Apr 042020
 

«Certo che è una bella seccatura che il ragazzino piaccia a un estraneo. Ma non appartiene a tutti ciò che di più bello ha fatto la natura? Il sole risplende per tutti e la luna, insieme a tutte le altre stelle infinite, guida anche le bestie al pascolo. Cosa c’è di più prezioso dell’acqua? Eppure scorre per tutti. Possibile che unicamente l’amore sia un furto invece che una ricompensa? Niente affatto: io un bene che la gente non mi invidia non ce lo voglio mica avere. Un solo individuo, e per di più avanti negli anni, non mi preoccupa più di tanto. E se poi anche volesse prendere delle iniziative, gli verrebbero a mancare le energie». Dopo aver stabilito questi

principi fondamentali ed essermi preso un po’ in giro pur non credendoci granché, cominciai a far finta di dormire tutto imbacuccato nel cappuccio.

Ma all’improvviso, come se la Fortuna avesse voluto sbriciolare tutta la mia sicurezza, mi arrivò da poppa lì in coperta il lamento di una voce che diceva: «Allora mi ha preso per i fondelli?». La voce che mi fece sobbalzare era quella di un uomo, e per le mie orecchie aveva qualcosa di familiare. Come se ciò non bastasse, anche una voce di donna, pure lei imbestialita, echeggiò ancora più infervorata: «Se solo un dio mi mettesse tra le mani Gitone, glielo darei io un bel benvenuto a quel cialtrone!». Di fronte a quel suono a sorpresa, sia io che Gitone rimanemmo senza fiato col sangue che ci si gelava nelle vene. Soprattutto io, come se avessi avuto un incubo allucinante, dopo un attimo di sconcerto provai a raccogliere la voce e, tastando con il tremolio alle mani la veste di Eumolpo che era già mezzo assopito, gli dissi: «Santo dio, paparino, sai di chi è questa nave e chi sono i passeggeri?». Ma lui, seccatissimo, la prende male e replica: «È per non lasciarmi riposare in pace che hai voluto ci andassimo a imboscare nel punto più appartato della nave? Che importanza vuoi che abbia, quando ti ho detto che la nave è di Lica, un tipo di Taranto, e che porta a Taranto Trifena, un’esule?».

Fulminato da quella notizia, mi misi a tremare tutto e, tirando fuori la testa dal cappuccio, dissi: «Questa volta, o Fortuna, mi hai proprio annientato». Gitone rimase invece a lungo con la testa appoggiata sul mio petto, come se fosse sul punto di rendere la bell’anima a dio. Quando poi un sudore copioso ci richiamò entrambi alla vita, io mi buttai ai piedi di Eumolpo e gli dissi: «Abbi pietà di due cadaveri annunciati e, non fosse altro per la comune passione che abbiamo per le lettere, dammi una mano: siamo spacciati e, se la morte deve avvenire tramite tuo, finisce che è pure un beneficio». Sbalordito di fronte a questa antipatica insinuazione, Eumolpo giura su tutti gli dèi e le dee di non essere al corrente di nulla, di non averci voluto tendere alcun tipo di tranello, ma di averci fatti salire con le migliori intenzioni e in tutta buona fede su quella nave, dove già fin da prima aveva deciso di imbarcarsi. «Ma di che razza di pericoli parlate» esclamò poi, «e chi è questo Annibale che viaggerebbe con noi? Lica di Taranto, uomo assolutamente a posto, non è soltanto il comandante e il proprietario di questa nave, ma ha anche parecchi terreni e un’impresa di spedizioni, e ora sta trasportando un carico al mercato. È questo il Ciclope e il pirata con patente cui noi dobbiamo il passaggio. Oltre a lui c’è poi Trifena, una delle donne più belle del mondo, che naviga per suo piacere un po’ qua un po’ là». «Ma è proprio da questi due che noi vogliamo scappare», rispose Gitone e tutto d’un fiato spiegò ad Eumolpo che lo ascoltava trepidante le ragioni del loro odio e il pericolo che incombeva sulle nostre teste. Ma lui, in preda alla confusione e a corto di idee com’era, suggerì che ciascuno di noi dicesse la sua. «Fate finta» aggiunse «che siamo finiti nell’antro del Ciclope. A meno di buttarci in mare e liberarci così di tutti i nostri guai, bisogna pure che troviamo una via d’uscita». «Potresti invece» intervenne Gitone «convincere il pilota a fare scalo in qualche porto – ovviamente gli pagheremmo il favore -, magari raccontandogli che tuo fratello non resiste al mal di mare ed è agli sgoccioli ormai. Riuscirai a rifilargli questa frottola se mostri un viso afflitto e ti vengono le lacrime agli occhi, in modo che il pilota si lasci prendere dalla compassione e ti accontenti». Ma Eumolpo disse che una cosa del genere non era nemmeno pensabile, «perché le navi di grossa stazza» spiegò «non possono entrare nei porti piccoli, e perché alla storia del fratello che sta per andarsene lì su due piedi è difficile che ci si creda. Metti poi che Lica, per puro dovere d’ufficio, voglia dare un’occhiata al moribondo. In tal caso, sarebbe davvero un bel guadagno far venire qui il comandante proprio mentre tentiamo di svignarcela. Ammesso e concesso poi che la nave possa cambiare rotta deviando nel corso di un viaggio tanto lungo e che Lica non vada a ispezionare l’infermeria, come pensi di poter lasciare la nave senza esser visti da tutti? Con la testa coperta, o forse scoperta? Uscendo con la testa coperta, chi non vorrebbe dare una mano a dei sofferenti? Optare invece per la testa nuda, cos’altro sarebbe se non denunciarci da soli?».

«E perché» intervenni io, «non rischiare il tutto per tutto? Potremmo calarci con una fune in una scialuppa e, dopo aver tagliato la cima, affidarci in toto alla Fortuna. Ovvio però che Eumolpo in un rischio del genere non lo coinvolgiamo. Che senso avrebbe infatti esporre un innocente a un pericolo che riguarda altri? Sarei già contento se il caso ci assistesse mentre ci caliamo con la fune». «Come piano non sarebbe male» osservò Eumolpo, «se solo lo si potesse mettere in pratica. Ma come riusciremo a svignarcela senza che nessuno si accorga di noi? Per lo meno il timoniere, visto che sta su tutta la notte e sorveglia perfino i movimenti delle stelle. Ad ogni modo, riusciremmo a fregarlo caso mai stesse dormendo, ma bisognerebbe tentare la fuga in un altro punto della nave. Solo che bisogna calarsi da poppa, dove c’è il timone, perché è proprio di lì che pende il cavo che tiene la scialuppa. E poi mi meraviglio, Encolpio, di come non ti sia venuto in mente che sulla barca c’è sempre un marinaio di guardia, giorno e notte, e che non è possibile liberarsene se non eliminandolo fisicamente o scaraventandolo fuori bordo con la forza. Ma voi avreste il fegato per farlo? Per quel che poi concerne la mia partecipazione alla cosa, io non mi tiro indietro di fronte ad alcun pericolo, a patto però che ci sia una qualche speranza di riuscita. E infatti credo che nemmeno voi abbiate intenzione di buttarvi allo sbaraglio rischiando la vita per niente. Sentite un po’, invece, questa mia idea: io vi metto in due sacchi di pelle, li lego con cinghie e li metto tra i miei bagagli, lasciandone, è ovvio, un po’ aperte le estremità perché possiate respirare e mangiare qualcosa. Poi, nel cuore della notte, mi metto a gridare che i miei due servi, per paura di chissà quale tremenda punizione, si sono buttati in mare. Una volta arrivati in porto, io vi scarico come se foste dei miei bagagli e senza che nessuno se ne accorga». «Sicché» faccio io «ci vorresti impacchettare come se non avessimo buchi e non ci venisse mai il mal di pancia? O come gente che non ha l’abitudine di starnutire o russare? Oppure perché un giochetto del genere è andato bene in un’altra occasione? Ma metti pure che noi si riesca a resistere per un’intera giornata legati in quella maniera: come andrebbe a finire se la bonaccia o una tempesta ci trattenessero in mare più a lungo? Che cosa potremmo fare? Anche i vestiti, a forza di stare schiacciati, finisce che fanno le pieghe, e i fogli di carta si deformano se li si lega troppo stretti. E poi, dei giovani come noi, non abituati agli strapazzi, credi che potrebbero resistere legati e impacchettati come statue?…

*

Niente da fare. Bisogna trovare un’altra via d’uscita. State un po’ a sentire la mia di idea. Eumolpo, da buon letterato qual è, ha sicuramente dell’inchiostro con sé. Possiamo servircene e tingerci la pelle dalla testa ai piedi. Prendendoci così per degli schiavi etiopi ai tuoi ordini, riusciremo a evitare allegramente ogni pericolo senza l’incubo di torture, e col diverso colore della pelle la faremo in barba ai nostri avversari». «Ma perché allora» interviene Gitone «non ci circoncidi pure, per farci sembrare dei Giudei, o non ci fai i buchi alle orecchie che ci scambino per Arabi, o non ci spalmi la faccia di gesso così che in Gallia ci prendano per concittadini? Come se solo un po’ di colore bastasse a cambiarci i connotati, e non ci fosse bisogno di tutta una serie di accorgimenti perché il giochetto funzioni. Mettiamo pure che la tintura sulla faccia possa resistere a lungo. E supponiamo anche che qualche spruzzo d’acqua non ci riempia la pelle di macchie, o che i vestiti non si attacchino all’inchiostro (cosa questa possibilissima, anche nei casi in cui non c’è la colla), ma con le labbra come la mettiamo? Non possiamo mica deformarle gonfiandole in quell’orrenda maniera. E i capelli? Li arricciamo col ferro caldo? E la fronte? Ce la riempiamo di cicatrici apposta? E le gambe? Le facciamo diventare arcuate? Ci mettiamo a camminare coi piedi piatti? E la barba? Ce la facciamo crescere come quelli là in Etiopia? La tintura artefatta ti sporca il corpo, ma non te lo cambia. Sentite un po’ che cosa mi suggerisce la paura: tiriamoci i vestiti sulla testa e buttiamoci in mare».

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