Dic 192014
 

«Signorina, non appena vi ho scorta, folle d’amore, ho sentito i miei organi genitali tendersi verso la vostra bellezza sovrana, ritrovandomi più in calore che se avessi bevuto un bicchiere di raki».

«Con chi? Con chi?»

«Pongo le mie ricchezze e il mio amore ai vostri piedi. Se potessi avervi in un letto, per venti volte di seguito vi proverei il mio ardore. Che le undicimila vergini o le undicimila verghe mi puniscano se sono bugiardo!».

«Che gagliardo!».

«I miei sentimenti non sono menzogneri. Non parlo così a tutte le donne. Non sono un gigolò».

«Ma va’ un po’…!».

Questa conversazione avveniva sul boulevard Malesherbes, in un mattino di sole. Maggio risvegliava la natura e i passeri parigini cinguettavano d’amore sugli alberi nuovamente verdeggianti. Il principe Vibescu teneva questa conversazione galante con una graziosa giovane slanciata, vestita con eleganza, che scendeva verso la Madeleine. La seguiva a fatica tanto camminava svelta. All’improvviso quella si voltò bruscamente e scoppiò a ridere:

«Tagliate corto, non ho tempo ora. Vado a far visita a un’amica in rue Duphot, ma se siete disposto a intrattenere due donne ingorde di lusso e d’amore, se insomma siete un uomo quanto a ricchezza e a potenza copulatoria, allora seguitemi».

Egli si drizzò in tutta la figura dichiarando:

«Sono un principe rumeno, hospodar ereditario».

«E io», disse lei, «sono Culculine d’Ancône, di anni diciannove, e ho già svuotato i pendagli di dieci uomini eccezionali dal punto di vista amatorio, e la borsa di quindici milionari».

Chiacchierando piacevolmente di diverse cose leggere e conturbanti, il principe e Culculine giunsero alla rue Duphot dove in ascensore salirono a un primo piano.

«Il principe Mony Vibescu… la mia amica Alexine Mangetout».

Culculine fece le presentazioni con molta gravità in un boudoir lussuoso decorato con stampe giapponesi oscene.

Le due amiche si abbracciarono facendo lingua-in-bocca. Erano entrambe piuttosto ben messe, ma non in modo eccessivo.

Culculine era bruna, con occhi grigi scintillanti di malizia e un neo pelosetto sulla guancia sinistra, in basso.

Aveva il carnato smorto, il sangue a fior di pelle, le guance e la fronte che si corrugavano facilmente, attestando le sue preoccupazioni finanziarie e amorose.

Alexine era bionda, di quel colore tendente al cinereo che si può vedere solo a Parigi. La carnagione chiara sembrava trasparente. La graziosa ragazza appariva, nel suo attraente déshabillé rosa, delicata e vispa come una marchesa birbantella del penultimo secolo.

La conoscenza fu stretta in breve tempo e Alexine che aveva un amante rumeno andò a cercarne la fotografia in camera da letto. Il principe e Culculine la seguirono. Entrambi si gettarono su di lei e, ridendo, la spogliarono. La vestaglia cadde, lasciandola in una camiciola di batista che lasciava intravvedere un corpo incantevole, grassottello, pieno di fossette nei punti giusti. Mony e Culculine la rovesciarono sul letto e le scoprirono i bei seni rosa, grossi e duri, di cui Mony incominciò a succhiare le punte. Culculine si abbassò e, alzando la camicia, mise a nudo delle cosce grandi e ben tornite che si riunivano al di sotto della micina, che era biondo cenere come i capelli. Lanciando uggiolii voluttuosi, Alexine tirò sul letto anche i piedini, scalciando le pantofole che caddero al suolo con un secco rumore. A gambe ben aperte, ella rialzava il culo sotto le lappate dell’amica stringendo le mani intorno al collo di Mony.

Il risultato non si fece attendere: le chiappe si serrarono, le sgroppate divennero più vivaci e lei godeva dicendo:

«Porconi, voi mi eccitate, dovete soddisfarmi».

«Ha promesso di farlo venti volte!», disse Culculine, e si spogliò.

Il principe fece altrettanto. Furono nudi nello stesso istante, e mentre Alexine giaceva estasiata sul letto, essi poterono reciprocamente ammirare i loro corpi. Il grosso culo di Culculine ondeggiava a meraviglia sotto un vitino di vespa e le grosse palle di Mony si gonfiavano sotto un cazzo enorme di cui Culculine si impadronì.

«Mettilo prima a lei», disse Culculine, «a me lo farai dopo».

Il principe accostò il suo membro alla vulva semichiusa di Alexine che trasalì a quel contatto:

«Mi uccidi!», gridò.

Ma il palo penetrò fino ai testicoli e ne uscì subito dopo per ritornar dentro come un pistone. Culculine salì sul letto e avvicinò la sua nera gattona alla bocca d’Alexine, mentre Mony le leccava il buco posteriore. Alexine ruotava il sedere come un’indiavolata, e ficcò un dito nel buco del culo di Mony che rizzò ancor di più sotto quella carezza.

Egli infilò le mani sotto le chiappe di Alexine che si contrassero con una forza incredibile, stringendo nella fica in fiamme quel cazzo enorme che a stento vi si poteva muovere.

Ben presto l’eccitazione dei tre giunse al culmine, il loro respiro si fece ansimante, Alexine venne tre volte, poi fu il turno di Culculine che subito smontò per andare a mordicchiare i pendagli di Mony. Alexine si mise a gridare come un’ossessa e si contorse come un serpente quando Mony le sparò nel ventre il suo sperma rumeno. Culculine lo sloggiò da quel buco e la sua bocca prese il posto del cazzo per leccare il seme che stava colando a grandi fiotti. Alexine, intanto, aveva preso in bocca il cazzo di Mony lustrandolo a dovere e facendolo di nuovo rizzare.

Un minuto dopo, il principe si precipitò su Culculine, ma il suo cazzo restò sulla porta, vellicandole il clitoride. Teneva in bocca un seno della giovane, mentre Alexine li accarezzava entrambi.

«Mettimelo», gridava Culculine, «non ne posso più!».

Ma il cazzo rimaneva sempre sulla soglia. Lei aveva scaricato due volte e ormai non ci sperava più, quando il cazzo bruscamente la penetrò fino all’utero; allora, folle d’eccitazione e di piacere, morse l’orecchio a Mony, così forte che gliene rimase un pezzo in bocca. L’inghiottì, gridando con tutte le forze, e dimenando magistralmente il culo. La ferita, da cui il sangue colava a fiotti, sembrò eccitare Mony che si mise a pompare ancor più forte e non lasciò la fica di Culculine se non dopo esser venuto tre volte, contro le dieci di lei.

Quando lo tirò fuori, entrambi si accorsero con stupore che Alexine era sparita. Ma tornò di lì a poco con dei farmaci per medicare Mony e con un’enorme frusta da cocchiere.

«L’ho comprata per cinquanta franchi», esclamò, «dal cocchiere del fiacre 3269, ci servirà per resuscitare il rumeno. Lasciamo che si medichi, Culculine mia, e facciamo un sessantanove tanto per tenerci in caldo».

Mentre cercava di fermare il sangue, Mony assisté a questo spettacolo stuzzicante: testa-piedi, Culculine e Alexine si leccavano con trasporto. Il grosso culo di Alexine, bianco e paffuto, si dondolava sul viso di Culculine; le lingue, lunghe come dei pisellini di bimbi, scoccavano inflessibili, la bava e gli umori si mescolavano, i peli madidi si appiccicavano e dei sospiri da strappar l’anima, se non fossero stati di voluttà, si levavano dal letto che scricchiolava e gemeva sotto il dolce peso delle due deliziose fanciulle.

«Vieni a ficcarmelo in culo!», gridò Alexine.

Ma Mony perdeva tanto sangue da non aver più nessuna voglia di rizzare. Alexine si alzò e, afferrando la frusta del cocchiere del fiacre 3269, un superbo articolo nuovo fiammante, la brandì e sferzò la schiena e le chiappe di Mony che, sotto quel nuovo dolore, dimenticò il suo orecchio sanguinante e si mise a urlare. Ma Alexine, nuda e somigliante a una menade in delirio, picchiava inarrestabile.

«Vieni a battere me!», gridò a Culculine, i cui occhi fiammeggiavano, e che venne a colpire a tutta forza il gran culo smanioso di Alexine. Culculine finì anch’essa per eccitarsi.

«Battimi, Mony», supplicava. E lui, ormai avvezzo alla punizione, benché fosse tutto sanguinante, si mise a sculacciare le belle chiappe brune che si aprivano e si chiudevano in cadenza. Quando gli si rizzò, il sangue colava non solamente dall’orecchio, ma anche dai segni lasciati dalla frusta crudele.

Alexine allora si voltò presentando le belle chiappe arrossate al cazzo enorme che penetrò la rosetta, mentre l’impalata gridava agitando il culo e le tette. Ma Culculine li separò ridendo. Le due donne ripresero il loro numero mentre Mony, tutto sanguinante e ben installato nel culo di Alexine, si agitava con un vigore che faceva godere terribilmente la sua sodale. I suoi coglioni sbatacchiavano come le campane di Notre-Dame e urtavano contro il naso di Culculine. A un certo punto il culo di Alexine si chiuse con molta forza intorno alla base del glande di Mony che non poté più muoversi. Fu così che scaricò con lunghi getti ingoiati dall’ingorda cloaca di Alexine Mangetout.

Nel frattempo, in strada, la folla si assembrava intorno al fiacre 3269 il cui cocchiere era senza frusta.

Una guardia gli chiese cosa ne avesse fatto:

«L’ho venduta a una signora di rue Duphot».

«Andate a ricomprarla o vi devo multare».

«Bene, vado», disse l’automedonte, un normanno dalla forza fuori del comune e, dopo essersi informato in portineria, suonò al primo piano.

Alexine gli andò ad aprire tutta nuda; il cocchiere uscì di senno e, poiché quella fuggiva in camera da letto, la rincorse, la ghermì e le incoccò da dietro un cazzo di taglia rispettabile. Ben presto scaricò esclamando: «Tuoni e fulmini, bordello di Dio, puttana di una troia!».

Alexine gli dava dei colpi di culo e scaricò insieme a lui, mentre Mony e Culculine si torcevano dal ridere. Il cocchiere, pensando che si burlassero di lui, fu preso da una collera terribile.

«Ah! puttane, papponi, carogne, malanni, schifezze, voi mi sfottete! La mia frusta, dov’è la mia frusta?».

E, scorgendola, se ne impadronì per colpire con tutte le sue forze Mony, Alexine e Culculine, i cui corpi nudi sussultavano sotto le sferzate che lasciavano dei segni sanguinosi. Poi prese a tirargli di nuovo, saltò su Mony e si mise a incularlo.

La porta d’ingresso era rimasta aperta e lo sbirro che, non vedendo tornare il cocchiere, era salito, entrò in quell’istante nella camera da letto; e non tardò molto a esibire il suo cazzo d’ordinanza.

L’insinuò nel culo di Culculine che schiamazzava come una pollastra rabbrividendo al freddo contatto dei bottoni dell’uniforme.

Alexine, rimasta disoccupata, prese il manganello bianco che dondolava nella custodia al fianco della guardia. Se lo introdusse nella fica e ben presto i cinque cominciarono a godere in modo irrefrenabile, mentre il sangue delle ferite colava sopra tappeti, lenzuola e mobili, e mentre nella via si conduceva al deposito l’abbandonato fiacre 3269, il cui cavallo petò per tutto il percorso profumandolo in modo nauseabondo.

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