del maestro di scuola, e la più piccola mancanza veniva punita con la frusta. I ragazzi si abbassavano i pantaloni, le ragazze tiravano su le gonne e le camicette, guardandosi attentamente: ed ecco qui in quattro e quattr’otto tanti bei diletti pieni di stupore, carezzati e frustati a turno. Quello che chiamavamo il “guiguì” dei ragazzi ci serviva da trastullo: ci passavamo e ripassavamo la mano sopra cento volte, lo stringevamo forte, lo trattavamo come una bambola e baciavamo quel piccolo strumento di cui eravamo ben lontane dal conoscere l’uso e il valore. I nostri sederini erano baciati a loro volta, non c’era che il centro del piacere a essere dimenticato. Perché questa dimenticanza? Lo ignoro, ma questi erano i nostri giochi: la semplice natura li dirigeva, una esatta verità me li detta.

Dopo due anni trascorsi in questo libertinaggio innocente, mia madre mi mise in un convento; avevo circa undici anni. Innanzitutto la Superiora si preoccupò di prepararmi alla mia prima confessione. Mi presentai a questo tribunale senza paura, poiché ero senza rimorsi. Mi confessò il vecchio Guardiano dei Cappuccini, direttore spirituale di mia madre, che ascoltò tutte le marachelle e i peccatucci di una bambina della mia età. Dopo che mi fui accusata delle colpe di cui mi ritenevo responsabile: «Voi sarete un giorno una santa», mi disse il buon Padre, «se continuerete a seguire, come avete fatto, i princìpi che vi ispira vostra madre. Soprattutto, evitate di dare ascolto al demone della carne, io sono anche, come sapete, il confessore di vostra madre, e lei mi aveva allarmato sul piacere che vi attribuisce per l’impurità, il più infame dei vizi. Sono convinto che si è ingannata, formandosi delle idee sbagliate a proposito di quella malattia che avete avuto verso i sette anni. Senza le sue cure, però, cara bambina, avreste perso il vostro corpo e la vostra anima. Comunque, sono sicuro che le carezze in cui vi sorprese non fossero volontarie, come sono certo che si è sbagliata nelle conclusioni che ne ha tratto sulla vostra salute».

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