Gen 052019
 

Arrivando all’albergo, la signora Bovary si stupì molto di non vedere la diligenza. Hivert, dopo averla aspettata per cinquantatré minuti, alla fine se n’era andato

Nulla del resto obbligava Emma a partire, ma aveva dato la sua parola che sarebbe tornata quella sera stessa. D’altro canto, Charles l’aspettava e già sentiva nel cuore quella fiacca docilità che è, per tante donne, il castigo e nello stesso tempo il riscatto dell’adulterio.

In fretta fece la valigia, pagò il conto e prese a nolo un calesse; poi, facendo premura al cocchiere, incoraggiandolo, informandosi ogni minuto dell’ora e dei chilometri percorsi, riuscì a raggiungere la Rondine alle prime case di Quincampoix.

Appena si fu sistemata nel suo angolo, chiuse gli occhi e li riaprì soltanto al termine della discesa; subito scorse di lontano Félicité che stava di vedetta davanti alla casa del maniscalco. Hivert trattenne i cavalli e la domestica, sollevandosi fino al finestrino, disse misteriosamente:

«Signora, bisogna che passi subito dal signor Homais. È una cosa urgente».

Il villaggio era silenzioso come sempre. Agli angoli delle strade si vedevano mucchietti rosa fumiganti all’aria; era il periodo delle marmellate e tutti a Yonville confezionavano la provvista per l’inverno nel medesimo giorno. Ma, davanti alla bottega del farmacista, si poteva ammirare un cumulo assai più grande che superava tutti gli altri con la preminenza che deve avere un laboratorio nei confronti dei fornelli domestici, una necessità generale contrapposta a capricci individuali.

Emma entrò. La grande poltrona era rovesciata e anche il Faro di Rouen giaceva a terra, steso fra due pestelli. La signora Bovary spinse la porta del corridoio, e, in mezzo alla cucina, fra gli orci bruni pieni di ribes sgranato, di zucchero semolato e in pezzi, fra le bilance sulla tavola e le pentole sul fuoco, scorse tutti gli Homais, grandi e piccoli, con grembiuli che arrivavano fino al mento, ognuno con una forchetta in mano. Justin, in piedi, teneva la testa bassa, mentre il farmacista urlava:

«Chi ti ha detto di andarlo a cercare nel cafarnao?»

«Cosa c’è? Cosa succede?»

«Cosa c’è?» rispose lo speziale «Stavamo facendo le marmellate, cuocevano e siccome bollivano troppo forte traboccavano. Allora ordino che mi portino un’altra pentola e lui, per fiacca, per pigrizia, va a prendere la chiave del cafarnao appesa a un chiodo nel mio laboratorio.»

Il farmacista chiamava così uno stanzino sotto i tetti pieno di utensili e di mercanzie utili alla sua professione. Spesso vi trascorreva da solo lunghe ore a etichettare, a travasare, a confezionare, e lo considerava non come un ripostiglio, ma come un vero santuario, dal quale uscivano, elaborate dalle sue mani, tutte quelle pillole, pasticche, tisane, lozioni e pozioni che lo rendevano celebre nei dintorni. Nessuno doveva metterci piede e la proibizione era così assoluta che lui stesso vi faceva le pulizie. Insomma, se la farmacia aperta a tutti era il luogo in cui poteva ostentare il proprio orgoglio, il cafarnao era il rifugio dove, concentrandosi egoisticamente, Homais poteva dilettarsi dedicandosi alle attività predilette; così la balordaggine di Justin gli sembrava una mostruosa irriverenza, e rosso in viso più del ribes, ripeteva:

«Sì, del cafarnao. La chiave della porta dietro la quale si trovano gli acidi e gli alcali caustici! Andarci a prendere una pentola! Una pentola con il coperchio! E della quale forse non mi servirò mai! Tutto ha la sua importanza nelle delicate operazioni della nostra arte! Ma che diavolo! Bisogna stabilire delle distinzioni, e non adoperare per usi quasi domestici ciò che è destinato alle attività farmaceutiche! Sarebbe come scalcare un pollo con il bisturi, come se un magistrato…»

«Ma calmati!» diceva la signora Homais.

E Athalie, tirandolo per la giacca:

«Papà! Papà!»

«No, lasciatemi stare,» ripeteva il farmacista «lasciatemi stare! Corbezzoli! Tanto varrebbe fare il droghiere, parola d’onore! Su, va’, non rispettare niente! Spacca! Rompi! Libera le sanguisughe! Brucia la malva! Metti i cetrioli sott’aceto nei boccali, straccia le bende!»

«Lei, però, aveva…» disse Emma.

«Vengo subito! Ma lo sai cosa hai rischiato? Non hai visto niente, nell’angolo a sinistra, sopra il terzo scaffale? Parla, rispondi, di’ qualcosa!»

«Io… non so» balbettò il ragazzo.

«Ah! Tu non sai! Ebbene, lo so io! Hai visto quella bottiglia di vetro blu, sigillata con la cera gialla, che contiene una polvere bianca, e sulla quale ho anche scritto: Pericoloso! E lo sai cosa c’è dentro? Arsenico! E tu vai là a toccare! Prendi una pentola che c’è lì vicino!»

«Lì vicino!» gridò la signora Homais, giungendo le mani «Arsenico! Potevi avvelenarci tutti!»

E i bambini si misero a urlare, come se già avessero sentito dolori atroci nelle viscere.

«Oppure avvelenare un malato!» continuò lo speziale «Volevi vedermi sul banco dei criminali, in corte d’assise? Vedermi trascinato al patibolo? Tu ignori quanta attenzione metta nell’esercizio della mia professione, per quanto io possa vantare un’eccezionale perizia. Più volte, io stesso tremo al pensiero della mia responsabilità! Perché il governo ci perseguita, e la assurda legislazione che ci regge, è una vera spada di Damocle sospesa sul nostro capo!»

Emma non pensava più a domandare cosa volessero da lei e il farmacista continuava, ansimando, il suo discorso:

«Ecco la riconoscenza per tutta la bontà che ti dimostriamo! Ecco come mi ricompensi delle cure paterne che ti prodigo! Infatti, senza di me, dove saresti? Cosa faresti? Chi ti dà da mangiare, ti educa, ti veste e ti offre la possibilità di farti un giorno una posizione onorevole nella società? Ma, per ottenere questo, bisogna lavorare sodo, farsi venire, come si dice, i calli sulle mani. Fabricando fit faber, age quod agis».

Citava addirittura il latino, tanto era esasperato. Avrebbe pronunciato citazioni in cinese o in groenlandese se soltanto avesse conosciuto queste lingue; infatti era in preda a una di quelle crisi nelle quali l’anima mostra senza distinzioni tutto quello che racchiude come l’oceano che nelle tempeste si spalanca, dalle alghe delle coste alle sabbie degli abissi.

E soggiunse:

«Comincio a pentirmi, e quanto, di averti preso con me! Avrei fatto senz’altro molto meglio a lasciarti marcire nella miseria e nella sporcizia dove sei nato! Non sarai mai capace di fare altro che il guardiano di buoi! Non hai nessuna attitudine per le scienze! Sai incollare a stento un’etichetta! E vivi in casa mia come un papa, come un pascià, e te la spassi».

Emma, voltandosi verso la signora Homais, tentò di dire:

«Mi hanno fatto venire qui…»

«Ah! Mio Dio!» la interruppe la buona donna con un’aria desolata.

«Come farò a dirglielo?… È una disgrazia!»

Non riuscì a finire. Lo speziale tuonava:

«Vuotala! Puliscila! Riportala dove l’hai presa! Sbrigati!» E, scotendo Justin per il colletto del camiciotto, gli fece cadere di tasca un libro.

Il ragazzo si chinò. Homais fu più svelto di lui, e, dopo aver raccolto il volumetto, rimase a contemplarlo con gli occhi fuori della testa e la bocca aperta.

«L’amore… coniugale!» lesse lentamente, separando le parole «Ah! Molto bene! Molto bene! Proprio bello! E illustrato anche!… Ah! Questo poi è troppo!»

La signora Homais si fece avanti.

«No, non toccarlo!»

I bambini volevano vedere le figure.

«Uscite!» fece lui imperiosamente.

E quelli uscirono.

Si mise a passeggiare avanti e indietro, a grandi passi, tenendo in mano il volumetto, strabuzzando gli occhi, soffocato, tumefatto, apoplettico. Poi andò dritto dal suo allievo e si piazzò davanti a lui con le braccia conserte:

«Ma hai proprio tutti i vizi, piccolo disgraziato? Guarda che sei su una brutta china!… Non hai pensato, almeno, che questo infame libello sarebbe potuto capitare nelle mani dei miei figli, mettere la scintilla del male nella loro mente, macchiare l’innocenza di Athalie, corrompere Napoleone! Lui che è già sviluppato come un uomo. Sei sicuro per lo meno che non l’abbiano letto? Puoi dimostrarmelo…?»

«Ma insomma, signore,» disse Emma «lei mi doveva dire…»

«È vero signora… Suo suocero è morto!»

Il signor Bovary padre era infatti deceduto due giorni prima, all’improvviso, stroncato da un colpo apoplettico, mentre si alzava da tavola, e, per un eccesso di precauzione, conoscendo la sensibilità di Emma, Charles aveva pregato il signor Homais di comunicarle la notizia orribile con le dovute cautele.

Homais aveva preparato il suo discorso, l’aveva smussato, forbito, era riuscito a dargli un ritmo, a farne un capolavoro di prudenza e di gradualità, di eleganti giri di frase, e di delicatezza. Ma la collera aveva travolto la retorica.

Emma, rinunciando ai dettagli, lasciò subito la farmacia, anche perché il signor Homais aveva ricominciato con i suoi vituperi. Finì per calmarsi, però, e, a un certo punto, si mise a borbottare in tono paterno, facendosi vento con la papalina:

«Non è che io disapprovi del tutto quest’opera! L’autore era un medico. Tratta alcune nozioni scientifiche che non è affatto male, per un uomo, conoscere; anzi, oserei dire, che un uomo deve conoscere. Ma più tardi, più tardi! Aspetta almeno di essere diventato uomo tu stesso, e che la tua personalità sia formata!»

Al colpo di picchiotto di Emma, Charles, che l’aspettava, venne avanti a braccia aperte dicendo con le lacrime nella voce:

«Ah! Mia cara amica…»

E si chinò dolcemente per baciarla. Ma al contatto delle sue labbra il ricordo dell’altro l’afferrò; ed Emma si passò la mano sul viso con un brivido.

Ciò nonostante rispose:

«L’ho saputo… l’ho saputo…»

Charles le mostrò la lettera in cui la madre narrava la disgrazia senza alcuna ipocrisia sentimentale. Si rammaricava soltanto che il marito non avesse potuto ricevere i conforti religiosi, essendo morto a Doudeville, in mezzo alla strada, sulla porta di un caffè, dopo un pranzo commemorativo con ex ufficiali.

Emma gli restituì la lettera, poi, a cena, per convenienza, finse un poco di inappetenza, ma siccome Charles insisteva, si mise risolutamente a mangiare, mentre il marito, di fronte a lei, rimaneva immobile in un atteggiamento accasciato.

Di tanto in tanto, alzando la testa, la osservava a lungo con uno sguardo pieno di angoscia. Una volta sospirò:

«Avrei voluto rivederlo!»

Emma taceva. Infine si rese conto che avrebbe dovuto dire qualcosa:

«Quanti anni aveva tuo padre?» domandò.

«Cinquantotto.»

«Ah!»

E fu tutto.

Un quarto d’ora dopo, Charles soggiunse:

«Povera mamma!… Cosa farà adesso?»

Vedendola tanto taciturna, Bovary supponeva che la moglie fosse afflitta e si costringeva a non dire nulla per non accrescere il dolore che la rattristava. Cercando di riscuotere anche se stesso, le domandò allora:

«Ti sei divertita ieri?»

«Sì.»

Bovary non si alzò quando tolsero la tovaglia. Ed Emma neppure, ma, poiché continuava a vederselo davanti, la monotonia di questo spettacolo finì per allontanarle dal cuore a poco a poco ogni senso di pietà. Le sembrava meschino, debole, una nullità, un pover’uomo in tutti i sensi. Come sbarazzarsi di lui? Che serata interminabile! Uno stordimento estatico, simile a quello che producono i vapori dell’oppio, la intorpidiva.

Si fece sentire, nell’anticamera, il rumore secco di un bastone sul pavimento. Era Hippolyte che portava il bagaglio della signora.

Per deporlo a terra descrisse faticosamente un quarto di cerchio con la gamba di legno.

“Non ci pensa nemmeno più!” si disse Emma, guardando il poveretto che grondava sudore di sotto la folta capigliatura rossa.

Bovary cercava degli spiccioli in fondo al borsellino, senza mostrar di capire tutta l’umiliazione che costituiva per lui la sola presenza di quest’uomo, il quale rimaneva lì come la vivente prova accusatrice della sua irrimediabile inettitudine.

«Guarda che bel mazzolino di fiori!» disse Charles notando sul caminetto le violette di Léon.

«Sì,» fece Emma con indifferenza «è un mazzetto che ho comperato poco fa… da una mendicante.»

Charles prese le violette e, rinfrescandovi su gli occhi rossi di lacrime, le odorò con delicatezza. Emma gliele tolse in fretta di mano e le mise in un bicchiere pieno d’acqua.

L’indomani arrivò la signora Bovary madre. Lei e suo figlio piansero a lungo. Emma, con il pretesto di dover dare ordini, scomparve.

Il giorno successivo fu necessario pensare insieme agli abiti per il lutto. Andarono a sedersi con il cestino da lavoro sotto la pergola, in riva al fiume.

Charles pensava al padre e si stupiva di provare tanto affetto per quell’uomo cui aveva creduto fino ad allora di voler bene in modo piuttosto tiepido. La signora Bovary madre pensava al marito. I peggiori giorni del passato le apparivano ora desiderabili. Tutto veniva cancellato dal rimpianto spontaneo di una così lunga consuetudine; di tanto in tanto, mentre cuciva, una grossa lacrima le scendeva lungo il naso e rimaneva sospesa per un momento.

Emma pensava che, soltanto quarantotto ore prima, lei e Léon erano stati insieme, lontani da tutto il resto del mondo, ebbri di felicità, a contemplarsi con occhi insaziabili. Cercava di riafferrare i più insignificanti particolari di quella giornata ormai trascorsa. Ma la presenza della suocera e del marito la infastidiva. Avrebbe voluto non sentire niente, non vedere niente, per non essere distolta dal pensiero del suo amore, il quale, per quanto lei facesse, andava disperdendosi nelle sensazioni esteriori.

Stava scucendo la fodera di un abito, e i pezzi si sparpagliavano intorno a lei; la signora Bovary madre, senza alzare gli occhi, faceva stridere le forbici e Charles, con le pantofole di vivagno, e una vecchia giacca scura che adoperava come veste da camera, se ne stava lì con le mani in tasca tacendo a sua volta; vicino a loro Berthe, in grembiulino bianco, raschiava con la paletta la sabbia dei vialetti.

All’improvviso videro entrare dal cancello il signor Lheureux, il mercante di stoffe.

Veniva a offrire i propri servigi, data la fatale circostanza. Emma rispose che riteneva di poterne fare a meno. Il mercante non si arrese.

«Le faccio mille scuse» disse. «Vorrei avere uno scambio di idee con lei, in privato.»

Poi, a voce bassa, aggiunse, sempre rivolto a Charles:

«È per quell’affare… ricorda?»

Bovary arrossì fino agli orecchi.

«Ah! Sì… giusto.»

E disse turbato, rivolgendosi alla moglie:

«Non potresti… mia cara?…»

Emma sembrò essere al corrente, perché si alzò; Charles disse alla madre:

«Non è nulla! Senza dubbio qualcosa di ordinaria amministrazione».

Non voleva farle sapere niente della storia della cambiale, paventando i suoi rimproveri.

Quando furono soli, il signor Lheureux cominciò con parole molto chiare a felicitare Emma per la successione, poi chiacchierò di cose indifferenti, degli alberi da frutta, del raccolto, della sua salute che era sempre così e così, né bene né male. In realtà lavorava come un mulo, senza riuscire, per quanto ne dicesse la gente, a mettere da parte un centesimo.

Emma lo lasciava parlare. Si annoiava atrocemente, da due giorni a quella parte!

«E lei, si è ormai del tutto rimessa?» continuò «Perbacco, ho visto il suo povero marito in un bello stato! È davvero un brav’uomo per quanto vi sia stata fra noi qualche difficoltà.»

Emma volle sapere quali fossero quelle difficoltà, dato che Charles le aveva tenuta nascosta la contestazione di quanto lei aveva ordinato.

«Ma lo sa bene!» disse Lheureux «Quei suoi capricci, i bauli.»

Aveva abbassato il cappello sugli occhi e, con le mani dietro la schiena, sorridendo e zufolando, la fissava in una maniera insopportabile. Sospettava qualcosa? Infine continuò:

«Ci siamo riconciliati e sono qui apposta per proporle un accomodamento».

Si trattava di rinnovare la cambiale firmata da Bovary. Il medico avrebbe fatto come credeva meglio, non doveva crucciarsene, soprattutto ora che stava per avere un sacco di fastidi.

«E sarebbe meglio che se ne scaricasse dividendoli con qualcun altro, con lei, per esempio, rilasciandole una procura, questo sarà più comodo; e noi potremmo concludere insieme qualche piccolo affare…»

Emma non capiva. Lui tacque. Poi, tornando ai suoi affari, dichiarò che la signora non avrebbe potuto fare a meno di acquistare qualcosa. Le avrebbe mandato un taglio di dodici metri di bella stoffa nera, per farsi un abito.

«Quello che indossa non va bene per uscire. Ce ne vuole uno per le visite. L’ho visto subito, di primo acchito, quando sono entrato. Ho l’occhio americano, io.»

Non mandò la stoffa, la portò di persona. Poi tornò per misurarla, tornò con altri pretesti, cercando ogni volta di rendersi simpatico, di essere servizievole, infeudandosi, come avrebbe detto Homais, e sempre buttando là con Emma qualche consiglio per la procura. Non parlava mai della cambiale. Emma non ci pensava; Charles, all’inizio della convalescenza, le aveva accennato qualcosa; ma tanti pensieri agitati si erano susseguiti nella sua mente, che aveva finito col dimenticarsene. D’altro canto, si guardava bene dal dare l’avvio a discussioni d’interesse. La signora Bovary madre ne rimase molto stupita e attribuì il cambiamento d’umore ai sentimenti religiosi nati in lei durante la malattia.

Ma, non appena la suocera fu partita, Emma non tardò a meravigliare Bovary con il suo senso pratico. Bisognava informarsi, verificare le ipoteche, vedere se vi erano buone ragioni per una licitazione o per una liquidazione.

Citò termini tecnici, a caso, pronunciò le grosse parole ‘ordine’, ‘avvenire’, ‘previdenza’, ed esagerava di continuo i fastidi della successione: tanto che un giorno Charles si vide sottoporre un modello di procura generale per «trattare e amministrare gli affari, contrarre prestiti, firmare e girare cambiali, pagare somme ecc…» Emma aveva imparato bene la lezione di Lheureux.

Charles, ingenuamente, le domandò da dove venisse quel documento.

«Dal signor Guillaumin.»

E, con la più grande faccia tosta del mondo, soggiunse:

«Non mi fido poi troppo, però. I notai hanno una così cattiva reputazione! Forse bisognerebbe consultare… Ma conosciamo soltanto… Oh! Nessuno».

«A meno che Léon…» disse Charles, che stava riflettendo.

Ma era così difficile intendersi per lettera! Allora Emma propose di fare ella stessa il viaggio per accordarsi. Charles la ringraziò, lei insistette. Fu una gara di gentilezze. Infine Emma esclamò, con un tono di voluta caparbietà:

«No, ti prego, ci vado io».

«Come sei buona!» disse lui, baciandola sulla fronte.

Subito, il giorno dopo, Emma salì sulla Rondine per andare a Rouen a consultare il signor Léon: e si trattenne laggiù tre giorni.

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