Feb 092019
 

Emma fu stoica, l’indomani, quando il signor Hareng, l’usciere, si presentò da lei con due testimoni per redigere il verbale di pignoramento.

Cominciarono dallo studio di Bovary e non tennero conto della testa frenologica, che venne considerata strumento di lavoro, ma contarono tutti i piatti in cucina, le marmitte, le sedie, i candelieri, e, nella camera da letto, tutti i soprammobili dello scaffale. Esaminarono gli abiti, la biancheria, lo spogliatoio, e tutta l’esistenza della signora Bovary, fin nei più intimi recessi, fu simile a un cadavere al quale venga fatta l’autopsia, distesa per tutta la sua lunghezza, sotto gli occhi di questi tre uomini.

Il signor Hareng, tutto abbottonato in una stretta giacca nera, con la cravatta bianca e le staffe ben tese, ripeteva di tanto in tanto:

«Permette, signora? Permette?»

Spesso esclamava:

«Bello! … molto grazioso!»

Poi si rimetteva a scrivere, intingendo la penna nel calamaio di corno che reggeva nella mano sinistra.

Quando ebbero finito con la casa salirono in soffitta.

V’era uno scrittoio ove si trovavano le lettere di Rodolphe. Fu necessario aprirlo.

«Ah! Corrispondenza!» disse il signor Hareng con un sorriso discreto «Ma mi deve consentire… devo accertarmi che la scatola non contenga altro.»

E inclinava le lettere con delicatezza, come se volesse farne cadere napoleoni. Emma si sentì prendere dal disgusto vedendo quelle grosse mani rosse e molli come lumaconi posarsi sui fogli che le avevano fatto battere il cuore.

Alla fine i tre se ne andarono.

Félicité rientrò. Emma l’aveva mandate a spiare Bovary per tenerlo lontano e ora tutte due fecero nascondere in soffitta il custode degli oggetti pignorati, e l’uomo giurò di rimanervi.

Charles, quella sera, parve pensieroso. Emma lo teneva d’occhio con uno sguardo pieno di angoscia, credendo di scorgere accuse nelle rughe del volto di lui. Poi, quando volgeva gli occhi a guardare il caminetto dal parafuoco cinese, le ricche tende, le poltrone, tutte quelle cose che avevano lenito l’amarezza della sua vita, Emma si sentiva prendere dal rimorso o meglio da un rimpianto immenso che acuiva la sofferenza invece di diminuirla. Charles attizzava placido il fuoco, i piedi appoggiati agli alari.

Vi fu un momento in cui il custode, che certo stava annoiandosi nel suo nascondiglio, fece un po’ di rumore.

«C’è qualcuno che cammina di sopra?» disse Charles.

«No,» rispose Emma «è un abbaino rimasto aperto che il vento fa sbattere.»

Emma partì per Rouen l’indomani, una domenica, per andare da tutti i banchieri di cui conosceva il nome. Erano in campagna o in viaggio. Non si arrese, chiese denaro a quelli che le riuscì di incontrare dichiarando di averne estremo bisogno e assicurando una pronta restituzione. Rifiutarono tutti, qualcuno le rise in faccia.

Alle due si precipitò da Léon, bussò alla porta. Nessuno venne ad aprire. Alla fine egli comparve:

«Perché sei venuta?»

«Ti disturbo?»

«No, ma…»

Confessò che il padrone di casa non voleva assolutamente che lui ricevesse ‘donne’.

«Devo parlarti» disse Emma.

Allora Léon prese la chiave. Emma lo trattenne.

«Oh! No, laggiù, nella nostra camera.»

Andarono all’Hotel de Boulogne.

Non appena furono arrivati, Emma bevve d’un fiato un bicchiere d’acqua. Era pallidissima. Gli disse:

«Léon, devi farmi un piacere».

E stringendolo con forza, scotendolo per le braccia, soggiunse:

«Ascolta, ho bisogno di ottomila franchi!»

«Sei pazza!»

«Non ancora.»

E subito, raccontandogli la storia del sequestro, gli disse la sua angoscia; Charles non sapeva nulla, la suocera la detestava, papà Rouault non poteva far niente, ma lui, Léon, doveva darsi da fare per trovarle questa indispensabile somma…

«Come vuoi che?…»

«Quanto sei vigliacco!» esclamò lei.

A questo punto Léon disse, scioccamente:

«Forse esageri la gravità della cosa. Può darsi che con un migliaio di scudi quell’individuo diventi ragionevole».

Ragione di più per compiere qualche tentativo, non poteva credere che non fosse possibile trovare tremila franchi. D’altronde, Léon avrebbe potuto garantire per lei.

«Va’! Tenta! È necessario! Corri! … Oh! Prova! Prova! Ti amerò ancora di più!»

Léon uscì, tornò in capo a un’ora, e disse con un viso grave:

«Sono stato da tre persone… inutilmente!»

Rimasero seduti, l’uno di fronte all’altra, ai lati del caminetto, immobili e senza parlare.

Emma alzava le spalle e pestava i piedi. Léon la sentì mormorare:

«Al tuo posto, io li avrei trovati!»

«E dove?»

«Al tuo studio!»

E lo guardò.

Un’infernale audacia si sprigionava dalle sue pupille ardenti e le palpebre socchiuse conferivano allo sguardo un’espressione lasciva e ipnotica — tanto che il giovane si sentì divenire debole sotto l’effetto della tacita volontà di quella donna che lo spingeva al crimine. Ebbe paura, e, per evitare ogni spiegazione, si batté la fronte esclamando:

«Morel deve tornare stanotte! Non mi rifiuterà un piacere, spero (era uno dei suoi amici, il figlio di un negoziante assai ricco) e io ti porterò il denaro domani» soggiunse.

Emma non ebbe l’aria di accogliere questa nuova speranza con la gioia che lui si era aspettato. Sospettava forse l’inganno? Léon continuò arrossendo:

«Quindi, se per le tre non sarò di ritorno, non mi aspettare, cara. Ora devo proprio andare, scusami. Addio!»

Le strinse la mano, ma la sentì inerte. Emma non aveva più la forza di provare un sentimento qualsiasi.

Sonarono le quattro, ella si alzò per tornare a Yonville obbediente come un automa, alla spinta dell’abitudine.

Era una bella giornata, una di quelle giornate del mese di marzo chiare e rigide, nelle quali il sole splende in un cielo tutto bianco.

Gli abitanti di Rouen, con gli abiti della festa, passeggiavano e avevano l’aria di essere felici. Emma arrivò sulla piazza del sagrato. La gente usciva dai vespri, fluendo dai tre portali come un fiume sotto le arcate di un ponte, e in mezzo, più immobile di una roccia, c’era lo scaccino.

Emma ricordò allora il giorno in cui, ansiosa e piena di speranza, era entrata sotto la grande navata che si apriva davanti a lei, meno profonda del suo amore, e proseguì, piangendo sotto il velo, stordita, barcollante e vicina a svenire.

«Attenzione!» gridò una voce giungendo da un portone che stava schiudendosi.

Emma si fermò per lasciar passare un cavallo scalpitante fra le stanghe di un tilbury, guidato da un gentiluomo in pelliccia di zibellino. Chi poteva essere? Emma lo conosceva… La vettura partì al galoppo e scomparve.

Ma sì, era lui, il Visconte! Si voltò: la via era deserta. Si sentì così abbattuta, così triste che dovette appoggiarsi contro il muro per non cadere.

Pensò poi di essersi sbagliata. Le sembrava di non sapere più nulla. Tutto, dentro e fuori di lei, stava abbandonandola. Si sentì perduta, sbattuta a caso in abissi indefinibili, e quasi con gioia arrivando alla Croce Rossa scorse quel brav’uomo di Homais che sorvegliava il carico di una grossa scatola piena di medicinali sulla Rondine, reggendo con una mano un fazzoletto contenente sei gallette per la moglie.

Alla signora Homais piacevano molto questi panini compatti, fatti come un turbante, che si mangiano in quaresima con il burro salato: ultimi superstiti dei cibi medievali risalenti forse al secolo delle crociate e dei quali un tempo i robusti Normanni si rimpinzavano, illudendosi forse di vedere sulla tavola, alla luce delle torce gialle, fra le brocche di vino dolce aromatizzato con la cannella, e i giganteschi salumi, le teste dei saraceni da divorare. La moglie dello speziale li sgranocchiava come loro, a dispetto della pessima dentatura, e così, Homais, tutte le volte che faceva un viaggio in città, non mancava mai di portargliene acquistandoli sempre da uno specialista di Rue Massacre.

«Felice di vederla» disse ora, offrendo la mano a Emma per aiutarla a salire sulla Rondine.

Appese il fagottino dei panini alla bacchetta della reticella e rimase a capo scoperto e a braccia conserte in un atteggiamento pensoso e napoleonico.

Ma quando, come al solito, ai piedi della salita, incontrarono il cieco, esclamò:

«Non riesco a capire come le autorità possano tollerare ancora simili speculazioni! Dovrebbero rinchiudere questo infelice e costringerlo a un lavoro qualsiasi! Il Progresso, parola d’onore, va a passo di lumaca. Siamo ancora in piena barbarie».

Il cieco tendeva il cappello, che ballonzolava di fianco alla portiera, come una tasca di tappezzeria schiodata.

«Ecco un esempio di scrofolosi» disse il farmacista.

Per quanto conoscesse questo povero diavolo, finse di vederlo per la prima volta, mormorò parole come cornea, cornea opaca, sclerotica, facies, poi gli domandò in tono paterno:

«È molto tempo, amico mio, che soffri di questa spaventosa infermità? Invece di ubriacarti all’osteria, faresti meglio a seguire un regime».

Gli suggerì di bere del buon vino, della buona birra, di mangiare carni arrostite. Il cieco continuava la sua canzone: sembrava quasi un idiota. Alla fine Homais aprì il borsellino.

«Tieni, eccoti un soldo, dammi due centesimi di resto: e non dimenticarti i miei consigli, ti troverai contento.»

Hivert si permise di esprimere qualche dubbio, a voce alta, sulla loro efficacia. Ma lo speziale affermò che lo avrebbe guarito lui stesso, con una pomata antiflogistica di sua invenzione, e diede al mendicante il proprio indirizzo.

«Signor Homais, vicino al mercato; sono abbastanza noto.»

«Bene,» disse Hivert «invece di pagare, ci farai vedere una delle tue rappresentazioni.»

Il cieco si accosciò, rovesciò il capo, roteò gli occhi verdastri, tirò fuori la lingua e si strofinò lo stomaco con le mani, e intanto emetteva un urlio sordo, come un cane affamato. Emma, colma di disgusto, gli gettò al di sopra della spalla una moneta da cinque franchi. Era tutto quello che possedeva. Le sembrò bello spenderlo così.

La vettura era già ripartita quando Homais si spenzolò dal finestrino e gridò:

«Niente farinacei, né latticini! Portare indumenti di lana sulla pelle ed esporre le parti malate al fumo delle bacche di ginepro».

La vista dei noti paesaggi che le sfilavano davanti agli occhi distolse a poco a poco Emma dagli attuali dispiaceri. Una stanchezza insopportabile l’assalì, la ridusse quasi ebete, scoraggiata, mezzo addormentata.

«Accada quel che vuole» si diceva.

E poi, chissà? Perché da un momento all’altro non sarebbe potuto capitare qualcosa di straordinario? Lo stesso Lheureux avrebbe potuto morire.

Fu svegliata alle nove del mattino da un rumore di voci sulla piazza. C’era una gran ressa intorno al mercato per leggere un affisso incollato su uno dei pali, ed Emma vide Justin che saliva su un paracarro e lo stracciava. Ma nello stesso istante la guardia campestre gli posò la mano sul colletto. Il signor Homais uscì dalla farmacia e la signora Lefrançois, in mezzo alla folla, aveva tutta l’aria di tenere una concione.

«Signora! Signora!» gridò Félicité entrando.«È terribile!»

E la povera ragazza, molto turbata, le tese un foglio giallo che aveva appena staccato dalla porta. Emma lo scorse con un rapido colpo d’occhio e lesse che tutta la sua mobilia era in vendita.

Si guardarono in silenzio. Domestica e padrona non avevano alcun segreto fra loro. Alla fine Félicité sospirò:

«Se fossi in lei, signora, andrei dal signor Guillaumin».

«Credi?»

E questa domanda voleva dire:

“Tu che conosci la casa attraverso il domestico, forse il padrone ha parlato qualche volta di me?”

«Sì, ci vada, farà bene ad andarci.»

Emma si vestì, si mise l’abito nero con la mantellina guarnita di giaietto; per non farsi vedere (v’era ancora una gran folla nella piazza) prese il sentiero che passava fuori del villaggio, in riva al fiume.

Arrivò tutta ansimante davanti al cancello del notaio. Il cielo era scuro e cadeva qualche fiocco di neve.

Al suono del campanello, Théodore, in panciotto rosso, apparve sulla scalinata, venne ad aprirle, quasi con familiarità, come a una vecchia conoscenza, e la fece entrare nella sala da pranzo.

Una grossa stufa di maiolica borbottava sotto un cactus che riempiva la nicchia; incorniciati di legno nero spiccavano, sulla parete tappezzata con una carta di parati che imitava i pannelli di quercia, l’Esmeralda di Steuben e il Putifarre di Schopin. La tavola apparecchiata, due scaldavivande d’argento, i pomoli delle porte di cristallo, il pavimento di legno e i mobili, tutto risplendeva di una pulizia meticolosa, anglosassone; le finestre erano decorate agli angoli da vetri colorati.

“Ecco una stanza da pranzo come piacerebbe anche a me averne una” pensava Emma.

Il notaio entrò, stringendosi contro il corpo, con il braccio sinistro, la veste da camera a disegni di palme, mentre toglieva, e subito rimetteva in capo con l’altro, la papalina di velluto marrone, pretenziosamente posata di sghimbescio sul lato destro della testa, ove ricadevano le estremità di tre ciocche bionde che, partendo dall’occipite, gli circondavano il cranio calvo.

Dopo averle offerto una sedia, sedette a sua volta per fare colazione, scusandosi molto per la mancanza di riguardo.

«Signore,» disse Emma «vorrei pregarla…»

«Di cosa signora? L’ascolto.»

Emma cominciò ad esporgli la situazione.

Il dottor Guillaumin già la conosceva, essendo nascostamente legato al mercante di stoffe, dal quale trovava sempre i capitali necessari ai prestiti ipotecari che i suoi clienti gli chiedevano di trattare. Era al corrente meglio di lei, quindi, della lunga storia di queste cambiali, di minima entità al principio, girate poi al nome di varie persone, distanziate a lunghe scadenze e rinnovate di continuo, fino al giorno in cui, riuniti tutti i protesti, il mercante aveva incaricato l’amico Vinçart di procedere a nome suo secondo quanto stabiliva la legge, per non fare con i concittadini la figura dello sciacallo.

Emma inframmezzò al racconto recriminazioni contro Lheureux, alle quali il notaio rispondeva di tanto in tanto con parole prive di ogni significato.

Mangiando la costoletta e bevendo il tè, abbassava il mento sulla cravatta blu-cielo, tenuta a posto da due spille di brillanti, riunite da una catenella d’oro, e sorrideva di uno strano sorriso, dolciastro e ambiguo. Ma, accorgendosi che Emma aveva i piedi umidi, disse:

«Si avvicini alla stufa… li appoggi più in alto, contro la porcellana».

Emma temeva di insudiciarla.

Il notaio asserì in tono galante: «Le belle cose non rovinano mai nulla».

Allora la signora Bovary cercò di commuoverlo, e, commovendosi ella stessa, gli raccontò le miserie di casa sua, le ristrettezze, i bisogni. Il notaio capiva tutto ciò: una donna così elegante! E, senza smettere di mangiare, si era girato del tutto verso di lei, e le sfiorava con il ginocchio la scarpa, la cui suola si incurvava fumando contro la stufa.

Ma, quando Emma gli chiese mille scudi, strinse le labbra, poi si dichiarò spiacentissimo di non aver avuto prima la direzione degli affari della signora Bovary, poiché vi sarebbero stati cento modi, comodissimi anche per una signora, di far fruttare i suoi denari. Avrebbero potuto azzardare quasi a colpo sicuro eccellenti speculazioni sia nelle torbiere di Grumesnil sia nei terreni di Havre. E lasciò che la rabbia la divorasse al pensiero delle somme fantastiche che avrebbe certo guadagnato.

«Come mai» soggiunse «non si è rivolta a me?»

«Proprio non lo so» disse Emma.

«Perché, poi?… Le facevo dunque tanta paura? Io dovrei rammaricarmi più di lei, se le cose sono andate così! È tanto se ci conosciamo! Le sono però assai devoto, spero che non ne dubiti, almeno.»

Tese la mano, prese quella di Emma, la baciò avidamente, poi se la mise sul ginocchio e giocava con delicatezza con le dita, dicendo mille paroline dolci.

La sua voce incolore sussurrava come un ruscello che scorre, una scintilla brillava nelle pupille di lui attraverso il luccichio degli occhiali e le sue mani avanzavano nelle maniche di Emma per palparle le braccia. La signora Bovary sentiva contro la gota il soffio di un respiro ansimante.

Quell’uomo la infastidiva moltissimo.

Si alzò di scatto dicendo:

«Signore, sto aspettando».

«Che cosa?» fece il notaio, divenuto all’improvviso estremamente pallido.

«Questo denaro.»

«Ma…»

Poi, cedendo all’impeto di un desiderio troppo forte, disse:

«Ebbene, sì!»

Si trascinò in ginocchio fino a lei, senza riguardi per la propria vestaglia.

«Per favore, rimanga! Io l’amo.»

L’afferrò per la vita.

Un fiotto di sangue salì al viso della signora Bovary. Ella indietreggiò con un’espressione terribile, gridando:

«Lei sta approfittando con impudenza della mia disgrazia, signore! Mi si può compiangere, ma non sono in vendita!»

E se ne andò.

Il notaio rimase di stucco, gli occhi fissi sulle belle pantofole ricamate. Erano il regalo di un’innamorata e questa vista finì per consolarlo. D’altra parte riteneva che un’avventura di quel genere lo avrebbe potuto condurre troppo lontano.

“Quel miserabile, quel mascalzone!… Che infamia!” si diceva Emma, fuggendo con passo nervoso sotto i pioppi della via. Il disappunto per l’insuccesso rendeva ancora più forte l’indignazione per il suo pudore offeso. Aveva l’impressione che la Provvidenza si accanisse a perseguitarla, si sentiva piena di orgoglio e non aveva mai avuto tanta stima di sé e tanto disprezzo per gli altri. Un non so che di bellicoso la trascinava. Avrebbe voluto percuotere gli uomini, rompere loro la faccia, annientarli tutti, e camminava rapida, pallida, fremente, irata, scrutando con gli occhi pieni di lacrime l’orizzonte deserto, quasi godendo dell’odio che la soffocava.

Quando fu in vista di casa sua si sentì presa da un senso di stordimento. Non riusciva più ad andare avanti; ma non poteva fare diversamente e poi, dove sarebbe potuta fuggire?

Félicité l’aspettava sulla porta.

«Ebbene?»

«No!» disse Emma

E, per un quarto d’ora, passarono in rassegna tutte le diverse persone di Yonville che sarebbero potute essere disposte ad aiutarla. Ma ogni volta che Félicité nominava qualcuno, Emma obiettava:

«Non è possibile! Non acconsentiranno mai!»

«E il signore sta per tornare!»

«Lo so… Lasciami sola.»

Aveva tentato tutto. Ormai non c’era più nulla da fare, e quando Charles fosse arrivato, gli avrebbe detto:

«Togliti di lì. Il tappeto sul quale cammini non è più tuo. Di tuo, in questa casa, non c’è più un solo mobile, una spilla, una pagliuzza, e sono stata io a rovinarti, pover’uomo!»

Lui allora sarebbe scoppiato in singhiozzi, avrebbe pianto a lungo, e alla fine, superata la sorpresa, avrebbe perdonato.

«Sì» mormorava Emma digrignando i denti «mi perdonerà, lui, al quale non sarebbe sufficiente un milione da offrirmi perché io possa scusarlo di avermi conosciuta… Mai! Mai!»

Il pensiero dell’autorità di Bovary su di lei l’esasperava. E poi, che confessasse o non confessasse, subito, di lì a poco o domani, la catastrofe sarebbe accaduta lo stesso; era forse meglio aspettare questa scena orribile e subire il peso della magnanimità di lui. Le venne voglia di tornare da Lheureux: ma a che scopo? Per scrivere a suo padre, era ormai troppo tardi. E forse adesso si pentiva di non aver ceduto all’altro, quando udì il trotto di un cavallo sul viale. Era Charles; aprì il cancello, era più pallido del muro di gesso.

Barcollando giù per la scale, Emma fuggì per la piazza, e la moglie del sindaco, che chiacchierava davanti alla chiesa con Lestiboudois, la vide entrare dall’esattore.

Corse a dirlo alla signora Caron e le due donne salirono in soffitta, là, nascoste fra la biancheria stesa sulle corde fra due pali, si appostarono comodamente per osservare l’interno della casa di Binet.

Questi era solo, in soffitta, occupato a imitare con il legno uno di quei soprammobili d’avorio, indescrivibili, composti da cornetti e sfere incavate le une dentro le altre, il tutto ritto come un obelisco e della più assoluta inutilità. Stava per attaccare l’ultimo pezzo, sul punto di raggiungere la meta. Nella penombra del laboratorio, la polvere dorata si sprigionava dal suo attrezzo come un pennacchio di scintille sotto i ferri di un cavallo al galoppo; le due ruote ronfavano girando. Binet sorrideva; con il mento basso, le narici dilatate, sembrava perduto in quella felicità completa che è propria soltanto delle occupazioni senza importanza, le occupazioni che divertono l’intelletto con ostacoli facilmente superabili e lo assorbono in un’attività fine a se stessa, oltre la quale non esistono sogni.

«Ah! Eccola!» fece la signora Tuvache.

Ma non era possibile, a causa del rumore del tornio, sentire che cosa Emma stesse dicendo.

Infine queste signore credettero di distinguere la parola ‘franco’ e mamma Tuvache sussurrò pianissimo:

«Lo sta pregando per ottenere una proroga nel pagamento delle tasse».

«Sembrerebbe!» rispose l’altra.

La videro andare avanti e indietro mentre osservava, contro i muri, i portatovaglioli, i candelieri, i pomoli per le ringhiere, mentre Binet si lisciava la barba soddisfatto.

«Sarà andata a ordinargli qualcosa?» domandò la signora.

«Ma lui non vende niente!» obiettò la vicina.

L’esattore aveva l’aria di ascoltare, spalancando gli occhi come se non capisse. Emma continuava, con atteggiamenti teneri, supplichevoli. Si avvicinò, il seno le si sollevava ritmicamente, tacevano entrambi.

«Gli sta facendo delle proposte?» disse la signora Tuvache.

Binet era rosso fino agli orecchi. Emma gli prese le mani.

«Ah! È troppo!»

Non c’erano dubbi che gli stesse proponendo qualcosa di abominevole, perché l’esattore — era un coraggioso, aveva combattuto a Bautzen e a Lutzen, aveva fatto la campagna di Francia ed era stato addirittura proposto per una croce al merito — di colpo, come alla vista di un serpente, si tirò indietro gridando:

«Signora! Ma le pare?»

«Bisognerebbe frustarle, le donne di quella specie!» esclamò la signora Tuvache.

«Dov’è andata?» domandò la signora Caron.

Emma era infatti sparita mentre venivano pronunciate quelle parole; poi, scorgendola che imboccava la Grande-Rue, e svoltava a destra come per raggiungere il cimitero, si abbandonarono alle congetture.

 

 

«Mamma Rollet,» disse Emma arrivando dalla balia «soffoco, mi slacci!»

Si lasciò cadere sul letto, singhiozzando. Mamma Rollet la coprì con una gonna e rimase in piedi accanto a lei. Poi, siccome non otteneva risposta alle sue domande, la brava donna si allontanò, prese il filatoio e si mise a filare il lino.

«Oh! La smetta!» mormorò Emma, alla quale sembrava di sentire il tornio di Binet.

“Chi le dice niente?” si domandava la balia “Perché è venuta qui?”

Emma si trovava lì spinta da qualcosa di molto simile alla paura, qualcosa che la scacciava dalla sua casa.

Coricata supina, immobile, con gli occhi fissi, riusciva a distinguere soltanto vagamente gli oggetti, benché si sforzasse di mettervi tutta la sua attenzione con una ostinazione idiota. Contemplava le screpolature della parete, i due tizzoni fumanti con le estremità ravvicinate e un grosso ragno che le camminava al di sopra del capo nella fessura di una trave. Riuscì infine a radunare le idee. Cominciò a ricordare… un giorno con Léon… Oh! Com’era lontano… Il sole brillava sul fiume e le vitalbe olezzavano… Trasportata dai ricordi come da un torrente che ribolle, riuscì ben presto a riportare alla memoria la giornata precedente.

«Che ore sono?» domandò.

Mamma Rollet uscì, alzò le dita della mano destra dalla parte dove il cielo era più chiaro e rientrò adagio dicendo:

«Fra poco le tre».

«Ah! Grazie! Grazie!»

Certo Léon stava per arrivare. Ne era sicura. Aveva trovato il denaro. Forse se ne stava laggiù pacifico, senza neppure sospettare che ella si trovava lì; ordinò alla balia di correre a casa sua per accompagnarlo da lei.

«Faccia presto!»

«Ma cara signora vado! Vado!»

Emma si stupì, adesso, di non aver pensato subito a Léon; ieri le aveva dato la sua parola e certo non sarebbe venuto meno alla promessa. E già si vedeva da Lheureux allineare sulla scrivania i tre biglietti di banca. Poi sarebbe stato necessario inventare una storia per spiegare le cose a Bovary. Ma quale?

Intanto la balia non arrivava mai. Ma, dato che non esistevano orologi nella capanna, Emma credette di aver forse esagerato il tempo trascorso. Si mise a passeggiare in giardino: passo passo, percorse il sentiero lungo la siepe, poi tornò indietro in fretta, sperando che la brava donna fosse venuta da un’altra strada. Alla fine, stanca di aspettare, assalita dal sospetto che cercava di respingere, senza più sapere se si trovasse lì da un secolo o da un minuto, sedette in un angolo, chiuse gli occhi e si tappò gli orecchi. Il cancello cigolò, Emma fece un balzo e, prima che fosse riuscita a formulare una domanda, mamma Rollet aveva detto:

«Da lei non c’è nessuno».

«Come?»

«Oh! Nessuno! E suo marito piange. La chiama. La stanno cercando.»

Emma non rispose nulla. Ansimava e girava gli occhi intorno a sé, tanto che la contadina, spaventata dal suo aspetto, indietreggiò d’istinto, credendola impazzita. D’improvviso Emma si batté la fronte, gettò un grido: il ricordo di Rodolphe, come un gran lampo in una notte oscura, le aveva attraversato la mente. Era così buono, così delicato, così generoso. E d’altronde, se avesse esitato a renderle questo favore, lei avrebbe saputo come costringervelo, ricordandogli con un solo sguardo il loro amore perduto. Si avviò quindi verso la Huchette, senza rendersi conto che correva a offrirsi a chi l’aveva, un tempo, tanto esasperata, senza rendersi conto neppure lontanamente di questa prostituzione.

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