Mar 112024
 

– Sappiate, o miei signori, che sotto il regno del Califfo Haroun-al-Rascid, mio padre vivea a Bagdad, ove son nato, e passava per uno dei più ricchi mercanti della città. Ma come egli era un uomo interamente dedito ai piaceri ed alla crapula, trascurava i suoi affari, ed invece di raccogliere grandi ricchezze alla sua morte, ebbi bisogno di tutta la maggiore economia per saldare i debiti da lui lasciati. Giunsi nonpertanto a pagarli tutti, e mediante il mio studio ed attenzione, la mia piccola fortuna, principiò a mostrare una faccia ridente.

Una mattina nell’aprire la mia bottega, una dama mi si accostò salutandomi, e mi pregò di permetterle di riposarsi, aspettando l’arrivo degli altri mercanti.

Corrisposi al suo complimento come dovea. Mi disse voler far acquisto di molte sorte di stoffe delle più belle e delle più ricche le quali nominò, e ricercommi se ne avessi.

—   Ohimè, signora! — le risposi — io sono un giovine mercante, appena ho principiato a stabilirmi e non sono ancora sufficientemente ricco per formare un negozio sì ragguardevole, ed è per me una mortificazione il non aver nulla di quello per cui siete venuta al Bezestein: ma per risparmiarvi la pena di andare di bottega in bottega, tosto i mercanti saranno venuti andrò, se desiderate, a pigliar da essi quanto bramate: me ne diranno  il giusto prezzo, e senza andar più oltre, potete far qui le vostre spese.

Ella vi aderì, e corsi a rintracciare i drappi che ella bramava, e quando ebbe scelti quelli che le piacevano, accordammo il prezzo a cinquemila dramme d’argento.

Ne formai un involto che consegnai all’eunuco, il quale se lo pose sotto il braccio; ella poscia si alzò, e se ne partì dopo essersi da me congedata. L’accompagnai con gli occhi fino alla porta del Bezestein né tralasciai di riguardarla finché non fu risalita sopra la mula.

Appena non vidi più la dama, mi accorsi avermi fatto l’amore commettere un gran fallo. M’aveva talmente confuso lo spirito da non accorgermi essersene andata senza pagare; né io le aveva dimandato chi ella fosse, e dove abitasse.

Considerai essere io debitore di una non lieve somma a molti mercanti, i quali forse non avrebbero avuto la sofferenza di aspettare. Andai a scusarmi con essi nel miglior modo possibile, dicendo loro che io conosceva la dama. Ritornai finalmente alla mia casa, innamorato ed imbarazzato di un sì gran debito. Finalmente s’impazientivano, e per soddisfarli ero pronto a vendere quanto aveva, allorché una mattina la vidi ritornare con lo stesso equipaggio.

—   Pigliate il vostro saggiuolo — mi disse — onde pesar l’oro che vi porto.

Queste parole terminarono di dissipare il mio timore, e raddoppiarono il mio affetto.

Prima che io numerassi i pezzi d’oro, ella mi fece molte interrogazioni, e fra le altre mi chiese se avessi moglie. Le risposi di no.

Essa allora, consegnando l’oro all’eunuco, disse:

—   Usate di tutta la vostra destrezza per terminare il nostro affare.

L’eunuco si pose a ridere, e avendomi tirato in disparte, mi fece pesar l’oro.

Mentre faceva ciò, egli mi disse all’orecchio:

—   Al vedervi conosco perfettamente che voi amate la mia padrona, e son sorpreso che non abbiate il coraggio di scoprirle il vostro amore. Ella vi ama ancor maggiormente di quello che voi l’amiate. Non crediate che ella abbia bisogno delle vostre stoffe; essa qui viene unicamente perché le avete inspirato una violenta passione. Per tal cagione vi ha chiesto se eravate ammogliato. A voi tocca di parlare, e da voi dipende lo sposarla, se volete.

Terminato di pesare i pezzi d’oro, mentre li poneva nel sacco, l’eunuco si volse alla dama, dicendole ch’era contentissimo.

Subito la dama alzossi e partì, dicendomi che mi avrebbe spedito l’eunuco e non avrei se non ad eseguire quanto egli mi direbbe il suo nome.

Portai ad ogni mercante il proprio denaro aspettando con impazienza l’eunuco per qualche giorno: finalmente lo vidi arrivare.

Appena giunto gli domandai notizie della sua padrona.

—   Voi siete — mi rispose — l’amante più felice del mondo; ella è inferma di amore. Se dessa potesse disporre a suo piacere di sé medesima, verrebbe personalmente a rintracciarvi e volentieri impegnerebbe con voi tutti i momenti del suo vivere.

— Alla sua aria nobile e alle sue maniere civili — gli dissi — ho giudicato che doveva esser qualche dama di considerazione.

—    Non  vi siete  punto ingannato in questo  giudizio

—   replicò l’eunuco — ella è la favorita di Zobeida, moglie del Califfo, la quale tanto più l’ama in quanto che l’ha allevata da piccina.

«Avendo la mia padrona deciso di maritarsi, ha partecipato alla moglie del gran Commendatore de’ credenti di aver fissato gli sguardi sopra di voi, chiedendole il suo assenso. Zobeida le ha risposto di aderirvi, ma prima voleva vedervi. Non si tratta adunque di altro se non di venire a Palazzo: a voi spetta stabilire la vostra risoluzione.

—   L’ho già presa, e son pronto a seguirvi ovunque volete condurmi.

—   Questo va bene — disse l’eunuco — solo dovete sapere non poter gli uomini entrare negli appartamenti delle dame di Palazzo, quindi non potete esservi introdotto se non pigliando apposite misure.

—   Bisogna adunque — mi disse — che questa sera nell’entrar della notte, vi rechiate alla moschea, aspettando colà finché vi si venga a cercare.

Aderii a quanto egli volle: aspettai con impazienza il fine del giorno, indi partii.

Vidi subito arrivare un battello, i cui remiganti erano tutti eunuchi. Essi sbarcarono e portarono nella moschea molti gran forzieri, poscia si ritirarono. Non ve ne restò se non uno solo, il quale riconobbi esser quello del quale mi aveva parlato la mattina. Vidi pure entrare la dama.

—   Non abbiamo tempo da perdere — mi disse quella, — e nel proferir ciò aprì uno dei forzieri e comandommi di mettermivi dentro: questa è una cosa — aggiunse — necessaria per la vostra e la mia sicurezza.

L’eunuco poscia, il quale era a parte della sua confidenza, chiamò i suoi compagni i quali avevano portati i forzieri e li fece riportar tutti nel battello; rimbarcati di poi la dama ed il suo eunuco si principiò a vogare co’ remi per condurmi all’appartamento di Zobeida.

Il battello arrivò innanzi alla porta del Palazzo. Appena entrati, udii gridare all’improvviso:

—   Ecco il Califfo! Ecco il Califfo! A tali parole credetti morir di paura.

—    Che portate voi adunque in questi forzieri? — egli disse alla favorita.

— Gran Commendatore de’ credenti — rispose quella — sono stoffe le quali la moglie della Maestà Vostra brama vedere.

—    Aprite, aprite — ripigliò il Califfo — voglio io pure vederle.

Fu necessità ad obbedirlo: allora sentii un sì vivo spavento da fremerne ancora tutte le volte che ci penso.

Il Califfo s’assise, e la favorita fece portare alla sua presenza tutti i forzieri l’uno dopo l’altro e li aprì. Per portar le cose a lungo, gli faceva osservare per minuto tutte le bellezze di ogni drappo in particolare. Come essa non era meno interessata di me a non aprire il forziere, ove io me ne stava rinchiuso, non si dava gran fatica a farlo portare, né vi restava altro se non quello da visitare.

—    Finiamola — disse il califfo — vediamo ancora ciò che vi è in questo.

Quando la favorita di Zobeida vide il Califfo assolutamente risoluto di far aprire il forziere in cui mi trovavo racchiuso:

—   Oh! per questo — disse — Vostra Maestà mi farà la grazia e il piacere di dispensarmi di farle vedere ciò che vi è dentro, se non in presenza di vostra moglie.

—    Questo è giusto — disse il Califfo — ne sono contento. Fate portar via i vostri forzieri.

Ella subito li fece levare e portar nella sua camera.

Appena gli eunuchi li ebbero ivi portati e si furono ritirati, ella prestamente aprì quello ove io era rinchiuso.

—    Uscite — mi disse additandomi la porta di una scala, la quale conduceva in una camera di sopra — salite, e aspettatemi.

Quando si vide in libertà venne a ritrovarmi nella camera, ove era salito, e mi fece molte scuse di tutti i timori e spaventi cagionatimi.

Dopo esserci per qualche tempo trattenuti con molto affetto:

—   È tempo — mi disse — di andarvi a riposare; io non mancherò di presentarvi domani a Zobeida mia padrona; è questa una cosa facile perché il Califfo non la vede se non la notte.

Incoraggiato da questo discorso dormii molto tranquillamente.

La mattina seguente la favorita di Zobeida, mi condusse in una sala, ove tutto era di una magnificenza, di una ricchezza, e di una eleganza indicibili.

Non vi era appena entrato, che venti schiave di una età un poco avanzata, tutte vestite di ricchi abiti e uniformi, uscirono dalla stanza di Zobeida, e vennero a disporsi davanti ad un trono, in due file eguali.

Zobeida comparve in mezzo di queste con aria maestosa, carica di gioie e di ogni sorta di pietre preziose da poter appena camminare.

Essa andò ad assidersi sul trono. Dimenticava dirvi essa esser accompagnata dalla sua dama favorita, la quale si fermò in piedi alla sua presenza, mentre le schiave, un poco più allontanate, stavano in gruppi dalle due parti del trono.

Appena la moglie del Califfo si fu assisa, le schiave, entrate per le prime, mi fecero segno di accostarmisi. Mi aprossimai nel mezzo delle due file di schiave e mi prostrai ai piedi della Principessa.

Quella mi comandò di rialzarmi e mi fece l’onore d’informarsi del mio nome, della mia famiglia e dello stato di mia fortuna, ed io le risposi con sua grande soddisfazione.

—   Sono molto contenta — mi disse — che mia figlia — così essa chiamava la sua dama favorita — abbia fatto una sì buona scelta; approvo ed acconsento che vi sposi. Parlerò al Califfo ed otterrò il suo assenso e voi qui vi fermerete: si avrà cura di voi.

Scorsi dieci giorni, Zobeida fece stendere il contratto di matrimonio; si fecero i preparativi degli sponsali: furono chiamati i ballerini e le ballerine e vi furono per nove giorni grandi feste nel palazzo.

Il decimo giorno, essendo destinata per l’ultima la cerimonia del matrimonio, la dama favorita fu condotta al bagno da una parte ed io dall’altra, e verso sera, essendomi posto a tavola mi furono apprestate di ogni sorta di vivande e d’intingoli: fra gli altri un manicaretto con l’aglio, come quello che son ora forzato di mangiare.

Io lo trovai tanto buono e delicato, che non toccai quasi nulla delle altre vivande. Ma per disgrazia, essendomi levato da tavola, mi contentai di asciugarmi le mani, invece di ben lavarmele.

Terminate finalmente tutte quelle cerimonie, fummo condotti nella camera nuziale. Rimasti soli, me le avvicinai per abbracciarla: ma ella invece di corrispondermi a’ miei trasporti, mi respinse fortemente e proruppe in ispaventevoli grida: sicché subito accorsero nella camera tutte le dame dell’appartamento.

—   Sorella mia cara — le dissero — che vi è dunque accaduto dacché vi abbiamo lasciata? Ditelo, affinché vi soccorriamo.

—   Levatemi — esclamò essa — levatemi davanti gli occhi quest’uomo incivile!!

—   Ah! signora — le dissi — in che posso io avere avuto la disgrazia d’incorrere nel vostro sdegno?

—   Voi siete un incivile — mi rispose tutta furiosa — avete mangiato l’aglio, né vi siete lavate le mani? Credete voi che io voglia soffrire un uomo così malcreato?

—    Coricatelo per terra — soggiunse ella, parlando alle dame — e mi si porti un nervo di bue.

Quelle subito mi rovesciarono a terra, e nel mentre alcune mi tenevano per le braccia ed altre per i piedi, mia moglie, crudelmente mi batté, finché le mancarono le forze.

Ella allora disse alle dame:

—   Pigliatelo, conducetelo al luogotenente criminale onde gli tagli la mano, con la quale ha mangiato l’intingolo con l’aglio.

Tutte le dame le quali mi avevano veduto ricevere mille colpi di nervo di bue ebbero di me pietà, quando udirono parlare di farmi tagliar la mano.

—   Sorella nostra cara, e nostra buona dama — dissero alla favorita — voi tropp’oltre portate il vostro risentimento! Quest’uomo per vero, non sa vivere, egli ignora il vostro grado ed i riguardi che meritate: ma vi supplichiamo di perdonargli.

—   Io non sono soddisfatta — ripigliò ella — voglio ch’egli impari a vivere e porti segni tanto visibili della sua inciviltà da non più avvisarsi di mangiare intingolo con l’aglio, senza poscia lavarsi le mani.

Nel terminar queste espressioni, mi fece legare e coricar per terra, poscia pigliò un rasoio, ed ebbe la barbarie di tagliarmi i quattro pollici.

Una donna applicò una certa radice per fermare il sangue: ciò non ostante caddi a terra svenuto.

Rinvenni dal mio svenimento e mi fu apprestato del vino da bere per farmi ricuperare le forze.

—   Ah! signora — dissi allora a mia moglie — se mi accade giammai di mangiare un intingolo con l’aglio, vi giuro che invece di una volta mi laverò le mani centoventi volte con l’alcali, colla cenere della stessa pianta e con sapone.

— Or bene — mi disse mia moglie — a questo patto m’induco a porre in dimenticanza il vostro passato, e vivere con voi.

—   Questa o signori miei — continuò il mercante di Bagdad, voltandosi alla compagnia — è la cagione per la quale rifiutava di mangiare nell’intingolo con l’aglio.

Indi continuò:

—   Nel termine di un anno mia moglie cadde inferma, e in pochi giorni morì.

Avrei potuto rimaritarmi e continuare a vivere onorevolmente a Bagdad: ma la mia smania di girare il mondo m’inspirò un altro disegno.

Vendei la mia casa, e dopo aver comprato molte specie di mercanzie, mi unii ad una carovana, e passai in Persia. Di là m’incamminai a Samarcanda, da dove son venuto a stabilirmi in questa città.

—    Questa, o Sire — disse il Provveditore il quale parlava al Sultano di Gasgar — è la storia narrata ieri da quel mercante di Bagdad alla compagnia di cui facevo parte.

—   Questa storia — disse il Sultano — contiene in sé qualche cosa di straordinario: ma non è da paragonarsi a quella del piccolo gobbo.

Il sarto, inoltrandosi e prostrandosi ai piedi del Sultano:

—   Giacché la Maestà Vostra ama le storie piacevoli, voglio narrarvene una io pure.

—   L’ascolterò volentieri — ripigliò il Sultano — ma non lusingarti che ti conceda la vita, se non sarà più interessante di quella del gobbo.

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