Mag 092020
 

Dall’interno della stiva, proprio sotto la cabina del nostromo, sentiamo arrivare un gemito, come il verso strozzato di una bestia che cerchi una via d’uscita. Seguendo quindi il suono, troviamo Eumolpo che, seduto per terra, stava riempiendo di versi un grosso foglio di pergamena. Sbalorditi al vedere che anche con un piede nella fossa lui trovasse ancora il tempo di scrivere poesie, lo trasciniamo fuori nonostante le sue urla di protesta, e lo preghiamo di non fare tante storie. Ma lui, interrotto nel pieno del lavorìo poetico, salta su tutte le furie e ci investe così: «Lasciatemi finire il concetto: è proprio alla fine che viene il difficile». Afferro quell’invasato per un braccio e chiedo a Gitone di darmi una mano a trascinare a terra il poeta che intanto non la smetteva di muggire.

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E finalmente, dopo aver sistemato anche questa faccenda, ci rintanammo col morale a terra in una capanna di pescatori e lì, rifocillati in qualche modo con della roba avariata scampata al naufragio, passammo una notte terribile. La mattina dopo, mentre stavamo discutendo sulla direzione di marcia da prendere, all’improvviso vidi un corpo umano avvicinarsi alla spiaggia trascinato da una debole corrente. Rimasi tristemente sorpreso e, fissando con occhi umidi quel mare traditore, dissi: «Quest’uomo da qualche parte della terra ha una moglie tranquilla che lo aspetta, o forse un figlio che non sa nulla della tempesta, o addirittura un padre: comunque, il giorno della partenza ha lasciato qualcuno, salutandolo con un bacio. Ecco come vanno a finire i progetti degli esseri umani, i loro sogni e le loro speranze! Ecco l’uomo come sta a galla!». Ero convinto di compiangere un pinco pallino, quando un’onda gli girò verso terra il volto ancora intatto, e riconobbi quello che fino a poco tempo prima era stato il tremendo e implacabile Lica, e che adesso era lì quasi disteso davanti ai miei piedi. Non riuscii a trattenere più oltre le lacrime, e anzi, percuotendomi un paio di volte il petto con le mani, esclamai: «Dov’è finita la tua tracotanza? Dov’è ora la tua prepotenza? Ma guardati: sei in balia dei pesci e delle bestie: poco fa strombazzavi la potenza del tuo dominio, e adesso, da naufrago quale sei, di quella nave enorme non ti resta più manco una tavola. Avanti, mortali, riempitevi pure la testa di grossi progetti, muovetevi pure coi piedi di piombo, disponendo per migliaia di anni delle ricchezze accumulate col raggiro. Ma guardatelo: ieri era ancora lì che si contava tutta la sua roba, e in cuor suo aveva già stabilito il giorno del rientro in patria. O dèi e dee, com’è lontano adesso dalla sua meta! E non solo il mare è così infido per i mortali. Chi combatte lo tradiscono le armi. Chi invece fa voti agli dèi, gli crolla addosso la casa. Chi, per la fretta, si butta di corsa sul cocchio, finisce che cade e ci lascia la pelle. C’è chi si strozza di cibo, e chi muore a forza di digiuni. Se solo tiri bene le somme, il naufragio arriva dovunque. Ma è pur vero che chi è travolto dal mare non ha sepoltura: come se importasse qualcosa al corpo, che comunque è destinato a morire, se a consumarlo è il fuoco, il mare o il tempo. Qualunque cosa accada, la fine è uguale per tutti. Ma le bestie feroci faranno a pezzi il cadavere: come se il fuoco gli riservasse un trattamento migliore! Anzi, c’è da credere che sia proprio questa la pena più grave, visto che tocca agli schiavi quando ci fanno arrabbiare. Ma allora, che razza di follia è mai questa, fare cioè di tutto perché di noi non resti più nulla dopo la morte?».

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Il corpo di Lica bruciava su un rogo innalzato da mani nemiche, mentre Eumolpo, impegnato com’era a ponzare l’elogio funebre del defunto, puntava lo sguardo lontano in cerca di ispirazione.

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Dopo aver volentieri portato a termine questo pietoso ufficio, ci mettiamo in marcia e, tempo un attimo, arriviamo fradici di sudore su un’altura, e di lì riusciamo a scorgere non troppo lontano un paese arroccato in cima a una collina. Sbandati com’eravamo, non riuscivamo a riconoscerlo, finché un contadino ci informò che si trattava di Crotone, città antichissima e, un tempo, la prima d’Italia. Siccome poi cercavamo di avere maggiori ragguagli sugli abitanti di quella nobile terra e sul tipo di affari cui essi amavano dedicarsi, visto che a forza di guerra non gli era rimasto granché. «Cari forestieri» ci illuminò il tipo, «se siete commercianti, allora cambiate programma e trovatevi un altro settore nel quale sbarcare il lunario. Se invece siete dei furbacchioni che ci sanno fare e avete la menzogna facile, allora buttatevici pure perché non ci metterete molto a fare soldi. Infatti in questa città delle lettere se ne infischiano, l’eloquenza non trova spazi, e l’onestà e le buone maniere non sono per niente di moda. La gente che incontrerete in questa città, bene, sappiate che si divide in due categorie: o truffatori o truffati. In questa città i figli non li riconosce nessuno, perché chi ha un erede legittimo non lo invitano ai pranzi o a teatro, ma lo escludono da ogni piacere, costringendolo a mescolarsi in mezzo ai derelitti. Invece, quelli che non si sono mai sposati e che non hanno parenti prossimi raggiungono le cariche più alte, cioè a dire sono soltanto loro che muovono le cose, sono loro gli unici coraggiosi e onesti. Entrate in una città» proseguì, «che è come quelle campagne dove, nel pieno delle pestilenze, non si vedono altro che cadaveri dilaniati o corvi che li dilaniano».

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Eumolpo, che di noi era quello che la sapeva più lunga, si mise a riflettere sulla nuova situazione e ci confessò che a lui quel sistema di rastrellare quattrini non gli dispiaceva affatto. Sulle prime io pensai che il vecchio, un po’ suonato com’era per quella sua mania di fare versi, scherzasse, ma lui, invece, disse: «Se solo potessi disporre di un più ricco apparato scenico, cioè di un costume più presentabile, un equipaggiamento scelto, per garantire maggiore credibilità alle mie menzogne! Per dio, è un lavoretto che non rimanderei un attimo soltanto e vi procurerei soldi a palate in men che non si dica». Gli prometto di aiutarlo a procurarsi quanto gli serve, basta che si adatti a mettersi il vestito indossato nell’ultima rapina e a servirsi di ciò che avevamo portato via nel colpo alla villa di Licurgo. Quanto poi al denaro necessario lì sul momento, ce lo avrebbe procurato la madre degli dèi, bontà sua.

«E allora cosa aspettiamo» disse Eumolpo, «a incominciare la nostra messinscena? Se la cosa vi va a genio, fate finta che io sia il vostro padrone». Nessuno osò criticare quell’iniziativa, che oltretutto non ci costava nulla. E così, perché il segreto di quella farsa non uscisse dalla nostra cerchia, giurammo, attenendoci a una formula di Eumolpo, che ci saremmo fatti bruciare vivi, incatenare, bastonare, passare da parte a parte, e tutto quello che lui ci avesse imposto: ci consegnammo anima e corpo, devotamente, al nostro nuovo padrone, come se fossimo stati dei gladiatori di professione. Dopo aver prestato il giuramento e avere indossato vesti servili, salutiamo Eumolpo come padrone e insieme apprendiamo che Eumolpo aveva perduto un figlio, un ragazzo di eccezionali qualità e di belle speranze, e che il povero vecchio se ne era andato dalla sua città proprio per non avere più sotto gli occhi tutti i giorni i clienti e gli amici del figlio e quella tomba per lui causa di continue lacrime. A questo lutto si era poi aggiunto di recente un naufragio nel quale aveva perduto più di venti milioni di sesterzi, disastro questo che gli dispiaceva non tanto per la perdita in sé e per sé, quanto piuttosto perché, avendo perso il suo seguito, non si riconosceva più nel suo rango. In Africa aveva però ancora un capitale di trenta milioni in terreni e in crediti, e un numero così elevato di schiavi, sparsi un po’ in giro per le campagne della Numidia, che con loro avrebbe potuto conquistare perfino Cartagine. In base a queste premesse di copione, suggeriamo a Eumolpo di tossire spesso, di far finta di avere la gastrite e proprio per questo di rifiutare, davanti agli altri, qualunque tipo di cibo. Di parlare in continuazione di oro e d’argento, dei terreni che non rendono e della costante sterilità dei suoi sterminati possedimenti. E poi di mostrarsi ogni giorno alle prese con conti vari e di cambiare testamento una volta al mese. Infine, perché non mancasse proprio nulla a quella sceneggiata, di confondere i vostri nomi ogni volta che ci chiamava, per dare così l’impressione di ricordarsi anche dei servi che non erano lì insieme a lui.

Dopo avere rifinito il nostro piano, preghiamo gli dèi che ce la mandino buona e poi ci rimettiamo per strada. Ma Gitone non ce la faceva a portare quel carico cui non era abituato, e il servo Corace, imprecando contro il suo mestiere, a ogni passo appoggiava a terra il bagaglio, prendendosela con la nostra fretta e minacciandoci che avrebbe abbandonato lì ogni cosa, o che se la sarebbe svignata con tutta la nostra roba. «Ma cosa credete che sia» sbottò poi, «un mulo o una nave da carico? Mi sono messo a disposizione per fare il lavoro di un uomo, non di un cavallo. E non sono meno libero di voi, anche se mio padre mi ha lasciato povero». Ma dare in escandescenze non gli bastava mica: ogni tanto alzava una gamba e riempiva la strada di rumori vergognosi corredati da adeguati profumini. Queste bizze polemiche di Corace destavano il riso di Gitone, che a sua volta ne accompagnava ogni crepitio con un verso della bocca di uguale efficacia.

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