Giu 272016
 

Tornai a casa e raccontai alla signora Cole della mia disavventura. Osservò che senza dubbio quei due scellerati sarebbero stati prima o poi puniti, e che se fossi stata uno strumento temporale di quel castigo mi sarei trovata in un guaio molto più grande di quanto potessi immaginare. Mi consigliò anche di parlare il meno possibile di quanto era accaduto. Sebbene potesse venir tacciata di parzialità per la causa comune del genere femminile, dalle cui bocche quella pratica toglieva più del pane, insorse contro la mescolanza delle passioni con una dichiarazione dovuta solo al rispetto per la verità. Affermò che, qualunque fossero gli effetti di quell’infame passione in altre epoche e paesi, era una particolare benedizione che vi fosse, nel nostro clima e nella nostra nazione, una piaga visibilmente impressa in coloro che ne erano macchiati. Poiché sostenne di non poter indicare tra coloro di quello stampo che aveva conosciuto, o almeno tra quelli che ne erano universalmente sospettati, uno il cui carattere non fosse, sotto ogni punto di vista, il più indegno e spregevole, privato di tutte le virtù del suo sesso e carico dei più terribili vizi e follie del nostro. Aggiunse, infine, che erano meno spregevoli quanto ridicoli, nella loro mostruosa incoerenza nel disprezzare e aborrire la donna e allo stesso tempo scimmiottarne i modi, le arie, la pronuncia blesa, l’ancheggiamento e, in generale, la nostra affettazione, che è in noi più accettabile che in questi maschi effeminati.

Me è venuto il momento di lavarmene le mani e tornare a immergermi nella mia storia, a cui ora ricollegherò una terribile avventura accaduta alla povera Louise, dove ebbi una piccola parte e che avevo promesso di raccontare dopo quella di Emily. Sarà l’ennesimo esempio a conferma del fatto che quando le donne perdono la bussola non c’è modo alcuno di trattenere la loro lascivia.

Un mattino in cui la signora Cole ed Emily erano uscite, Louise e io (insieme alla cameriera) eravamo rimaste a occuparci della casa. Mentre noi trascorrevamo il tempo a guardare fuori dalla finestra del negozio, il figlio di una povera donna, che si guadagnava da vivere rammendando calze in un banchetto nel vicinato, ci offrì dei mazzolini di fiori che portava in una piccola cesta tonda. Vendeva quei fiori per aiutare sua madre a mantenere entrambi, poiché non era adatto a nessun’altra attività, visto che non solo era un perfetto stolto o idiota, ma balbettava così tanto che era impossibile comprendere i suoni che emetteva nel tentativo di esprimere le sue idee animalesche.

I ragazzi e i servi del quartiere lo chiamavano il buon vecchio Dick, poiché quel sempliciotto faceva tutto ciò che gli veniva domandato e senza alcuna malizia. Tuttavia, era davvero ben fatto, robusto e alto per la sua età, forte come un cavallo e dai tratti graziosi. Di certo non ci si poteva lamentare della sua figura se si riusciva, a favore di quegli elementi essenziali, a scordarsi del viso sporco, dei capelli indomati dalla mancanza del pettine, e gli abiti consunti che avrebbero potuto disputare dei punti a un filosofo pagano.

Avevamo incontrato spesso quel giovane e avevamo comprato i suoi fiori per puro spirito di compassione e nient’altro: ma quel giorno, quando si presentò davanti a noi con il cesto, Louisa fu colta da un improvviso capriccio e da una voglia incontrollabile. Senza consultarmi, andò da lui per ammirare i boccioli. Prese due mazzetti, uno per lei e l’altro per me, e tirò fuori una moneta, aspettandosi di ricevere il resto. Il ragazzo si grattò la testa, mostrando a gesti ciò che era incapace di esprimere a parole nonostante i grandi sforzi.

Louisa a quel punto gli disse: «Bene, amico mio, vieni con me al piano di sopra e ti darò quanto devo», facendomi l’occhiolino e pregandomi di accompagnarla. Così feci, dopo essermi raccomandata alla cameriera di occuparsi della porta d’ingresso e soprattutto del negozio.

Mentre salivamo, Louisa mi disse sottovoce di provare un insolito desiderio che voleva soddisfare con quello sciocco a cui la natura aveva donato un corpo meraviglioso, negandogli però le più sublimi doti intellettuali, e mi chiese di aiutarla ad appagare il bisogno. Mai a nessuno avevo negato la mia complicità, pertanto non mi opposi a quello scherzo stravagante, e cospirando con la sua curiosità vi presi parte senza troppi pensieri.

Non appena entrammo nella camera da letto di Louisa, mentre ella lo allietava scegliendo i mazzetti di fiori, io presi il comando e andai all’attacco. Poiché non era il caso di prendersi dei riguardi con un tale sempliciotto, mi lasciai andare: quando mi avvicinai rimase sorpreso e confuso e rispose al mio approccio in modo bizzarro. La sua timidezza svanì poco a poco, così lo incoraggiai con gli occhi, mi misi a giocherellare con i suoi capelli e ad accarezzargli le guance, provocandolo in ogni modo. Ben presto ottenni la sua fiducia e risvegliai il dolcissimo richiamo della natura: iniziò a percepire il suo corpo e ci accorgemmo, tra i sorrisi e le smorfie innocenti, di quel fuoco che divampava nei suoi occhi e che si diffuse poi sulle guance facendolo arrossire. L’emozione del piacere animale si palesò sul volto del giovanotto, immobilizzato da quella novità tanto da non saper dove guardare e come muoversi. Rimase remissivo, docile e sorridente, con la bocca aperta per metà, rapito da una stupida estasi, e mi lasciò fare tutto ciò che desideravo. La cesta gli cadde dalle braccia e Louisa se ne prese cura.

Infilai la mano tra i tanti strappi dei suoi abiti e arrivai a toccargli le cosce. La pelle sembrava più morbida e delicata a confronto con la ruvidezza e lo sporco dei vestiti, proprio come i denti dei negri sembrano più bianchi circondati da una pelle così scura. Era debole di modi e di comprendonio, di certo però era ricco di tesori: aveva una pelle soda, liscia e piena dei succhi della giovinezza, gli arti forti e ben torniti. Le mie dita avevano finalmente raggiunto il frutto più sensibile di quel corpo, che invece di ritrarsi al tatto si gonfiò e si espanse. Compresi che i tempi erano maturi per ciò che attendevamo e che quel frutto era pronto a uscire dalla sua prigione. Slacciai la cintura e gli sfilai una parte della camicia, che non ne copriva neanche un quarto: finalmente vidi l’elemento distintivo di quello sciocco, eretto, fiero e in bella mostra. Mia signora, che dimensioni eccezionali! Sebbene immaginassimo qualcosa di straordinario, il suo arnese superava di gran lunga le nostre aspettative e sbalordì persino me, che non ero solita accompagnarmi a piccolezze. Mi creda, avrebbe fatto una gran figura, se fosse stato esposto! L’enorme testa sembrava, per forma e dimensioni, non diversa dal cuore di un agnello; sulla sua estesa larghezza si sarebbe persino potuto giocare a dadi, per non parlare della lunghezza, a dir poco prodigiosa. E la ricca sacca dei tesori più in basso, ben proporzionata, tonda e rugosa, ci riempiva gli occhi e provava che quel giovane non era nato invano. Era evidente che aveva ampiamente ereditato quella maestosità che distingue i meno fortunati, che fa asserire che il bastone di un matto è il miglior compagno di giochi di una fanciulla. E non senza ragione! Poiché, come si suole dire, in amore e in guerra vince l’arma più lunga. La natura, dunque, gli aveva offerto così tanto in quelle parti che si sentì forse assolta per quanto poco aveva regalato alla sua testa.

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