Ott 052019
 

Mentre Ascilto, stremato da tutte quelle avventure, non si reggeva più in piedi dal sonno, l’ancella da lui prima ingiuriosamente respinta gli sfrega tutta la faccia con della fuliggine e gli tatua sui fianchi e sulle spalle tanti bei cazzetti senza che lui se ne accorga. Anch’io, stremato com’ero da tutti quegli accidenti, comincio a pregustarmi il piacere di un sonnellino. Lo stesso fa la servitù dentro e fuori la sala da pranzo: c’è chi si stravacca tra i piedi degli invitati, chi invece ronfa accasciato contro le pareti, mentre altri se la dormono in piedi sulla porta, testa contro testa, mentre le lampade, con l’olio ormai quasi finito, spandono una luce fioca e tremolante. In quel momento due schiavi siriani entrano nella sala da pranzo per portarsi via una bottiglia: mentre se la contendono con la bava alla bocca in mezzo a tutti quegli argenti, la bottiglia sgraffignata cade e va in mille pezzi. Insieme a tutta l’argenteria crolla a terra anche il tavolo e capita che un bicchiere schizzato in aria per poco non mandi al creatore una serva stravaccata su un letto. Per la botta la tipa caccia un urlo e automaticamente stana i ladri svegliando parte della gente ubriaca. I due siriani venuti a fare il colpo, quando si vedono scoperti, in un attimo si lasciano cadere ai piedi di un letto, come da copione, e attaccano a russare quasi stessero dormendo da un pezzo.

L’addetto al triclinio, svegliato anche lui, versa dell’olio nelle lampade ormai in riserva, mentre i servi più giovani, dopo essersi stropicciati un attimo gli occhi, tornano alle loro faccende, proprio mentre entra in sala una virtuosa di cembalo che ci sveglia tutti con un colpo di piatti.

Il festino riprende e Quartilla invita di nuovo a trincare. La tipa del cembalo fa crescere l’allegria della gozzoviglia.

*

Entra di nuovo il culattone, uomo di rara demenza e in tutto all’altezza di quella casa, il quale, dopo aver fatto scrocchiare le dita fino a farsi male, se ne esce con questi versi:

Qua, qua radunatevi qua mie morbide checche,

avanti, correte veloci, librate nel vento le piante,

veloci di coscia, di natica lesti, di mano sfrontati,

miei vecchi, adorati, castrati di Delo.

Dopo aver chiuso coi suoi versi, mi sbava la faccia con un bacio schifosissimo. Poi mi salta sul letto e mettendocela tutta riesce a spogliarmi anche se io non voglio, e si dà molto da fare, e a lungo, con le mie parti basse, senza grossi risultati. Dalla fronte fradicia di sudore gli colano rivoli di belletto, mentre nelle grinze del viso c’era tanto di quel fondotinta che l’avresti scambiato per un muro scrostato dalla pioggia battente.

Non riesco a trattenere più a lungo le lacrime e, arrivato al colmo dell’avvilimento, esclamo: «Mia signora perdonami, ma avevi ordinato di portarmi il vasino?». Lei batte con grazia le mani e replica: «Ma che tipo sottile e che spirito da uomo di mondo! Ma come? Non avevi capito che qui i culattoni li chiamiamo vasini?». Poi, perché ce ne fosse anche per il mio socio, osservo: «Ma abbiate pazienza: possibile che su questo divano Ascilto sia l’unico a essere lasciato in pace?». «Allora» risponde Quartilla, «portate il vasino anche ad Ascilto!». A queste parole il culattone cambia cavallo e, saltando addosso al mio compare, se lo lavora a colpi di chiappe e di baci. Gitone, che era in piedi lì in mezzo, si sbellicava dal ridere. Quartilla, dopo averlo avvistato, si informa per filo e per segno di chi sia il ragazzino. E quando io specifico che è mio fratello, lei ribatte: «Perché allora non mi ha baciata?». Lo chiama lì da lei, gli si attacca alla bocca. Poi, ficcandogli le mani sotto il vestito, e tastandogli l’arnese ancora in erba, commenta: «Questo verrà bene da antipasto nell’orgia di domani: oggi che mi sono beccata una mazza asinina, di robetta così ne posso fare a meno».

*

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