Mag 162020
 

EUMOLPO. «Cari ragazzi miei, non sapete quanti la poesia ne ha illusi. Infatti basta che uno metta insieme un verso e rabberci qualche idea in una frase elegante, che subito si crede d’essere arrivato in cima all’Elicona. Ed è per questo che moltissimi avvocati, sfiniti dal lavoro in tribunale, si rifugiano nella serenità della poesia come se fosse un porto più tranquillo, convinti che sia più facile mettere insieme dei versi che un’arringa traboccante di pensierini vigorosi. Ma uno spirito eletto disprezza la superficialità, e la mente non è in grado di concepire o di creare nulla di buono, se non è per così dire inondata dal grande fiume della cultura. È obbligatorio evitare le trivialità del lessico, e usare parole sconosciute alla massa, in modo da mettere in pratica il famoso principio

“odio il volgo profano e ne giro alla larga”.

Bisogna poi evitare che i concetti esulino troppo dal contesto generale: devono invece venir inseriti armonicamente, in modo da risplendere come i colori di un tessuto. Prova ne siano Omero e i lirici, o il romano Virgilio e Orazio che è così felice nella descrizione dei particolari. Quanto agli altri, o non sono riusciti a imboccare la strada giusta che porta alla poesia o, se l’hanno imboccata, non hanno avuto il coraggio di percorrerla fino in fondo. Per esempio, prendete un po’ un soggetto stupendo come la guerra civile: se qualcuno volesse affrontarlo senza però essere sorretto da un’adeguata mole di studi, rimarrebbe schiacciato dal peso. Il problema infatti non è tanto quello di trattare in versi una successione di eventi (campo questo in cui gli storici riescono di gran lunga meglio), quanto piuttosto quello di avventurarsi con la fantasia attraverso peripezie e interventi di divinità, vicende reali e inventate, in modo che il risultato finale sembri più il fervore di una mente davvero ispirata che non il racconto scrupoloso basato su testimonianze certe. Tipo questa mia improvvisazione, se vi va di sentirla, anche se non ha ancora ricevuto l’ultima mano:

*

«I Romani regnavano signori vittoriosi del mondo,

per terra e per mare, là dove corrono entrambi i soli,

eppure non erano sazi. E ancora solcavano i flutti

battuti da grosse carene. Se un golfo s’apriva nascosto,

o qualche terra che l’oro brillante esportasse,

lì c’era il nemico e, pronti alla triste guerra i destini,

ne predavano i beni. Non piacevano più

i piaceri di un tempo, non le gioie travolte dall’uso comune.

Lodavano il bronzo corinzio i soldati, si cercava

nel cuor della terra una luce più viva dell’ostro,

tessuti mai visti ne traevano Numidi e Seri,

e i popoli d’Arabia avevano spogliato i propri campi.

Ecco nuove stragi e ferite inferte alla pace.

Si acquistano con l’oro le belve nei boschi, si scovano

ai limiti dell’africo Ammone, che non manchi la belva

dai denti preziosi per la morte. Una fame straniera colpisce le navi,

e pace non trova la tigre tradotta con gabbia dorata,

a bere il sangue dell’uomo dinanzi a una folla festante.

Ahi, che vergogna svelare l’amaro destino che incalza!

Come fanno i Persiani, rapiscono i giovani nel fiore degli anni,

e il membro gli troncano col ferro, perché ignorino il sesso,

e ritardino il corso del tempo che vola e la fuga degli anni,

mentre cerca se stessa natura e non sa ritrovarsi.

Son le checche che piacciono a tutti coi loro flaccidi corpi,

i capelli al vento, le mille novità della moda

e tutto ciò che eccita il maschio. Sradicata dall’Africa

ecco una tavola in cedro che riverbera stuoli di schiavi

e di porpore, screziata di macchie simili all’oro,

che in bellezza lo vincono e attirano lo sguardo.

Sepolta nel vino una folla circonda questa tavola sterile

e a torto pregiata, e insegue errabondo il soldato

la preda con in pugno le armi per le strade del mondo.

Ingegnosa è la gola. Lo scaro che nuota nel mar di Sicilia

lo portano vivo alla mensa, e l’ostrica colta sui lidi lucrini

la vendono per cene sontuose, come stimolo subdolo

alla fame. Già le acque del Fasi son deserte d’uccelli,

e nel vuoto fogliame resta solo il sospiro dell’aria.

Stessa folle demenza nel Campo. Si svendono i Quiriti,

e rivolgono i voti al sonante denaro e al profitto.

Una merce è la massa, una merce è la Curia dei padri,

e il favore è in vetrina col prezzo. Anche il libero cuore

dei senatori è venuto meno, e dispersi gli averi

il potere ad altri è passato. Giace guasta dall’oro

anche la somma maestà. È sconfitto e scacciato dal popolo Catone,

ma più triste chi vinse, che a Catone i fasci ha strappato.

E infatti – questa è l’onta del popolo e il crollo

di tutti i principi – non fu l’uomo soltanto sconfitto,

ma con lui si piegò in un tratto la potenza e l’onore

di Roma. A tal punto era Roma corrotta

che vendeva se stessa e chiunque poteva predarla.

Travolta nel mentre da duplice gorgo, la plebe

cedeva al diluvio d’usura e al debito fatto sistema.

Non c’è casa sicura, non c’è corpo che pegno non abbia,

come fosse una peste che nata nel cuore dei corpi

furiosa dilani le membra tra spasimi atroci.

Le armi piacciono ai miseri, perché i beni distrutti dal lusso,

nel sangue ritrovano vita. Osa il povero che nulla rischia.

Immersa in un fango così, prostrata in pieno letargo,

che rimedi potevano scuotere Roma e sanarla,

se non della guerra il furore e le brame eccitate dal ferro?

La sorte tre capi fornì, che tutti in regioni diverse

la mortifera Enio ha travolto in un cumulo d’armi.

Crasso è preda dei Parti, giace il grande nel mare di Libia,

Giulio Roma l’ingrata del suo sangue ha cosparso,

e, quasi la terra non reggesse simili tombe,

ne disperse le ceneri. Ecco gli onori che dà la gloria.

Giace immerso nel mezzo di un’ampia voragine un luogo

tra Partenope e i campi dell’alta Dicarchi,

che lo bagna il Cocito: e l’efflato che fuori ne spira

tutto intorno si spande infuriando come vampa funesta.

Non è questa una terra che verdeggi nel tempo d’autunno,

non ne allietano il suolo le erbe, né dai molli virgulti

a primavera si leva il suono di voci tra loro discordi,

ma caos informe soltanto e rocce di pomice nera

godono dei cipressi che spuntano intorno funerei.

In quel luogo il padre Plutone solleva la testa,

cosparsa di fiamme di roghi e di cenere bianca,

e con tali parole eccita la Fortuna dal rapido volo:

“Tu che reggi ogni cosa, umana o divina che sia,

o Sorte, cui mai piacque troppo certa potenza,

che sempre ami il nuovo e appena lo hai lo rigetti,

non ti senti per caso schiacciata dal peso di Roma,

né più puoi sollevare la mole già avviata allo sfascio?

Le sue stesse forze dispregia la gioventù di Roma,

e quanto ha creato sostiene a fatica. Guarda ovunque

che sfarzo di prede e sostanze smaniose d’estinguersi.

Costruiscono case dorate che toccano il cielo,

con le rocce ricacciano l’acqua, fanno nascere il mare nei campi,

e ribelli sconvolgono l’ordine dato alle cose.

Ecco assaltano pure i miei regni. Solcata da macchine folli,

la terra si squarcia, nei monti svuotati

gemono gli antri, e mentre la pietra s’adatta a folli usi,

i Mani infernali confessano di ambire al cielo.

Per questo trasforma, o Sorte, in guerra il tuo volto pacato,

e risveglia i Romani, fornisci di anime il mio regno.

Da troppo non bagno le mie labbra nel sangue,

né l’amata Tisifone v’intinge le membra assetate,

dal giorno che il brando di Silla ne bevve a fiumi e diede

la terra alla luce orride messi nutrite di sangue”.

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