Mar 072020
 

Sollevato da quel racconto, mi misi a interrogare quel vecchio saggio…

sull’epoca dei quadri e su certi argomenti che non mi erano troppo chiari, e insieme sulle cause della decadenza della nostra età e sul perché le più belle arti fossero tanto in crisi, e in particolare la pittura di cui non era rimasta nemmeno la traccia. E lui attacca: «La sete di denaro ha portato a questo cambiamento. Nel buon tempo antico, la virtù la si apprezzava di per se stessa, le arti liberali fiorivano e gli uomini gareggiavano per evitare a tutti i costi che non rimanesse nell’ombra ciò che avrebbe potuto giovare ai secoli a venire. Fu così che Democrito distillò i succhi di tutte le erbe, e impiegò la vita intera a fare esperimenti perché le proprietà di piante e minerali non rimanessero un mistero. Eudosso, a sua volta, invecchiò sulla cima di una montagna altissima per studiare il moto delle stelle e del cielo, mentre Crisippo, perché la sua mente desse il meglio nelle invenzioni, la purificò per tre volte con l’elleboro. Tornando però alle arti figurative, Lisippo morì di inedia perché troppo preso a dare gli ultimi tocchi a una sua statua, mentre Mirone, che riusciva quasi a trasfondere nel bronzo i sentimenti degli umani e delle bestie, adesso è senza eredi. E noi invece, persi come siamo tra crapule e battone, non riusciamo nemmeno ad apprezzare le opere di un tempo, e ce la prendiamo con gli antichi, anche se poi siamo maestri e discepoli di vizi. Dov’è finita la dialettica? E l’astronomia? Che fine ha fatto quell’eccelsa via alla sapienza? Chi è mai più entrato in un tempio facendo voti per diventare eloquente? Chi per attingere alla sorgente della filosofia? Nessuno fa più voti perché il cielo ci conservi la salute e ci dia la serenità interiore. Ma uno non ha ancora varcato la soglia del Campidoglio, che subito promette un’offerta se potrà vedere sottoterra un parente pieno di soldi, un altro se scopre un tesoro, e un altro ancora se arriva a mettere insieme trenta milioni di sesterzi senza incidenti. Addirittura il senato, che invece dovrebbe essere un esempio di rettitudine e di giustizia, ha ormai preso l’abitudine di promettere mille libbre d’oro al Campidoglio e, perché nessuno si faccia troppi scrupoli sulla gran voglia di far soldi, corrompe pure il padreterno a suon di bustarelle. Dunque non ti stupire se la pittura è bella che andata, quando tutti – uomini e dèi compresi – preferiscono un bel malloppo d’oro piuttosto che tutto quanto han fatto quei due pazzoidi di greci, Apelle e Fidia.

Ma siccome ti vedo tutto concentrato su quel quadro con la presa di Troia, cercherò di spiegartene il soggetto in versi:

Già la decima estate assediava i mesti e incerti Frigi

e il nero dubbio invadeva la fede del vate Calcante,

quando al responso di Apollo crollano recise le vette

dell’Ida, cadono i tronchi tagliati gli uni sugli altri,

e già danno forma a un cavallo minaccioso. Nel vasto fianco

si apre uno squarcio di caverna che dentro nasconde

uno stuolo agguerrito d’armati. Lì s’annida un valore infuriato da

un decennio di guerra, e i Danai stipati

si celano in quel dono votivo. O patria! Noi credemmo in fuga

le mille navi e libero il suolo patrio dalla guerra.

Questo trovammo inciso sulla bestia, questo affermò

Sinone pronto al destino, possente menzogna verso il baratro.

Sciama a frotte dalle porte la gente, a offrire voti

credendo finita la guerra. Rigano i volti le lacrime,

è un pianto di gioia che invade gli animi ancora in subbuglio.

Ma nuovo timore le caccia. Capelli sciolti al vento,

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla,

vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro,

ma il volere dei numi gli fa debole il braccio,

e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno.

Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata

e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono

i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro

la mole di quercia palpita d’estranea angoscia.

Quei giovani presi andavano a prendere Troia,

finendo per sempre la guerra con frode inuaudita.

Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare,

i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde,

si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte,

quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte,

quando solca una flotta le acque del mare

che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie.

Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi,

che torcendosi spingono l’onda agli scogli,

e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi,

come alte navi. Il mare percuotono con le code,

le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi,

un bagliore di folgore incendia il mare

e le onde sono tutte un tremolio di fremiti.

Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende

e con addosso il costume frigio i due figli gemelli

di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto

li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma,

e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno

non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano,

finché morte li coglie in un mutuo terrore.

Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto,

che i due draghi già sazi di morte assalgono

e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote

tra le are e il suo corpo percuote la terra.

Così venne profanato il sacro e Troia

affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi.

Piena la luna già spandeva il suo candido raggio

guidando con luce raggiante gli astri minori,

quando dai chiusi recessi liberano i Danai i guerrieri

tra i Priamidi immersi nel sonno e nel vino.

Tutti i capi sono in armi già pronti alla strage,

come un cavallo tessalo che a briglia sciolta

scuote alta la testa e agita l’irta criniera

prima di darsi al galoppo. Sguainano le spade,

imbracciano saldi gli scudi e ovunque son pronti

all’assalto. Uno sgozza i nemici ancora immersi nel vino,

e dal sonno alla morte li invia, un altro accende

le torce alla fiamma degli altari,

e il dio di Troia contro Troia invoca».

Alcuni di quelli che passeggiavano sotto i portici cominciarono a prendere a pietrate Eumolpo che stava declamando. Ma lui, che doveva essere abituato a quel tipo di applausi rivolti alle sue tirate, si riparò la testa e sgattaiolò fuori dal tempio. Quanto al sottoscritto, tremai al pensiero di essere preso anch’io per un poeta. E così, seguendolo nella fuga, arrivai alla spiaggia, e non appena ci trovammo fuori dalla portata delle sassate, gli gridai: «Ehi, ma cosa diamine ti sei messo in testa con questa mania? Siamo insieme da meno di due ore e invece di parlare da persona normale continui a recitare versi. Non mi stupisco davvero se la gente ti prende a sassate! Anzi, bisogna che mi faccia anch’io una bella scorta di pietre, così, ogni volta che attacchi a dar fuori di matto, ti faccio uscire pure io un po’ di sangue dalla testa». Lui scuote la testa e mi fa: «Caro il mio giovanotto, non crederai mica che oggi sia stato il mio debutto? No, e tutte le volte che salgo su un palcoscenico per declamare qualcosa, la gente mi riserva sempre un trattamento del genere. Ma dato che non ho alcuna intenzione di mettermi a litigare anche con te, ti prometto che oggi ne farò a meno per tutto il giorno». «Benissimo: se oggi la pianti con la tua fissazione» faccio io, «allora ce ne andiamo a mangiare insieme».

*

Perciò ordino alla proprietaria della locanda di prepararci una bella cenetta…

*

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