Lug 272015
 

Signora,

mi appresto a fornirle una prova indiscutibile di come i suoi desideri siano per me ordini fondamentali. Per quanto il compito mi sia ingrato, le racconterò di quei momenti scandalosi della mia vita dai quali alla fine riemersi per godere del favore dell’amore, della salute e della buona sorte; mentre sono ancora nel fiore degli anni, e non è troppo tardi per sfruttare i piaceri che tanto agio e ricchezza mi concedono, mi posso dedicare a quell’attitudine niente affatto disprezzabile che, perfino nel vortice di dissolutezza in cui ero stata trascinata, mi ha permesso di osservare il carattere e i costumi del mondo, più di quanto fanno altre nella mia infelice professione, le quali considerano il pensiero e la riflessione nemici mortali dai quali tenersi il più lontane possibile o da distruggere senza pietà.

Poiché odio profondamente tutti i lunghi e inutili preamboli, di questo gliene do atto, non cercherò ulteriori scuse per prepararla a scoprire la parte dissoluta della mia vita, riportata con la stessa libertà con cui la condussi.

La verità! La verità nuda e cruda è quello che le racconterò, e non mi preoccuperò di coprirla con un velo, ma dipingerò i fatti così come mi si presentarono, senza curarmi di violare quelle regole di decenza che non si sono mai adattate alla sincera intimità che ci lega; lei ha troppo buon senso e troppa conoscenza degli originali per storcere il naso per il pudore davanti alla loro rappresentazione. I grandi signori, quelli più raffinati e di buon gusto, non si faranno scrupolo di decorare le loro stanze private con quadri di nudo, sebbene, a causa di volgari pregiudizi, non li riterranno mai degni dei lori ingressi o saloni.

Premesso ciò, ed è già abbastanza, mi lancio a capofitto nella mia storia personale. Il mio nome da ragazza era Frances Hill. Sono nata in un piccolo villaggio vicino a Liverpool, nel Lancashire, da genitori estremamente poveri e, lo credo con fervore, estremamente onesti.

Mio padre, che in seguito a una menomazione agli arti era diventato inabile ai lavori contadini più faticosi, guadagnava, intrecciando reti, uno scarso sostentamento che veniva arrotondato di poco dall’attività di mia madre, la quale teneva una piccola scuola diurna per le ragazze del vicinato. Avevano avuto diversi figli, ma nessuno era sopravvissuto eccetto me, che avevo ricevuto dalla natura una costituzione sana.

Fino ai quattordici anni e oltre, la mia educazione era stata piuttosto essenziale: leggere, o meglio compitare, scarabocchiare parole illeggibili e qualche semplice lavoretto di ricamo era tutto quello che sapevo fare; inoltre, i miei precetti di virtù si fondavano semplicemente sulla totale ignoranza del vizio, nonché sul timido pudore comune al sesso femminile in tenera età, quando le cose preoccupano o spaventano più per la loro novità che per altro. Ma in seguito quel timore troppo spesso si esaurisce a discapito dell’innocenza, e una volta signorine non consideriamo più gli uomini come predatori che vogliono divorarci.

La mia povera madre aveva diviso quasi tutto il tempo tra le sue allieve e le piccole faccende domestiche, dedicandosi molto poco alla mia istruzione e, data la sua stessa ingenuità nei confronti del male, non si era preoccupata di mettermi in guardia da esso.

Avevo da poco compiuto quindici anni quando la peggiore delle disgrazie si abbatté su di me e mi portò via i miei dolci e adorati genitori, entrambi colpiti dal vaiolo a pochi giorni di distanza. Mio padre morì per primo, accelerando di conseguenza la morte di mia madre. Fu così che mi ritrovai un’orfana infelice e senza amicizie (mio padre infatti si era trasferito lì per caso, lui era originario del Kent). Quella crudele malattia, per loro fatale, aveva colpito anche me, ma in forma più lieve e benigna, tanto che ne guarii presto e, cosa di cui allora ignoravo il valore, senza alcuna cicatrice. Tralascio ogni resoconto del dolore e dell’afflizione che provai in quei momenti drammatici. Poco tempo dopo, grazie alla spensieratezza della giovane età, dissipai troppo in fretta le riflessioni su quell’irreparabile perdita; tuttavia niente contribuì di più alla mia ripresa quanto le idee che mi furono messe in testa, di andare a Londra e di cercare lavoro come domestica. In questa avventura mi vennero promessi aiuto e consiglio da una tale Esther Davis, una giovane donna che era venuta in vista da amici e che, dopo essere rimasta alcuni giorni, sarebbe ritornata a Londra.

Al villaggio non avevo più nessuno che si preoccupasse della mia sorte o che sollevasse obiezioni su quello che stavo per fare, anzi, la donna che si era presa cura di me dopo la morte dei miei mi incoraggiò nell’impresa, così arrivai ben presto alla decisione di compiere questo salto nel vasto mondo recandomi in città in cerca di fortuna, espressione che, a proposito, ha rovinato più avventurieri di entrambi i sessi provenienti dalla campagna di quanti ne abbia mai creati o aiutati.

Inoltre Esther Davis mi confortava e spronava a seguirla stuzzicando la mia curiosità infantile con le bellezze che avrei potuto vedere a Londra: le tombe, i leoni, il re, la famiglia reale, il bel teatro, l’opera e, in breve, tutti quegli svaghi che riempivano la sua vita e la cui descrizione mi fece perdere la testa.

Non posso fare a meno di sorridere quando rammento l’innocente ammirazione, unita a un pizzico d’invidia, con cui noi povere ragazze, i cui abiti della domenica si limitavano a una camicia di lino grezzo e una gonna di lana, guardavamo gli abiti di raso frusciante di Esther, i suoi cappellini con bordi di pizzo alti un pollice, i vistosi nastri e le scarpe con le fibbie d’argento: tutte cose che immaginavamo di trovare in gran quantità a Londra, e che contribuirono in buona sostanza alla mia decisione di buttarmi per avere la mia parte.

Tuttavia l’idea di avere la compagnia di una donna di paese fu l’unico e banale motivo che spinse Esther a prendersi cura di me durante il viaggio in città, dove, mi raccontò con i suoi modi e stile, molte ragazze di campagna erano riuscite a sistemarsi insieme alle loro famiglie per sempre: preservando la virtù, alcune di loro avevano conquistato i propri padroni a tal punto da farsi sposare, e ora giravano in carrozze e vivevano nel lusso e felici. Alcune erano addirittura diventate duchesse: era tutta questione di fortuna, e poteva toccare anche a me. Questi e altri racconti contribuirono a farmi intraprendere questo viaggio di buona speranza e a lasciare un luogo in cui, pur essendoci nata, non avevo più nessuno da rimpiangere, e che mi era diventato insopportabile, perché anche l’amicizia più tenera si era trasformata in fredda compassione, perfino a casa dell’unica amica rimasta, dove avevo sperato di trovare amore e protezione. Quella donna dimostrò comunque grande onestà verso di me, perché riuscì a convertire in denaro le poche cose che mi erano rimaste dopo aver saldato i debiti e le spese funerarie, e alla mia partenza mi mise tra le mani la mia fortuna: un guardaroba molto misero sistemato dentro a un baule da viaggio, e otto ghinee e diciassette scellini d’argento in un borsellino, il più grande tesoro che io avessi mai visto tutto in una volta, e che non credevo si sarebbe mai esaurito. Infatti, ero talmente presa dalla gioia di poter gestire una somma così immensa da sola che non mi curai troppo dei consigli che mi vennero dati insieme al denaro.

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