Dic 292018
 

Il signor Léon, quando studiava legge, aveva frequentato con una certa assiduità la Chaumière, e aveva ottenuto considerevoli successi con le sartine che lo trovavano ‘distinto’. Era lo studente più ammodo che si potesse desiderare: portava i capelli né troppo lunghi né troppo corti, non sperperava, già al primo del mese, il denaro del trimestre, si manteneva in buoni rapporti con i professori. Si era sempre astenuto dallo abbandonarsi a eccessi, un po’ per pusillanimità e un po’ per delicatezza.

Spesso, quando se ne stava a leggere in camera sua, o seduto, la sera, sotto i tigli del Luxembourg, lasciava cadere il codice per terra e il ricordo di Emma gli si ripresentava. A poco a poco questo sentimento si era indebolito, e altre bramosie vi si erano accumulate sopra, eppure attraverso di esse persisteva, perché Léon non aveva perso tutte le speranze ed era convinto che ci fosse per lui una vaga promessa sospesa nell’avvenire, simile a un frutto d’oro seminascosto in mezzo a un fogliame fantastico…

Rivedendola dopo tre anni, la sua passione si riaccese. Bisognava si decidesse a volerla possedere, prima o poi. Del resto la sua timidezza si era ormai dileguata al contatto con le allegre compagnie, ed egli tornava in provincia disprezzando tutto ciò che non avesse una raffinatezza degna della capitale. Accanto a una parigina vestita di pizzi, nel salone di qualche dottore illustre, decorato e con carrozza propria, il povero giovane di studio si sarebbe comportato come un bambino spaurito; ma qui a Rouen, sul porto, davanti alla moglie di un oscuro medico di paese, si sentiva a suo agio, convinto in anticipo di riuscire irresistibile. La sicurezza di sé dipende dalla situazione in cui ci si trova: non ci si comporta all’ammezzato come al quarto piano e la donna ricca ha intorno a sé a difenderne la virtù tutti i biglietti di banca che le imbottiscono, come una corazza, la fodera del busto.

Dopo aver lasciato il signore e la signora Bovary, la sera prima, Léon li aveva seguiti di lontano; li aveva visti fermarsi all’albergo della Croce Rossa, e, tornato sui suoi passi, aveva trascorso la notte studiando un piano.

L’indomani verso le cinque entrò nella cucina dell’albergo, pallido, con la gola stretta e con quella determinazione dei pusillanimi che niente può fermare.

«Il signore non c’è» rispose un domestico.

Questo gli parve di buon auspicio. Salì.

Emma non si scompose nel vederlo; anzi, gli fece le sue scuse per aver dimenticato di dirgli dove alloggiavano.

«Oh! L’ho indovinato» disse lui.

«E come?»

Sostenne di essere stato guidato verso di lei dal caso, per un istinto. Emma sorrise e Léon per rimediare alla propria ingenua giustificazione raccontò di aver trascorso tutta la mattinata girando per gli alberghi della città.

«Si è dunque decisa a rimanere» soggiunse.

«Sì,» disse lei «e ho sbagliato. Non è bene abituarsi a svaghi che non è possibile concedersi quando vi sono mille altre esigenze…»

«Oh, immagino…»

«Eh, no. Non può, perché non è una donna lei!»

Ma anche gli uomini hanno i loro dispiaceri e la conversazione incominciò con qualche riflessione filosofica. Emma si dilungò molto sulla miseria degli affetti terreni e sull’eterno isolamento in cui il cuore resta sepolto.

Per rendersi interessante o per fare una ingenua imitazione di questa malinconia che lo rendeva a sua volta malinconico, il giovane dichiarò di essersi enormemente annoiato durante gli studi. I cavilli legali lo irritavano, lo attiravano altre vocazioni, e sua madre non tralasciava mai in ogni lettera di tormentarlo. Mentre precisavano sempre meglio i motivi del loro scontento, entrambi si sentivano esaltare da questa crescente confidenza. A volte il dover porre a nudo tutti i loro pensieri li faceva esitare e cercavano allora una frase che potesse ugualmente farli intendere. Emma non confessò la sua passione per un altro e lui tacque di averla dimenticata.

Forse non ricordava più le cenette dopo il ballo con ragazze del popolo e lei non rammentava di certo gli appuntamenti di un tempo, quando correva sull’erba verso il castello del suo amante. I rumori della città li raggiungevano a stento, e la camera sembrava piccola, fatta apposta per isolare ancora di più la loro solitudine. Emma indossava una vestaglia di flanella e appoggiava il nodo dei capelli sulla nuca contro lo schienale di una vecchia poltrona; la tappezzeria gialla creava uno sfondo dorato dietro di lei: il suo capo si ripeteva nello specchio, con la scriminatura bianca nel mezzo e il lobo degli orecchi che usciva di sotto le bande lisce della pettinatura.

«Mi scusi,» disse «faccio male, la sto annoiando con le mie eterne lamentele!»

«No, affatto! Affatto!»

«Se sapesse» continuò lei, levando al soffitto i begli occhi dai quali sfuggì una lacrima «tutto quello che avevo sognato!»

«E io allora? Oh! Ho tanto sofferto! Spesso uscivo, me ne andavo, mi trascinavo sulle rive del fiume, mi stordivo al frastuono della folla senza riuscire a liberarmi dall’ossessione che mi perseguitava. In un negozio di stampe, sul boulevard, c’era un’incisione italiana rappresentante una musa. I drappeggi di una tunica le avvolgevano la figura, guardava la luna e aveva nei capelli sciolti mazzolini di non ti scordar di me. Qualcosa mi spingeva irresistibilmente là, e vi rimanevo per ore intere.»

Poi soggiunse con voce tremante:

«Le somigliava un poco».

La signora Bovary voltò la testa perché egli non le scorgesse sulle labbra il sorriso che vi sentiva nascere e che non riusciva a reprimere.

«Spesso le scrivevo e poi strappavo sempre le lettere» continuò lui.

Emma non rispose.

«Immaginavo a volte che il caso l’avrebbe ricondotta a me. Ho creduto di riconoscerla agli angoli delle strade: e correvo accanto a tutte le carrozze dai cui finestrini svolazzasse una sciarpa, un velo simile al suo…»

Emma sembrava decisa a lasciarlo parlare senza interromperlo. Incrociando le braccia e abbassando il viso, osservava le rosette delle pantofole e moveva un poco sotto il raso, di tanto in tanto, le dita dei piedi.

A questo punto sospirò:

«La cosa più tragica — non le sembra? — è dover trascinare, come faccio io, un’esistenza senza scopo. Se le nostre sofferenze potessero servire a qualcuno, ci si potrebbe consolare pensando all’utilità del sacrificio».

Léon si accinse allora a tessere l’elogio della virtù, del dovere, delle silenziose rinunce, e si disse incredibilmente bramoso di dedicarsi a qualcuno senza riuscire a soddisfare la sua aspirazione.

«Mi piacerebbe moltissimo poter essere una suora d’ospedale!»

«Ahimè!» disse lui «gli uomini non possono votarsi a simili sante missioni, e io non vedo nessuna professione… a parte forse quella del medico…»

Con una lieve spallucciata Emma l’interruppe e prese a lagnarsi della malattia che quasi l’aveva uccisa; peccato! Adesso non soffrirebbe più! Subito Léon invidiò la pace della tomba e disse che una sera aveva addirittura scritto il proprio testamento nel quale raccomandava che lo seppellissero avvolto in quel bel tappeto a strisce di velluto che lei gli aveva regalato; perché così, l’uno e l’altra, sarebbero voluti essere, in quanto entrambi si creavano un ideale al quale adattavano adesso il loro passato. Del resto la parola è un laminatoio che sempre dilata i sentimenti.

Ma, ripensando alla strana idea del tappeto, Emma domandò:

«E perché? Come le è venuta una simile idea?»

«Perché?»

Esitò.

«Perché l’ho amata molto!»

E, congratulandosi con se stesso per aver superato la difficoltà, Léon spiava l’espressione di lei con la coda dell’occhio.

Fu come se un cielo nuvoloso fosse stato spazzato da un colpo di vento. Il cumulo di pensieri tristi che li incupivano parve ritirarsi dagli occhi azzurri di lui; il suo viso era raggiante.

Rimase in attesa. Finalmente Emma rispose:

«L’ho sempre saputo…»

Poi si raccontarono i piccoli avvenimenti di quel periodo lontano della loro vita di cui avevano riassunto in una sola parola i piaceri e le malinconie. Ricordarono la pergola di vitalba, gli abiti che Emma indossava, i mobili della sua camera, tutta la casa.

«E i nostri poveri cactus, che fine hanno fatto?»

«Il freddo di quest’inverno li ha uccisi.»

«Ah! Quanto ci ho pensato, sa? Spesso li immaginavo come li vedevo un tempo, nelle mattine d’estate, quando il sole batteva sulle imposte… e scorgevo le sue braccia nude che passavano fra i fiori.»

«Povero amico mio!» disse lei tendendogli la mano.

Léon, rapidissimo, vi incollò le labbra. Poi, dopo aver emesso un profondo sospiro:

«Lei era per me in quel tempo, come una forza misteriosa che imprigionasse la mia vita. Una volta, per esempio, venni da lei ma certo non se ne ricorda più».

«Sì,» disse Emma «continui.»

«Era dabbasso, in anticamera, pronta per uscire, sull’ultimo gradino; ricordo perfino che aveva un cappello con fiorellini azzurri; e senza nessun invito da parte sua, mio malgrado, mi incamminai con lei. A ogni istante mi rendevo maggiormente conto della mia balordaggine eppure continuai ad andare avanti rimanendole accanto, senza proprio osare seguirla né abbandonarla. Quando entrò in un negozio, indugiai nella via, guardandola attraverso i vetri, mentre si toglieva i guanti per contare il denaro sul banco. Poi suonò il campanello della signora Tuvache, le aprirono, e io rimasi come un idiota davanti al portone che si era richiuso dietro di lei.»

La signora Bovary, ascoltandolo, si stupiva di essere tanto vecchia, tutte queste cose che riapparivano sembravano dilatare la sua esistenza, venivano a crearsi immensi spazi sentimentali in cui le sembrava di ritornare; e diceva di tanto in tanto, a voce bassa e con gli occhi socchiusi:

«Sì, è vero!… È vero!… È vero!»

Sentirono suonare le otto a tutti gli orologi del quartiere Beauvoisine che era pieno di pensionati, di chiese e di grandi alberghi chiusi. Emma e Léon tacevano, ma sentivano, guardandosi, un mormorio nella mente, come se qualcosa di sonoro fosse sfuggito dai loro occhi fissi. Avevano unito le mani e il passato, l’avvenire, le reminiscenze e i sogni, tutto si confondeva nella dolcezza di quell’estasi. La notte si infittiva sulle pareti, dove brillavano ancora, quasi perdute nell’ombra, quattro stampe dai colori volgari rappresentanti altrettante scene della Torre di Nesle, con didascalie in basso in spagnolo e in francese. Dalla finestra a ghigliottina si scorgeva un angolo di cielo nero ritagliato dai tetti aguzzi.

Emma si alzò per accendere due candelabri sul cassettone, poi si rimise a sedere.

«Ebbene?…» disse Léon.

«Ebbene?…» rispose lei.

Léon cercava la maniera di riannodare il dialogo interrotto, quando Emma disse:

«Come mai, nessuno, fino a oggi, mi ha mai espresso dei sentimenti simili?»

Il giovane esclamò che le nature ideali erano difficili a capirsi. Lui l’aveva amata fin dal primo sguardo e si disperava pensando alla felicità che avrebbero potuto avere se, per una grazia del destino, si fossero incontrati prima e avessero potuto legarsi uno all’altra indissolubilmente.

«Ci ho pensato, qualche volta» disse Emma.

«Che sogno!» mormorò Léon.

E, giocherellando con l’orlo azzurro della lunga cintura bianca di lei, soggiunse:

«Cosa ci impedisce di ricominciare?»

«No, amico mio» ella rispose. «Io sono troppo vecchia… Lei è troppo giovane… Mi dimentichi! Altre donne l’ameranno… e lei le ricambierà.»

«Non come amo lei!» gridò Léon.

«Che bambino! Via, dobbiamo essere saggi. Desidero così!»

Gli dimostrò l’impossibilità del loro amore e come dovessero continuare a mantenersi nei limiti di una fraterna amicizia.

Diceva sul serio, quando affermava queste cose? Lei stessa non lo sapeva di certo, tutta presa com’era dal fascino della seduzione e dalla necessità di difendersene; e, contemplando il giovane, con uno sguardo tenero, respingeva senza energia le timide carezze che le mani di lui, tremanti, azzardavano.

«Ah! Mi perdoni!» disse lui scostandosi.

Emma fu presa da una vaga paura davanti a quella timidezza, più pericolosa per lei dell’audacia di Rodolphe quando si faceva avanti con le braccia aperte. Nessun uomo le era parso più bello di Léon. Il suo contegno attestava uno squisito candore. Abbassò le lunghe ciglia sottili e incurvate. La morbida pelle delle guance di lui arrossiva — pensava lei — di desiderio ed Emma provava una invincibile tentazione di posarvi le labbra. Si chinò verso la pendola come per vedere l’ora, dicendo:

«Com’è tardi, mio Dio! Quanto abbiamo chiacchierato!» Egli comprese l’allusione e cercò il cappello.

«E mi sono anche dimenticata lo spettacolo. E quel povero Bovary mi aveva lasciato rimanere proprio perché vi assistessi! il signor Lormeaux di Rue Grand-Pont, doveva accompagnarmici, con la moglie.»

E l’occasione era ormai persa, perché sarebbe ripartita l’indomani.

«Davvero?» domandò Léon.

«Sì.»

«Eppure bisogna che io la riveda» continuò lui. «Devo dirle…»

«Che cosa?»

«Una cosa… grave… seria. Eh, no, davvero, non partirà, è impossibile! Se lei sapesse… Mi ascolti… Non ha dunque capito? Non ha indovinato?»

«Eppure lei sa parlare bene» disse Emma.

«Non scherzi! Basta, basta per pietà! Mi permetta di rivederla… una volta… una sola.»

«E va bene…»

Si interruppe, poi come ripensandoci:

«Oh! Non qui!»

«Dove vorrà.»

«Vuole…»

Parve riflettere, poi soggiunse risoluta:

«Domani alle undici nella cattedrale»

«Ci sarò!» esclamò lui, afferrandole le mani che lei cercò di liberare.

Poi, siccome entrambi stavano in piedi, Léon dietro a Emma che teneva il capo abbassato, egli si chinò sul collo di lei e la baciò a lungo sulla nuca.

«Ma lei è pazzo! Lei è pazzo!» esclamò Emma, fra risatine trillanti, mentre i baci si moltiplicavano.

Allora, facendo sporgere il capo sopra la sua spalla, Léon sembrò chiedere il consenso degli occhi di lei. Lo sguardo di Emma cadde sul giovane, colmo di glaciale maestà.

Léon fece tre passi indietro per uscire, si fermò sulla soglia e balbettò con voce tremante:

«A domani».

Emma rispose con un cenno del capo e sparì, svelta come un uccello, nella stanza accanto.

La sera, Emma scrisse al giovane un’interminabile lettera nella quale si disimpegnava dall’appuntamento, e affermava che tutto era ormai finito, non avrebbero dovuto, per la felicità di entrambi, incontrarsi mai più. Ma, quando la lettera fu chiusa, si accorse di non avere l’indirizzo di Léon, e si trovò in grave imbarazzo.

“Gliela consegnerò io stessa” si disse. “Verrà di certo.”

L’indomani, Léon, sul balcone davanti alla finestra spalancata, si lucidò, canticchiando, le scarpe, facendole risplendere. Indossò pantaloni bianchi, calze sottili, una giacca verde, inzuppò con tutti i profumi che possedeva il fazzoletto, poi, dopo essersi fatto pettinare, si spettinò, per conferire alla propria pettinatura una elegante naturalezza.

“È ancora troppo presto! ” pensò, guardando l’orologio a cucù del parrucchiere, che segnava le nove.

Lesse un vecchio giornale di mode, uscì, fumò un sigaro, percorse tre strade e, pensando che ormai fosse il momento, si diresse lentamente verso il sagrato di Notre-Dame.

Era una bella mattinata estiva. Le argenterie brillavano nelle botteghe degli orefici e la luce che scendeva obliqua sulla cattedrale traeva bagliori dagli spigoli delle pietre grigie. Uno stormo di uccelli volteggiava nel cielo turchino intorno alle guglie a trifoglio. La piazza, echeggiante di grida, profumava per i fiori che fiancheggiavano il lastricato: rose, gelsomini, garofani, narcisi e tuberose intervallati, senza ordine, da macchie di verde umido, di erba gattaria e di centocchi per gli uccellini; nel mezzo gorgogliava una fontana e sotto gli ombrelloni, fra le zucche disposte a piramide, fioraie dal capo scoperto avvolgevano nella carta mazzolini di violette.

Léon ne comperò uno. Era la prima volta che comperava fiori per una donna; e aspirandone il profumo, il petto gli si gonfiò di orgoglio, come se l’omaggio destinato a un’altra persona si fosse di riflesso esteso anche a lui.

Ciò nonostante temeva di essere veduto ed entrò quindi risoluto nella chiesa.

Lo scaccino, in quel momento, stava sulla soglia, al centro del portale di sinistra, sotto un quadro raffigurante la danza di Marianna, con il pennacchio in testa, lo spadone che gli arrivava al polpaccio, la bacchetta in pugno, più maestoso di un cardinale e risplendente come un santo ciborio.

Si diresse verso Léon, e, con quel sorriso di falsa benignità proprio degli ecclesiastici quando interrogano i ragazzi, disse:

«Il signore non è di queste parti? Il signore desidera vedere le curiosità della chiesa?»

«No» rispose Léon.

Dapprima si aggirò per le navate, poi uscì per dare un’occhiata alla piazza. Emma non arrivava. Salì nel coro.

La navata si rispecchiava nelle acquasantiere colme, con la estremità delle ogive e una parte delle vetrate. Il riflesso dei dipinti, spezzandosi sui bordi dei marmi, continuava poi più lontano, sul pavimento, simile a un tappeto variegato. La luce vivida che penetrava attraverso i tre portali aperti si allungava in altrettanti enormi raggi luminosi all’interno della chiesa. Di tanto in tanto, in fondo, passava un sagrestano, facendo davanti all’altare la genuflessione obliqua dei devoti frettolosi. I lampadari di cristallo pendevano immobili. Nel coro ardeva una lampada votiva d’argento, e dalle cappelle laterali, dagli angoli bui della chiesa, si udivano talvolta sfuggire sospiri, e sotto le alte volte si ripercoteva l’eco del rumore di una grata che ricade.

Léon camminava con aria grave vicino ai muri. La vita non gli era mai sembrata tanto bella. Fra poco avrebbe visto arrivare Emma, affascinante, agitata, spiando dietro di sé gli sguardi che la seguivano, con il suo abito a volanti, l’occhialino d’oro, le scarpette minuscole, tutti quei particolari eleganti di cui lui non aveva finora avuto modo di godere, e con l’ineffabile seduzione della virtù che soccombe. La chiesa era pronta ad accoglierla come un gigantesco salotto, le volte si inclinavano per raccogliere nell’ombra la confessione del suo amore; le vetrate splendevano soltanto per illuminarle il viso, gli incensieri ardevano perché lei potesse apparire come un angelo avvolta nelle volute profumate.

E ancora non arrivava. Si mise a sedere su una sedia e gli occhi gli si posarono su una vetrata turchina ove si vedevano alcuni marinai che portavano dei canestri. Rimase a guardarli a lungo, con attenzione, contò le scaglie dei pesci e i bottoni delle giubbe, mentre i suoi pensieri erravano alla ricerca di Emma.

Un po’ più in là lo scaccino si indignava dentro di sé, per questo individuo che si permetteva di ammirare da solo la cattedrale. Gli sembrava che si comportasse in maniera mostruosa, che, in un certo senso, lo derubasse e commettesse quasi un sacrilegio.

Ma ecco un fruscio di seta sulle lastre del pavimento, l’ala di un cappello, una pellegrina nera… Era lei! Léon si alzò e le corse incontro.

Emma era pallida. Camminava in fretta.

«Legga!» disse porgendogli un foglio «Oh, no!»

E di scatto ritirò la mano, entrò nella cappella della Vergine, dove si inginocchiò contro una sedia e si mise a pregare.

Il giovane si irritò per questo capriccio bigotto, eppure non poté fare a meno di subire il suo fascino vedendola, nel bel mezzo del convegno, così perduta nelle orazioni come una marchesa andalusa; ma ben presto incominciò ad annoiarsi perché non la smetteva più.

Emma pregava, o, piuttosto, si sforzava di pregare, sperando che dal cielo scendesse qualche improvvisa ispirazione. E, per facilitare l’aiuto divino, si empiva gli occhi con lo splendore del tabernacolo, aspirava il profumo delle lunarie bianche fiorite, nei grandi vasi, e prestava orecchio al silenzio della chiesa il quale non faceva che accrescere il tumulto nel suo cuore.

Emma si rialzò e stavano per andarsene quando lo scaccino si avvicinò rapidamente dicendo:

«La signora non è di queste parti, vero? La signora desidera vedere le curiosità della chiesa?»

«Eh, no!» esclamò Léon.

«Perché no?» disse Emma.

Si aggrappava, per salvare la sua virtù tentennante, a tutti i pretesti, alla Vergine, alle sculture, alle tombe.

Allora, per poter procedere con ordine, lo scaccino li ricondusse fino all’entrata, sulla piazza, dove mostrò loro, con la canna, un gran cerchio di selci nere senza iscrizioni né incisioni.

«Ecco» disse con grande solennità «la circonferenza della bella campana di Amboise. Pesava quarantamila libbre. Non ce n’era un’altra uguale in tutta Europa. L’operaio che la fuse ne morì di gioia…»

«Andiamo!» disse Léon.

Il brav’uomo si rimise in marcia. Poi, arrivato alla cappella della Vergine, stese un braccio in un sintetico gesto dimostrativo e, più orgoglioso di un signorotto di campagna che mostra i suoi frutteti, disse:

«Questa semplice lapide ricopre i resti di Pierre de Brézé, signore della Varenne e di Brissac, gran maresciallo di Poitou e governatore di Normandia, morto nella battaglia di Montlhéry, il 16 giugno del 1465».

Léon si mordeva le labbra e scalpicciava.

«E a destra, questo gentiluomo tutto bardato di ferro, su un cavallo che si impenna, è suo nipote, Louis de Brézé, signore di Breval e di Montchauvet, conte di Maulevrier, barone di Mauny, ciambellano del re, cavaliere dell’Ordine e anche lui governatore di Normandia, morto il 23 luglio 1531, una domenica, come dice l’iscrizione; e, qui sotto, quest’uomo che sta per scendere nella tomba rappresenta esattamente la stessa persona. Non è possibile vedere una più perfetta rappresentazione del nulla, non è vero?»

La signora Bovary prese l’occhialino. Léon, immobile, la guardava, senza neanche più tentare di dire una parola o di fare un gesto, tanto si sentiva scoraggiato di fronte a questo duplice partito preso di ciarle e d’indifferenza.

L’inesorabile guida continuò:

«Vicino a lui, questa donna inginocchiata e in lacrime è la sua sposa, Diane de Poitiers, contessa di Brézé, duchessa di Valentinois, nata nel 1499 e morta nel 1566, e, a sinistra, quella che ha un bambino in braccio è la Santa Vergine. E adesso si voltino da questa parte: ecco le tombe degli Amboise. Sono stati entrambi cardinali e arcivescovi di Rouen. Questo era ministro di re Luigi XII. Ha fatto molto per la cattedrale. Nel suo testamento ha lasciato trentamila scudi d’oro per i poveri».

E, senza fermarsi, sempre parlando, li spinse davanti a una cappella ingombra di inginocchiatoi, e, spostandone qualcuno, scoprì una specie di masso che sarebbe anche potuto essere una statua mal riuscita.

«Un tempo questa adornava la tomba» disse con un lungo gemito «di Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra e duca di Normandia. Furono i calvinisti, signore, a ridurla in questo stato. Per malvagità, l’avevano seppellita sotto il seggio episcopale di monsignore. Ecco, guardino, questa è la porta che conduce appunto alla sua abitazione. Procediamo e ammiriamo le vetrate della Gargouille.»

Ma Léon tirò fuori rapidamente una moneta d’argento dalla tasca e afferrò Emma per un braccio. Lo scaccino rimase strabiliato, senza capire il perché di una così intempestiva munificenza quando restavano ancora, per il forestiero, tante cose da vedere. Perciò lo richiamò:

«Ehi! signore! il campanile! il campanile!»

«Tante grazie!» fece Léon.

«Il signore sbaglia! È alto circa quattrocentoquaranta piedi, nove meno della grande piramide egiziana. È tutto in ferro fuso, è…»

Léon fuggiva perché gli sembrava che il suo amore, dopo le due ore o poco meno in cui si era immobilizzato nella chiesa, simile alle pietre, minacciasse ora di svanire come fumo su per quella specie di tubo mozzo, di gabbia oblunga, di camino bucato, che aveva il coraggio di elevarsi al di sopra della cattedrale come il tentativo stravagante di un calderaio fantasioso.

«Ma dove andiamo?» domandò Emma.

Senza rispondere, continuò a camminare a passi rapidi e la signora Bovary stava già immergendo il dito nell’acqua benedetta, quando sentirono dietro di loro un ansito affannoso, accompagnato dal rimbalzare ritmico di una canna. Léon si voltò.

«Signore!»

«Cosa c’è?»

E riconobbe lo scaccino il quale portava sul braccio, tenendoli in equilibrio contro il proprio ventre, una ventina circa di grossi volumi rilegati alla rustica. Si trattava delle opere che parlavano della cattedrale.

«Imbecille!» borbottò fra i denti Léon, slanciandosi fuori della chiesa.

Un monello giocava sul sagrato.

«Va’ a chiamarmi una carrozza!»

Il ragazzo partì come una palla di schioppo e imboccò Rue des Quatre-Vents. Rimasero soli, per qualche minuto, uno di fronte all’altra, un po’ imbarazzati.

«Ah! Léon!… Veramente… io non so… se devo…»

Faceva la ritrosa, poi aggiunse, compunta:

«È molto sconveniente, lo sa?»

«Che cosa?» ribatté il giovane di studio «A Parigi si usa.»

E queste parole, come un argomento inoppugnabile, la decisero.

Frattanto la carrozza si faceva aspettare. Léon temeva che Emma volesse rientrare in chiesa. Finalmente arrivò.

«Uscite almeno dal portale nord,» gridò loro dietro lo scaccino che era rimasto sulla soglia «potrete vedere la Resurrezione, il Giudizio Universale, il Paradiso, il Re David, e i Dannati nelle fiamme dell’inferno.»

«Dove andiamo, signore?» domandò il cocchiere.

«Dove vuole!» disse Léon spingendo Emma nella vettura.

E il pesante veicolo si mise in moto.

Discese Rue Grand-Pont, attraversò Place des Arts, il lungofiume Napoleone, il Pont Neuf e si fermò di botto davanti alla statua di Pierre Corneille.

«Vada avanti!» fece una voce che usciva dall’interno. La carrozza ripartì e, lasciatasi indietro l’incrocio La Fayette, imboccò la discesa e, grazie a quest’ultima, entrò al gran galoppo nella stazione ferroviaria.

«No, vada diritto!» gridò la stessa voce

La carrozza, uscita dai cancelli, arrivò ben presto sul viale e proseguì adagio fra i grandi olmi. Il cocchiere si asciugò la fronte, mise il cappello di cuoio fra le gambe e guidò la vettura al di là dei viali laterali, sulla riva del fiume, vicino all’erbetta.

Seguì il fiume, sull’alzaia pavimentata con ciottoli a secco, e proseguì a lungo dalla parte di Oyssel, oltre le isole.

Ma d’improvviso si slanciò con impeto attraverso Quatremares, Sotteville, la Grande Chaussée, Rue d’Elbeuf, e fece la terza fermata davanti al Jardin des Plantes.

«Vada avanti!» gridò la voce infuriata.

Riprendendo subito la corsa, la carrozza passò per Saint-Sever, per il lungofiume dei Curandiers, per quello alle Meules, attraversò di nuovo il fiume, poi la piazza del Champ-de-Mars e giunse dietro i giardini dell’ospedale, dove vecchi vestiti di nero passeggiavano al sole lungo una terrazza tutta verde di edera. Risalì Boulevard Bouvreuil, percorse Boulevard Cauchoise, poi tutto il Mont-Riboudet fino alla salita di Deville.

Tornò indietro, senza meta né direzione, vagabondò a caso. La si vide a Saint-Pol, a Lescure, a Mont-Gargan, alla Rouge-Mare e in piazza del Gaillardbois; in Rue Maladrerie; in Rue Dinanderie, davanti a Saint-Romain, Saint-Vivien, Saint-Maclou, Saint-Nicaise, davanti alla dogana, alla Basse-Vieille-Tour, ai Trois-Pipes e al Cimitero Monumentale. Ogni tanto il cocchiere, da cassetta, lanciava alle osterie sguardi disperati. Non capiva quale furia locomotoria spingesse questi individui a non volersi più fermare. Ci provò, qualche volta, ma subito sentì dietro di sé esclamazioni di collera. Frustava allora con tutta la sua energia le due rozze tutte sudate, senza curarsi dei sobbalzi che li facevano traballare di qua e di là, infischiandosene di tutto, demoralizzato e quasi piangente di sete, di fatica e di malinconia.

E al porto, in mezzo ai carri e ai barili, nelle strade, agli angoli delle vie, la gente apriva tanto d’occhi di fronte a questo fatto così straordinario in provincia, una vettura con le tendine accostate, che riappariva di continuo, più chiusa di una tomba e sballottata come un bastimento

Una volta, a metà pomeriggio, in aperta campagna, nel momento in cui il sole dardeggiava con più accanimento contro le vecchie lanterne argentate, una mano nuda passò sotto le tendine di tela gialla e gettò fuori dei pezzetti di carta stracciata che si dispersero al vento e caddero lontano, come farfalle bianche, su un campo di trifoglio rosso tutto in fiore.

Poi, verso le sei, la vettura si fermò in un vicolo del quartiere Beauvoisine, e ne discese una donna che si allontanò, con il volto coperto e senza voltare la testa.

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