Ott 122019
 

Mentre diceva queste cose, Psiche ridendo le sussurra all’orecchio qualcosa che non riesco a capire. «Ma certo», esclama Quartilla, «è proprio un ottimo suggerimento. Non è forse una magnifica occasione per far sverginare la nostra Pannichide?». Fanno subito entrare una ragazzina abbastanza graziosa e che non dimostra più di sette anni, la stessa che era entrata nella nostra camera insieme a Quartilla. Tutti applaudono e chiedono che si celebrino le nozze; io, invece, rimango di sasso e dico che né Gitone, ragazzo quanto mai rispettoso, avrebbe mai avuto il fegato di commettere una simile porcata, né la ragazzina aveva l’età per sostenere da donna fatta un assalto in piena regola. «Non crederai mica» interviene Quartilla «che questa qui sia più giovane di quanto ero io la prima volta che mi è toccato andare con un uomo? Che Giunone mi strafulmini, se mi ricordo d’essere mai stata vergine! Da bambina ho perso il mio onore coi coetanei, poi, col passare degli anni, me la facevo con ragazzi sempre più grandi, e così fino ad oggi. Anzi, credo che proprio di lì venga il proverbio che dice “chi riesce a reggere un vitello, domani potrà sollevare un toro”». Così, per evitare che al fratellino possa succedere qualcosa di peggio lontano da me, mi alzo per assistere alla cerimonia nuziale.

Psiche aveva già avvolto la testa della ragazzina nel velo nuziale rosso porpora, il culattone ci stava già facendo strada con la torcia in mano, e le donne, ubriache com’erano, applaudivano schierate in fila, mentre sul letto avevano già sistemato la coperta destinata allo stupro. Quartilla allora, più infoiata ancora da quella messinscena, si alza anche lei, afferra Gitone per mano e lo trascina in camera.

A dir la verità la cosa non fa granché schifo al ragazzo, né sembra che la bimbetta si spaventi a sentir parlare di nozze. Così, mentre i due si buttano a letto dopo esser stati chiusi dentro, noi ci sediamo di fronte alla porta della stanza, e Quartilla è la prima che, ficcando il suo occhio vizioso in un foro praticato apposta, spia con morbosa curiosità i giochetti dei due poppanti. Poi, con tocchi sinuosi, spinge anche me a contemplare quello spettacolo, ma, siccome così facendo ci sfioriamo la faccia, lei – non appena la scenetta ha un attimo di tregua – sporge in quell’attimo le labbra e come di nascosto mi slinguazza furtiva la bocca a colpi di baci.

*

Buttati sui letti, passiamo il resto della notte senza nulla temere.

*

Arriva il terzo giorno, cioè quello che noi aspettiamo per partecipare alla cena d’addio. Solo che, rotti com’eravamo in tutto il corpo, l’idea di alzare i tacchi ci andava più a genio che la prospettiva di starcene lì a poltrire. Così, mentre discutiamo mogi mogi su quale sia il modo migliore per evitare la tempesta che c’è nell’aria, arriva a liberarci da ogni perplessità un servo di Agamennone che ci interpella: «Come? Ma allora non sapete da chi si va oggi! Da Trimalcione, uno che scoppia di soldi, e in sala da pranzo ha un orologio e un trombettiere, piazzato lì apposta per ricordargli via via quanto tempo della sua vita se n’è andato». A queste parole, scordandoci di tutti i nostri guai, ci intabarriamo per bene e ordiniamo a Gitone – ben felice di recitare la parte dello schiavo – di venire con noi alle terme.

Nel frattempo, senza stare a spogliarci, ci mettiamo a gironzolare… anzi a fare battute passando da un gruppo all’altro, quando all’improvviso vediamo un vecchio crapa pelata con addosso una tunica rosso fuoco, impegnato a giocare a palla in mezzo a dei giovani con i capelli lunghi. Ciò che colpì la nostra attenzione non erano tanto i ragazzi (anche se ne valeva la pena), quanto piuttosto il loro padrone che, con le pantofole ai piedi, si stava allenando con una palla color verde pisello. Il bello è che non raccattava mica quelle che cadevano a terra, ma c’era lì un servo pronto con una sacca piena di palle di riserva da distribuire ai giocatori. Notammo anche delle altre bizzarrie: impalati alle estremità opposte del cerchio c’erano i due eunuchi, il primo con in mano un pitale d’argento, il secondo intento a conteggiare non tanto le palle che passavano di mano in mano nel corso del gioco, quanto quelle che cadevano a terra. Mentre noi siamo lì a guardare a bocca aperta quelle finezze, arriva di corsa Menelao che dice: «Ecco da chi andate a mangiare stasera, anche se quel che avete visto è soltanto l’inizio». Menelao aveva appena finito di parlare, che Trimalcione schiocca le dita e a quel segnale l’eunuco porge il pitale al giocatore. E quello, dopo aver scaricato la vescica, si fa portare dell’acqua per le mani, la sfiora appena con le dita e quindi se le asciuga coi capelli di uno dei ragazzi.

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