Apr 112020
 

«Che gli dèi e gli uomini» esclamò Eumolpo, «non vi permettano di finire così male! Fate piuttosto come dico io: il mio servo, come avete notato dal rasoio, sa fare il barbiere: vi raderà in un attimo non solo la testa ma anche le sopracciglia. Poi intervengo io e vi imprimo sulla fronte una bella scritta come si deve, perché passiate per dei bollati a fuoco. Così sarà proprio quella scritta a sviare i sospetti di chi vi sta braccando: il marchio nasconderà i vostri veri lineamenti».

Non perdemmo tempo a mettere in atto il nostro piano: dopo aver raggiunto di nascosto un angolo della nave, offrimmo testa e sopracciglia al barbiere che ce le radesse. Eumolpo, dal canto suo, ci tappezzò la fronte di lettere cubitali, disegnandoci, senza troppe economie, su tutta la faccia la ben nota sigla degli schiavi fuggiaschi. Ma per puro caso, uno dei passeggeri che era lì appoggiato al parapetto per liberarsi lo stomaco in balia del mal di mare, vedendo al chiaro di luna il barbiere in piena attività a quell’ora tanto insolita, inveendo contro quel presagio in tutto simile al voto estremo che di solito fanno i naufraghi, se ne tornò in fretta e furia alla sua cuccetta. E noi, fingendo di non dare alcun peso alle bestemmie di quel tipo alle prese con la nausea, ripiombammo nell’angoscia di prima e quindi, accovacciandoci in silenzio, trascorremmo il resto della notte in un inquieto dormiveglia.

*

LICA. «Mentre dormivo, mi è sembrato che Priapo mi dicesse: “Visto che stai cercando Encolpio, sappi che è stato da me condotto sulla tua nave”». Trifena rabbrividì e poi disse: «Manco avessimo dormito insieme! Perché anche a me è sembrato che la statua di Nettuno, da me vista nel tempio di Baia, mi dicesse: “Sulla nave di Lica ritroverai Gitone”». «Questo ti dimostra chiaramente» replicò Eumolpo, «che uomo di genio sia Epicuro, là dove mette così argutamente in ridicolo le superstizioni di questo tipo».

Ma dopo aver fatto i debiti scongiuri a seguito del sogno di Trifena, Lica osservò: «E chi ci vieta di dare un’occhiata in giro per la nave? Così, giusto per far vedere che non ce ne infischiamo dei segni del cielo».

Quel tipo che nel cuore della notte ci aveva disgraziatamente sorpresi nel pieno dei nostri maneggi, un certo Eso, saltò subito su e disse: «Ma allora chi sono quei due che stanotte davano un pessimo esempio, facendosi radere al chiaro di luna? Perché ho sentito dire che nessun mortale dovrebbe, nel corso di una traversata, tagliarsi unghie e capelli, a meno che non infuri la tempesta».

«Cosa?» saltò su a dire Lica, sconvolto da queste parole. «Qualcuno si è fatto tagliare i capelli su questa nave, e per di più nel cuore della notte? Portatemi qui subito quelle canaglie, perché voglio proprio sapere a chi devo tagliare la testa per allontanare il malocchio da questa nave!». «Sono io che l’ho ordinato» intervenne Eumolpo, «e non certo per attirare il malocchio su questa nave (visto che ci viaggio anch’io), ma perché quelle due fecce avevano i capelli così lunghi e scarmigliati che, per non dare l’impressione che la nave si fosse trasformata in una galera, gli ho ordinato di togliersi di dosso tutto quello schifo, ma nel contempo anche perché senza più quella massa di capelli sulla fronte, tutti potessero leggere chiaramente il marchio dell’infamia che si portano dietro. Pensate che oltretutto si stavano mangiando i miei soldi spassandosela con una ganza che avevano in comune. Ed è proprio a casa di quella lì che ieri notte li ho portati via inondati di vino e di profumo. Per farla breve, hanno ancora addosso l’odore di quei pochi quattrini che mi restano».

*

Così, per placare il nume protettore della nave, fu deciso di rifilarci quaranta nerbate a testa. E non ci stettero mica a pensare su: alcuni marinai con funi alla mano ci saltano addosso come furie e cercano di placare il dio tutelare col nostro sangue miserabile. Le prime tre nerbate io le ressi con la fermezza di uno spartano. Gitone, invece, alla prima tirò un urlo tanto forte, che Trifena ne riconobbe subito la ben nota voce, e non solo la padrona rimase turbata, ma anche le sue ancelle, colpite dal suono familiare di quell’urlo, si buttarono in massa sul malcapitato. Ma Gitone, bello com’era, aveva già disarmato i marinai per conto suo e, anche senza aprir bocca, stava cercando di impietosire i suoi carnefici, quando tutte le ancelle si misero a gridare in coro: «È Gitone, è Gitone! Fermi con quelle manacce! È Gitone, signora, presto!». Trifena, che aveva capito d’istinto, drizza le orecchie e si precipita dal ragazzo. Quanto a Lica, che mi conosceva benissimo, come se avesse anche lui sentito la mia voce, accorse in coperta e, senza nemmeno guardarmi la faccia e le mani, mi inquadrò subito l’arnese e palpeggiandolo con tocchi premurosi disse: «Salute a te, Encolpio». Non c’è quindi da meravigliarsi che la balia avesse riconosciuto Ulisse a vent’anni di distanza solo per una cicatrice, se a quel furbone, nonostante la mia faccia e il resto del corpo fossero resi irriconoscibili dal travestimento, bastò un unico segno di riconoscimento per identificare con tanta precisione l’uomo che lo aveva abbandonato. Trifena, invece, ingannata dal nostro trucco – credeva infatti fosse vera la lettera che avevamo incisa sulla fronte -, scoppiò a piangere e con un filo di voce si mise a chiederci in quale galera fossimo finiti nelle nostre avventure di sbandati, e di chi fossero state le mani che avevano infierito su di noi in quel modo. Però ammetteva che un po’ ce lo meritavamo tutto quel penare, noi che ce l’eravamo svignata infischiandocene delle sue attenzioni…

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