Lug 132015
 

Per vostro ordine, tutto fu portato nella mia camera. Durante i primi quattro giorni divorai, o per meglio dire scorsi, la storia del Portier des Chartreux, quella della Tourrière des Carmélites, L’Académie des Dames, le Lauriers Ecclésiastiques, Thémidore, Frétillon e parecchi altri libri del genere, che abbandonavo solo per esaminare con avidità le stampe, dove le posizioni più lascive erano riprodotte con certi toni e certe espressioni da mettermi un fuoco ardente nelle vene.

Il quinto giorno, dopo un’ora di lettura, caddi in una specie di estasi. Coricata sul letto, le tende del baldacchino aperte, avevo come prospettiva due quadri: Le feste di Priapo e Gli amori di Venere e Marte. L’immaginazione accesa dalle scene lì rappresentate, mi liberai dalle lenzuola e dalle coperte, e senza riflettere se la porta della mia camera era ben chiusa, cominciai a imitare tutte le posizioni che vedevo. Ogni figura riusciva a ispirarmi il sentimento che il pittore aveva voluto darle. Due atleti raffigurati sulla destra del dipinto delle Feste di Priapo mi incantarono, mi trasportarono, tanto i gusti della donna dipinta erano conformi ai miei. Macchinalmente, la mia mano destra scivolò lì dov’era raffigurata quella dell’uomo, ed ero sul punto di infilare il dito, quando la riflessione mi trattenne. Scopersi l’illusione, e il ricordo della nostra scommessa mi convinse a lasciar perdere.

Ero ben lontana dal supporvi spettatore delle mie sciocchezze, se mai la Natura ne ha; e come ero stupida, gran Dio! Tali sono gli effetti del pregiudizio: ci accecano, sono i nostri tiranni. D’altra parte, quel quadro eccitava ora la mia ammirazione, ora la mia vergogna. Infine gettai lo sguardo sul secondo dipinto. Quale lascivia nella posa di Venere! Come lei, stesi mollemente le cosce divaricandole un poco, e aprii voluttuosamente le braccia, ammirando la splendida figura del dio Marte. Il fuoco da cui i suoi occhi e soprattutto il suo strale sembravano essere animati trapassò il mio cuore. Mi gettai sulle coperte, agitando voluttuosamente le natiche, come a portare in avanti la corona destinata al vincitore. «Perché?» gridai. «Perché gli stessi dèi fanno la loro felicità con un bene che io rifiuto? Ah! caro amante, non resisto più! Ecco, Conte, io non temo più il tuo dardo: puoi finalmente penetrare la tua amante; scegli tu dove vuoi ferire, per me va tutto bene! Soffrirò i tuoi colpi con costanza, in silenzio. E per assicurare il tuo trionfo ecco che infilo dentro il mio dito!». Che sorpresa! Che momento felice! Voi appariste all’improvviso, più bello, più fiero del dio Marte dipinto. Subito vi sfilaste la leggera veste da camera che vi copriva.

«Ho avuto troppa delicatezza», diceste, «per profittare del primo vantaggio che mi hai dato; mi trovavo sulla porta, da dove ho visto e sentito tutto. Ma non volevo attribuire la mia felicità alla vincita di una scommessa ingegnosa. Sono comparso, mia dolce Thérèse, solo quando mi hai chiamato. Sei proprio decisa?»

«Sì, caro amante!», gridai. «Sono tutta tua. Feriscimi, non temo più i tuoi colpi».

Subito cadeste fra le mie braccia e io presi, senza esitare, la freccia che fino a quel momento mi era parsa così riprovevole, guidandola io stessa all’apertura desiderata; voi l’affondaste, senza strapparmi, con i vostri colpi potenti, il più piccolo grido: la mia attenzione era talmente concentrata sul piacere da non lasciarmi percepire alcun dolore.

Di già l’impeto sembrava aver bandito la filosofia dall’uomo padrone di se stesso, quando mi diceste con parole smozzicate:

«Non farò uso, Thérèse, di tutto il diritto che ho conquistato. Tu hai paura di diventare madre: avrò cura di te. Il piacere supremo si avvicina: porta di nuovo la mano, quando lo tirerò fuori, sul tuo vincitore, e aiutalo con qualche carezza a… Ecco, mia cara, adesso… io… muoio… di piacere».

«Ah! Anch’io muoio!», gridai. «Non sento più… io mi…». Contemporaneamente avevo impugnato la freccia e la stringevo con leggerezza nella mia mano che doveva servirle da fodero e nella quale essa percorse lo spazio che la separava dalla voluttà. Ricominciammo, e da allora i nostri piaceri si sono rinnovati così, senza problemi, senza figli, senza inquietudini.

Ecco, caro Benefattore, credo, quello che mi avete chiesto di scrivere: la mia vita dettaglio per dettaglio. Che i folli, se mai questo manoscritto cadesse nelle mani di qualcuno, si ricredessero contro il piacere, contro i princìpi della Morale e della Metafisica in esso contenuti!… Io risponderò a questi folli, a queste macchine sporcamente costruite, a questa specie di automi che pensano col cervello degli altri, che fanno la tale o la talaltra cosa solo perché è stato detto loro di farla; sì, risponderò che tutto ciò che ho scritto è fondato sull’esperienza e sul ragionamento senza nessun pregiudizio.

Sì, ignoranti! La Natura è una chimera. Tutto è opera di Dio. È da lui che riceviamo il bisogno di mangiare, di bere e di gioire dei piaceri. Perché temere di contribuire alla felicità degli uomini annunciando delle verità che possono far vedere più chiaro senza danneggiare nessuno? Ve lo ripeto, censori irascibili: non siamo affatto padroni di pensare come vogliamo. L’anima non ha volontà: è determinata dalle sensazioni e dalla materia. La ragione ci conduce, ma nemmeno lei ci determina. L’amor proprio (cioè il piacere da sperare o il dispiacere da evitare) è il motore di tutte le nostre determinazioni. La felicità dipende dalla conformazione degli organi, dall’educazione, dalle sensazioni esterne; e le leggi umane sono tali che l’uomo può essere felice solo osservandole e vivendo onestamente. C’è un Dio: dobbiamo amarlo, perché è un essere sovranamente buono e perfetto. L’uomo ragionevole, il filosofo, deve contribuire alla felicità pubblica con la morigeratezza dei suoi costumi. Non esistono culti, poiché Dio è sufficiente a se stesso: le genuflessioni, i riti, le elucubrazioni degli uomini non possono aumentare la sua gloria. Non esiste bene o male morale che in rapporto agli uomini: niente in rapporto a Dio. Il male fisico, poi, se nuoce agli uni, è utile agli altri: il Medico, il Procuratore, il Finanziere vivono dei mali altrui: tutto è combinato. Le leggi stabilite in ogni Paese per rinsaldare i vincoli della società vanno rispettate: colui che le infrange deve essere punito, poiché, siccome l’esempio tiene a freno i malvagi e i malintenzionati, è giusto che la punizione di chi ha trasgredito contribuisca alla tranquillità generale. Infine, i Re, i Principi, i Magistrati, tutti i Superiori, per graduatoria, che adempiono ai doveri del loro Stato, vanno amati e rispettati, poiché ognuno di loro agisce per contribuire al bene di tutti.

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