Lug 172015
 

Nel bel mezzo di queste false spiegazioni sulla natura del mio futuro servizio, fummo chiamate a piano terra, e venni quindi ricondotta nello stesso salottino, dove c’era un tavolo apparecchiato per tre. La padrona era seduta in compagnia di una delle sue favorite, che la aiutava nella gestione della casa e aveva il compito di svezzare le giovani puledre come me e prepararle al montatoio. E proprio a quello scopo mi venne assegnata come compagna di letto e, per conferirle maggiore autorità, le fu dato il titolo di cugina proprio dalla venerabile padrona di quel collegio.

Lì fui sottoposta a un secondo esame, che si concluse con la piena approvazione della signora Phoebe Ayres, così si chiamava la mia tutrice, alle cui cure e insegnamenti fui con affetto assegnata.

Il pranzo fu servito, e continuando a fingere di trattarmi come una dama di compagnia, la signora Brown, con il tono di chi fa cessare ogni disputa, ben presto vinse le mie più umili e confuse proteste per il fatto di sedermi a tavola con Sua Signoria, cosa che la mia misera formazione mi suggeriva non fosse né opportuna né nell’ordine delle cose.

A tavola la conversazione fu tenuta principalmente dalle due donne, con abbondanza di doppi sensi, e si interrompevano solo di tanto in tanto per rassicurarmi e mantenere viva la mia soddisfazione per quella condizione: ero così inesperta che non potevano aumentarla oltre.

In quella occasione fu stabilito che mi sarei dovuta trattenere al piano di sopra senza dare nell’occhio per alcuni giorni, fino a che non mi fossero stati procurati degli abiti degni del mio ruolo, quello di dama di compagnia, facendomi notare che le prime impressioni sulla mia figura erano molto importanti; e, come avevano previsto, la prospettiva di sostituire i miei abiti da campagna con eleganti abiti londinesi mi rese accettabile il periodo di isolamento. Ma la verità era che la signora Brown non voleva che io fossi vista né che parlassi con nessuno, soprattutto con i suoi clienti o le sue “bambine” (così venivano chiamate le sue ragazze), finché non avesse stabilito un buon prezzo per la mia verginità, che, a quanto sembrava, dovevo aver portato con me a servizio di Sua Signoria.

Sorvolerò sui minuti di poca importanza per andare dritta al cuore della mia storia, tralasciando l’intervallo di tempo fino al momento di andare a letto, durante il quale ero sempre più compiaciuta delle prospettive di un facile servizio presso quelle brave persone. Dopo cena mi accompagnarono in camera, dove la signorina Phoebe, che aveva notato la mia riluttanza nello spogliarmi e coricarmi in camicia da notte davanti a lei, non appena la cameriera si ritirò venne verso di me e iniziò a slacciarmi lo scialle e la gonna, incoraggiandomi poco dopo a continuare a spogliarmi da sola. Alla mia vista nuda in camicia da notte arrossii e mi affrettai a nascondermi sotto le coperte.

Phoebe rise e poco dopo si coricò accanto a me. Aveva circa venticinque anni, secondo i suoi poco attendibili racconti, ma a giudicare dal suo aspetto doveva averne almeno dieci in più, specie considerando le devastazioni causate al suo corpo dai molti anni di mestiere e acque calde; doveva già aver raggiunto il punto in cui quelle del suo mestiere si riducono a insegnare l’amore, non a farlo.

Non appena la preziosa sostituta della mia padrona si coricò, non potendo rinunciare a qualsiasi occasione di libidine che le si presentasse, si voltò verso di me, mi abbracciò e mi baciò con passione. Quel comportamento era nuovo e insolito per me ma, imputandolo a semplice gentilezza – per quanto ne sapevo, poteva essere un’usanza londinese – decisi di non essere da meno e ricambiai quel bacio e quell’abbraccio con tutto il fervore che la mia perfetta innocenza conosceva.

Incoraggiata dalla mia reazione, le sue mani si fecero più audaci e iniziarono a vagare libere su tutto il mio corpo: lo accarezzavano, premevano e palpavano in un modo che mi accese e sorprese anziché scioccarmi e spaventarmi.

I complimenti adulatori che accompagnavano quelle invasioni contribuirono non poco a indurmi alla passività, e non conoscendo il male, non sentivo di aver nulla da temere, soprattutto da una che aveva palesato la sua femminilità conducendo le mie mani su di un seno cadente, le cui forme e dimensioni non lasciavano dubbi sul suo sesso, almeno per me, che non avevo mai avuto altri confronti.

Giacevo docile e passiva come lei desiderava, mentre le sue libertà non facevano altro che aumentare in me un’insolita sensazione di piacere che non avevo mai provato prima. Ogni parte di me era aperta ed esposta al vagare lascivo delle sue mani che, come lingue di fuoco, scorrevano sul mio corpo e scioglievano ogni gelo.

I miei seni, se così si potevano chiamare quelle due dure, sode e nascenti collinette che avevano appena cominciato a spuntare o a significare qualcosa al tatto, furono per un po’ occupazione e diletto delle sue mani, le quali a un certo punto presero a scendere lungo un levigato tratto, finché non sentirono il morbido e setoso cespuglietto sbucato solo pochi mesi prima a guarnire il monte del piacere promettendo di diventare lieto rifugio alla dolce sede delle più squisite sensazioni, e che fino ad allora era stata casa della più casta innocenza. Le sue dita si dilettavano ad attorcigliare i ricci di quel boschetto che la natura ha creato per l’uso e l’ornamento.

Ma non contenta di aver conquistato quell’avamposto, tentò di impossessarsi anche del luogo principale, e iniziò a frugare, a insinuarsi, e alla fine introdusse un dito proprio nella fessura, in un modo che, se non avesse proceduto con piccoli e graduali movimenti che mi infiammarono al punto di non opporre la resistenza dettata dal pudore, avrebbe dovuto spingermi a saltare fuori dal letto e gridare aiuto contro quegli strani assalti.

Al contrario, i suoi palpeggiamenti lascivi avevano acceso un fuoco nuovo dentro di me che scorreva in tutte le mie vene, ma si fissò con violenza in quel centro designato dalla natura, dove ora le prime mani estranee erano impegnate a tastare, premere, chiudere e riaprire le labbra, con un dito dentro, finché un mio «Oh!» non le fece capire che mi faceva male, poiché il passaggio inviolato si stringeva e le impediva di addentrarsi oltre.

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