Feb 022019
 

Léon, viaggiando per andare a trovare Emma, si era spesso fermato a pranzo dal farmacista, e aveva finito così con il sentirsi in obbligo di ricambiare l’invito.

«Volentieri» rispose Homais. «Ho proprio bisogno di un po’ di distrazione, mi sto fossilizzando. Andremo a teatro, al ristorante, ci daremo alla pazza gioia.»

«Ah! Mio caro!» mormorò teneramente la signora Homais, spaventata dai vaghi pericoli che il marito si apprestava a correre.

«Ebbene, che cosa c’è? Non ti pare che mi rovini abbastanza la salute continuando a vivere in mezzo ai fumi del laboratorio? Ecco come la pensano le donne: sono gelose della Scienza e poi non vogliono che ci si prenda la più piccola e legittima distrazione. Non importa, conti pure su di me, uno di questi giorni piombo a Rouen e insieme faremo ballare un po’ di spiccioli.»

Lo speziale, un tempo, si sarebbe guardato bene dal ricorrere a una tale espressione, ma in questo periodo era in vena di sentirsi buontempone e parigino; trovava la cosa di ottimo gusto e, come la sua vicina, la signora Bovary, interrogava il giovane Léon con molta curiosità sugli usi della capitale, e addirittura parlava in gergo, per far colpo… sui borghesi, dicendo: turne, bazar, chicard, chicandard, Breda-Street, e ‘io me la batto,’ invece di ‘io me ne vado.’

Un giovedì Emma ebbe la sorpresa di incontrare nella cucina del Leon d’Oro il signor Homais, in tenuta da viaggiatore, avvolto cioè in un vecchio mantello che non gli aveva mai visto, con la valigia in una mano e nell’altra lo scaldapiedi di casa. Non aveva confidato il suo proposito a nessuno, convinto che la propria assenza avrebbe potuto allarmare la gente.

L’idea di rivedere i luoghi ove aveva trascorso la giovinezza certo lo esaltava, e infatti, per tutta la durata del viaggio, non smise un istante di chiacchierare; poi, appena arrivato, si precipitò fuori della vettura per mettersi alla ricerca di Léon. Il giovane di studio ebbe un bel protestare, il signor Homais lo trascinò verso il grande caffè di Normandia, nel quale entrò maestosamente, tenendosi in testa il cappello, poiché giudicava molto provinciale scoprirsi in un luogo pubblico.

Emma attese Léon per tre quarti d’ora, infine corse allo studio, e, perduta in mille congetture, l’accusò di indifferenza, rimproverandosi la propria debolezza, e trascorse tutto il pomeriggio con la fronte incollata ai vetri.

Léon e il farmacista, alle due, erano ancora seduti uno di fronte all’altro a tavola. La grande sala andava svuotandosi, il tubo della stufa, che imitava nella forma una palma, incurvava contro il soffitto bianco il suo ciuffo dorato; vicino a loro, dietro il vetro, in pieno sole, un piccolo getto d’acqua gorgogliava in una vasca di marmo nella quale, in mezzo al crescione e agli asparagi, tre aragoste intorpidite erano allineate fino a giungere vicino alle quaglie, tutte coricate su un fianco e ammonticchiate una sull’altra.

Homais si stava divertendo. Benché a inebriarlo fosse più il lusso che i cibi succulenti, il vino di Pomard influiva in modo eccitante sui suoi sensi e, quando servirono l’omelette al rum, egli cominciò a esporre teorie immorali sul conto delle donne. Quello che lo seduceva più di ogni altra cosa era la classe. Adorava una toletta elegante ambientata in un appartamento ben ammobiliato, e, quanto alle doti fisiche, non disprezzava certo i bei pezzi di ragazza.

Léon guardava la pendola con la disperazione nel cuore. Lo speziale continuava a mangiare, a bere e a chiacchierare.

«Lei» disse all’improvviso il farmacista «deve essere molto sacrificato, qui a Rouen. Però i suoi amori non abitano lontano.»

E siccome l’altro arrossiva:

«Suvvia, sia sincero! Non vorrà negare che a Yonville…»

Il giovanotto balbettava.

«Dalla signora Bovary, non corteggiava?…»

«Chi?»

«La domestica!»

Era in buona fede, ma Léon lasciò che la vanità avesse la meglio sulla prudenza, e, quasi senza volerlo, protestò. D’altra parte, a lui piacevano soltanto le donne brune.

«Sono d’accordo con lei:» disse lo speziale «hanno più temperamento.»

E, chinandosi all’orecchio del suo amico, enumerò i sintomi che indicano se una donna ha temperamento. Si lanciò anche in una digressione etnografica: la tedesca era sognatrice, la francese libertina, e l’italiana appassionata.

«E le negre?» domandò Léon.

«È un gusto da intenditore» disse Homais. «Cameriere! Due mezze tazze!»

«Ce ne vogliamo andare?» sbottò Léon alla fine, spazientito.

«Yes.»

Ma, prima di andarsene, Homais volle vedere il proprietario del locale per fargli le proprie felicitazioni.

Poi, il giovanotto, per riuscire a rimanere solo, dichiarò di avere affari da sbrigare.

«L’accompagno!» disse Homais.

E, mentre percorreva le vie della cittadina con lui, cominciò a parlare di sua moglie, dei bambini, del loro avvenire, della farmacia, raccontò in quale cattivo stato fosse un tempo, e vantò la perfezione alla quale lui l’aveva portata.

Quando giunsero davanti all’Hotel de Boulogne, Léon lo lasciò in fretta, volò su per lo scalone, e trovò l’amante in grande ansietà.

Sentendo fare il nome del farmacista Emma si adirò. Ma Léon addusse ottime ragioni; non era certo colpa sua, non sapeva dunque anche lei che tipo fosse il signor Homais? Poteva credere forse che lui preferisse la sua compagnia? Ma Emma non voleva ascoltare; egli la trattenne, si lasciò cadere sulle ginocchia, le circondò la vita con le braccia, in una posa languida piena di desiderio e di supplica.

Emma era in piedi; i grandi occhi ardenti lo guardavano seri e quasi terribili. Poi le lacrime li offuscarono, le palpebre rosate si abbassarono, abbandonò le mani e Léon stava per baciarle, quando comparve un domestico, per avvertire il signore che chiedevano di lui.

«Torni?»

«Sì.»

«Ma quando?»

«Al più presto possibile.»

«L’ho fatto apposta» disse il farmacista scorgendo Léon. «Ho voluto interrompere questa visita che mi sembrava la contrariasse. Andiamo da Bridoux a bere un bicchiere di centerbe.»

Léon giurò che doveva tornare allo studio. Allora il farmacista cominciò a burlarsi delle scartoffie e della burocrazia.

«Ma lasci un po’ in pace Cujas e Barthole, che diamine! Chi glielo impedisce? Si faccia furbo! Andiamo da Bridoux, le farà vedere il suo cane. Una cosa molto strana»

E siccome Léon non accennava a cedere:

«Verrò anch’io con lei, allora. Leggerò un giornale, mentre starò ad aspettarla, o sfoglierò un codice».

Léon, stordito dalla collera di Emma, dal cicaleccio del signor Homais, e forse dalla pesantezza del cibo, rimase incerto e quasi ipnotizzato dal farmacista che ripeteva:

«Andiamo da Bridoux, è qui a due passi, Rue Malpalu».

E, per sfinimento, per stoltaggine, per quell’inqualificabile sentimento che riesce a trascinarci a compiere le azioni più odiose, si lasciò condurre da Bridoux e lo trovarono nel cortiletto della sua bottega mentre sorvegliava tre operai che ansimavano nel far girare la grande ruota di una macchina per fabbricare l’acqua di seltz. Homais diede loro dei consigli, abbracciò Bridoux, e bevvero il centerbe. Venti volte Léon aveva tentato di andarsene; ma l’altro lo acchiappava per un braccio dicendogli:

«Fra un minuto! Vengo anch’io. Andremo al Faro di Rouen a far visita a quei signori. Voglio presentarla a Thomassin».

Alla fine il giovane riuscì a liberarsi e corse a perdifiato all’albergo. Emma non c’era più.

Se n’era andata, esasperata. Adesso detestava Léon. Questa mancanza di parola all’appuntamento le era sembrata un oltraggio, e cercava altri motivi per abbandonarlo: era incapace di eroismo, debole, banale, più effeminato di una donna, avaro anche, e pusillanime.

Poi, una volta calmatasi, finì col convincersi di averlo soltanto calunniato. Ma il denigrare quelli che amiamo ci allontana sempre un poco da loro. Non bisogna toccare gli idoli: la polvere d’oro che li ricopre potrebbe restarci attaccata alle dita.

Emma e Léon cominciarono a parlare più frequentemente di argomenti estranei al loro amore; e, nelle lettere che Emma gli scriveva, si parlava di fiori, di poesia, delle stelle e della luna, ingenui surrogati della passione che andava indebolendosi, e che cercava di ravvivarsi con appigli esteriori. La signora Bovary si riprometteva di continuo, per il suo prossimo viaggio, una felicità profonda, e poi era costretta a confessare di non provare niente di straordinario. Quella delusione veniva ben presto cancellata da una sempre nuova speranza; Emma tornava da Léon più ardente, più avida. Si spogliava con veemenza strappando le stringhe sottili del busto, che sibilavano intorno ai suoi fianchi come serpi striscianti. Si avvicinava, sulle punte dei piedi nudi, per assicurarsi una volta di più se la porta fosse chiusa, poi, con un solo gesto, faceva cadere tutti gli abiti in una sola volta, e pallida, senza dire nulla, seria si lasciava cadere sul suo petto con un lungo brivido.

V’era in quella fronte coperta da un sudore freddo sulle labbra balbettanti, nelle pupille smarrite, nella stretta delle braccia di Emma, qualcosa di estremo, di vago e di lugubre, che Léon sentiva insinuarsi fra loro, sottilmente, come se volesse separarli.

Non osava porle domande; ma, vedendola così esperta, si era convinto che fosse dovuta passare attraverso tutte le prove della sofferenza e del piacere. Quello che un tempo lo aveva affascinato, adesso lo spaventava un poco. E si ribellava contro l’annullamento ogni giorno più grande della propria personalità. Nutriva rancore contro Emma per quella continua supremazia. Si sforzava addirittura di non amarla; poi, soltanto sentendo scricchiolare le sue scarpette, si sentiva privo di volontà, come un alcoolizzato alla vista dei liquori forti.

Emma non si lasciava sfuggire occasione, questo è vero, di prodigargli tutte le possibili attenzioni, dalle squisitezze della tavola, alla civetteria nel vestire e agli sguardi languidi. Portava da Yonville delle rose in seno, e gliele sfogliava sul viso, mostrava di preoccuparsi della sua salute, gli dava consigli pratici e, per legarlo più strettamente a sé, sperando che il Cielo potesse in qualche modo intervenire, gli mise al collo una medaglia della Vergine. Si informava, come una madre sollecita, dei suoi colleghi. Gli diceva:

«Non cercare di vederli, non uscire, pensa soltanto a noi, amami!»

Avrebbe voluto sorvegliare la sua vita, e le venne l’idea di farlo pedinare. C’era sempre, vicino all’albergo, un vagabondo che abbordava i viaggiatori e che non avrebbe certo rifiutato… Ma il suo orgoglio si ribellò.

“Eh! Tanto peggio! Mi tradisca pure, che m’importa! Mi preme poi così tanto?”

Un giorno si erano lasciati presto ed Emma se ne tornava sola per il corso, quando vide i muri del suo collegio; si sedette su una panchina, all’ombra degli olmi. Che tempi sereni quelli! Come rimpiangeva gli ineffabili sentimenti d’amore che cercava di immaginare, dopo averli letti nei libri!

I primi mesi del matrimonio, le passeggiate a cavallo nella foresta, il Visconte che ballava il valzer, Legardy che cantava, tutto le passava davanti agli occhi… E Léon le parve all’improvviso lontano come tutto il resto.

“Eppure lo amo” si diceva.

Non importava! Non era felice e non lo era mai stata. Da cosa dipendeva questo vuoto che esisteva nella sua vita, questa putrescenza istantanea delle cose che le stavano più a cuore?… Ma se esisteva in qualche luogo un essere forte e bello, un cuore valoroso, nello stesso tempo pieno di entusiasmi e di raffinatezza, un animo di poeta sotto le spoglie di un angelo, lira dalle corde di bronzo, capace di far giungere fino in cielo i suoni di epitalami elegiaci, perché proprio lei non avrebbe potuto per caso incontrarlo? Oh! Che sogno impossibile! Nulla valeva la pena di una ricerca, tutto era menzognero. Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, tutti i piaceri, il disgusto, e i baci più appassionati lasciavano sulla bocca soltanto l’irrealizzabile desiderio di una voluttà più grande.

Un rantolo metallico si trascinò nell’aria e la campana del convento batté quattro rintocchi. Le quattro! E le sembrò di essere rimasta a sedere su quella panchina per tutta l’eternità. Un infinito di passione può concentrarsi in un minuto, come una folla può raccogliersi in un modesto spazio.

Emma viveva preoccupandosi di se stessa, senza affannarsi per il denaro più di un’arciduchessa.

Ma un giorno, un uomo dall’aspetto meschino, rubicondo e pelato, andò a casa sua, e dichiarò di essere stato mandato dal signor Vinçart, di Rouen. Tolse le spille che chiudevano la tasca laterale della lunga finanziera verde, le appuntò su una manica e porse a Emma con gentilezza un foglio.

Era la cambiale di settecento franchi, sottoscritta da lei, che Lheureux, a dispetto di tutte le sue proteste, aveva girato all’ordine di Vinçart.

Mandò la domestica dal mercante. Non poteva venire.

Allora lo sconosciuto, che era rimasto in piedi lanciando a destra e a sinistra sguardi curiosi, dissimulati sotto le fitte sopracciglia bionde, domandò con aria ingenua:

«Che risposta devo portare al signor Vinçart?»

«Bene,» rispose Emma «gli dica… che non ne ho… Sarà per la settimana prossima… Che aspetti. Sì, la settimana prossima.»

E il brav’uomo se ne andò senza proferire parola.

Ma l’indomani, a mezzogiorno, Emma ricevette un protesto e la vista della carta bollata, sulla quale spiccava a grossi caratteri: Hareng, usciere a Buchy, la spaventò a tal punto che corse in gran fretta dal mercante di stoffe.

Lo trovò nella sua bottega: stava legando un pacchetto.

«Servo suo!» disse «Sono subito da lei.»

Lheureux non interruppe il suo lavoro; lo aiutava una ragazzina di circa tredici anni, un po’ gobba, che gli serviva da commessa e nello stesso tempo da domestica.

Poi, facendo risuonare gli zoccoli sulle assi del pavimento della bottega, egli salì, seguito dalla signora Bovary, al primo piano e la fece entrare in un piccolo stanzino ove una grossa scrivania di legno d’abete conteneva qualche registro protetto da una barra trasversale di ferro munita di catenaccio. Contro il muro, sotto alcuni scampoli di cotone, si intravedeva una cassaforte di dimensioni tali da contenere ben altro che cambiali o danaro. Il signor Lheureux, infatti, faceva prestiti su pegno, ed era là che aveva riposto la catena d’oro della signora Bovary insieme con gli orecchini di quel povero papà Tellier, il quale, costretto alla fine a vendere, aveva acquistato a Quincampoix una botteguccia di droghiere, dove moriva di tosse, in mezzo alle candele, meno gialle di lui.

Lheureux sedette su un seggiolone impagliato, dicendo:

«Cosa c’è di nuovo?»

«Guardi.»

E gli mostrò la carta.

«Ebbene, io cosa posso farci?»

Emma allora si adirò, rammentandogli che le aveva assicurato di non far circolare la cambiale; egli ne convenne.

«Ma sono stato costretto a farlo, avevo l’acqua alla gola.»

«E adesso, cosa succederà?»

«Oh! È molto semplice: una sentenza del tribunale, poi il sequestro…; e buonanotte!»

Emma dovette trattenersi per non prenderlo a schiaffi. Gli domandò se non c’era modo di intervenire presso il signor Vinçart.

«Ah! Proprio, sì, intervenire con Vinçart! Lei non lo conosce, è più feroce di un arabo.»

In ogni modo, era necessario che Lheureux si occupasse della faccenda.

«Mi ascolti! Mi sembra che fino a oggi io sia stato molto paziente con lei e suo marito.»

E, aprendo uno dei registri, disse:

«Guardi!»

Poi, risalendo la pagina con il dito:

«Vediamo un po’… Vediamo un po’… Il 3 agosto, duecento franchi. Il 17 giugno, centocinquanta… Il 23 marzo, quarantasei… In aprile…»

E si interruppe, quasi fosse preoccupato di fare qualche sciocchezza.

«Per non parlare delle cambiali firmate da suo marito, una di settecento franchi, e un’altra di trecento! E poi ci sono i piccoli acconti versati a lei, gli interessi, non si finisce più, c’è da perderci la testa. Non me ne voglio più impicciare!»

Emma piangeva, lo chiamava addirittura ‘il mio buon signor Lheureux’. Ma lui tirava sempre in ballo quel ‘perverso signor Vinçart’. D’altra parte, non aveva un centesimo, in quel momento nessuno lo pagava, gli levavano la camicia di dosso, un modesto negoziante come lui non poteva permettersi di far prestiti.

Emma taceva; e il signor Lheureux, che stava mordicchiando le barbe di una penna, si allarmò certo per il suo silenzio, perché ricominciò:

«A meno che, uno di questi giorni, io non riceva qualche rimessa… potrei…»

«E poi,» disse Emma «appena la rimanenza di Barneville…»

«Come?»

E, venendo a sapere che Langlois non aveva ancora pagato, parve molto sorpreso. Poi, con voce mielata:

«E potremmo accordarci, lei dice?…»

«Oh! Come crederà meglio!»

Allora il mercante chiuse gli occhi per riflettere, scrisse qualche cifra, e, dichiarando che avrebbe potuto averne un danno, che la cosa era molto difficile, che per lui sarebbe stato un salasso, dettò quattro cambiali di duecentocinquanta franchi l’una, distanziandone le scadenze di un mese l’una dall’altra.

«Basta che Vinçart mi voglia ascoltare! Ma ormai è fatto, io non mi tiro indietro, la mia parola è una sola.»

Poi mostrò a Emma, con indifferenza, molte merci appena arrivate, delle quali nessuna, a suo parere, era degna della signora Bovary.

«Quando penso che questo è un abito da sette soldi al metro, e ne garantiscono anche la solidità del colore! E la gente ci crede! Non si può certo dire come stanno veramente le cose, capirà!» diceva con l’intenzione di convincerla della propria rettitudine nei suoi confronti con questa confessione di furfanteria verso gli altri.

La richiamò anche indietro per farle vedere tre bracci di pizzo pesante che aveva trovato ultimamente ‘in una liquidazione’.

«È bellissimo!» disse «Lo adoperano molto, adesso, per farne poggiacapo per le poltrone, è di moda.»

E, più svelto di un giocoliere, avvolse il pizzo in un pezzo di carta turchina e lo mise nelle mani di Emma.

«Mi dica almeno…»

«Ah! Non c’è fretta!» fece lui voltandole le spalle.

Quella sera stessa Emma insistette con il marito affinché scrivesse alla madre sollecitandola a inviare loro il resto dell’eredità. La suocera rispose di non avere più nulla: la liquidazione era chiusa e restava loro, oltre Barneville, una rendita di seicento franchi, che avrebbe regolarmente versato.

Emma adottò anche l’espediente di inviare le parcelle a due o tre clienti e questo sistema diede così buoni risultati da indurla a servirsene sempre di più. Aveva cura di aggiungere sempre un poscritto: Non ne parli a mio marito, lei sa come sia orgoglioso… Mi scusi… Serva sua… Vi fu qualche reclamo, ma Emma riuscì a intercettarlo.

Per procurarsi denaro, si mise a vendere i suoi guanti vecchi, i cappelli che non adoperava più, gli oggetti fuori uso; mercanteggiava con rapacità — il suo sangue di contadina la spingeva al guadagno. Nei viaggi in città trafficava comperando cianfrusaglie, convinta che il signor Lheureux, in mancanza di altri acquirenti, le avrebbe certo ricomperate. Acquistò piume di struzzo, porcellane e cofanetti cinesi, si faceva prestare danaro da Félicité, dalla signora Lefrançois, dall’albergatore della Croce Rossa, da tutti, dappertutto. Con la somma che finalmente ricevette da Barneville, pagò due cambiali, e gli altri millecinquecento franchi sfumarono. Si trovò impegolata in altri pasticci e continuò ad andare avanti in questo modo.

Tentò qualche volta di fare ordine nei suoi conti, ma scoprì debiti di una tale entità, da non potervi credere. Allora ricominciava daccapo, e ben presto non riusciva più a orizzontarsi fra tutte quelle cifre; piantava tutto e non ci pensava più.

La casa aveva adesso un aspetto desolante. I fornitori ne uscivano furiosi; v’erano fazzoletti dimenticati sui fornelli; la piccola Berthe, con grande scandalo della signora Homais, aveva le calze bucate. E se Charles azzardava una timida osservazione, Emma rispondeva senza mezzi termini che la colpa era sua!

Perché quegli accessi di collera? Charles attribuiva tutto ciò alla malattia nervosa di cui Emma aveva sofferto tempo addietro, e, rimproverandosi di scambiare per colpe le infermità, si accusava di egoismo e sentiva il desiderio di correre ad abbracciarla.

“Oh! No,” si diceva “le darei fastidio.”

E si tratteneva.

Dopo pranzo, passeggiava solo in giardino, prendeva la piccola Berthe sulle ginocchia, apriva una rivista medica e tentava di insegnare a leggere alla figlia. La bambina, che non era abituata ad applicarsi, ben presto spalancava i grandi occhi tristi e si metteva a piangere. Allora il padre la consolava, andava a prendere dell’acqua nell’annaffiatoio per fare i fiumicelli sulla sabbia, o rompeva rametti di ligustro e li piantava a guisa di alberi nelle aiuole, e, così facendo, non sciupava certo il giardino, tutto invaso dalle erbacce perché a Lestiboudois non erano ancora state corrisposte un grandissimo numero di giornate di paga. Poi la bimba diceva di aver freddo e voleva la mamma.

«Chiama la tata,» diceva Charles. «Lo sai, bambina mia, che la mamma non vuole essere disturbata.»

Cominciava l’autunno e le foglie già cadevano proprio come due anni prima, quando Emma si era ammalata! Sarebbe finito, un giorno, tutto ciò? E Charles continuava il suo andirivieni con le mani dietro la schiena.

La signora Bovary era in camera sua. Nessuno doveva entrarvi. Rimaneva là tutto il giorno, immersa nel torpore, vestita solo a metà, facendo bruciare di tanto in tanto pastiglie profumate che aveva acquistato a Rouen nella bottega di un algerino. Per evitare di trovarsi vicino, di notte, quel pover’uomo del marito addormentato, era riuscita, a furia di smorfie, a relegarlo al secondo piano, mentre lei leggeva fino al mattino libri stravaganti, con illustrazioni orgiastiche e avvenimenti sanguinosi. Spesso veniva assalita da ingiustificati terrori. Lanciava un grido. Charles accorreva.

«Ah! Vattene!» diceva lei.

Oppure, bruciata da quella fiamma interiore che l’adulterio rinfocolava, ansimante, commossa, piena di desiderio, apriva la finestra, aspirava l’aria fredda, scioglieva al vento la capigliatura troppo pesante e, guardando le stelle, anelava ad amori principeschi. Pensava a lui, a Léon. Avrebbe dato tutto, in quel momento, per uno solo di quegli incontri che la saziavano.

Erano per lei giorni di festa, questi degli appuntamenti. E li voleva splendidi! Quando Léon non poteva sostenere da solo la spesa, cosa che si verificava quasi tutte le volte, contribuiva con prodigalità di tasca sua. Léon tentava di convincerla che si sarebbero trovati altrettanto bene in un alberguccio più modesto, ma Emma faceva mille obiezioni.

Un giorno tolse dalla borsa sei collanine dorate, il regalo di nozze di papà Rouault, e lo pregò di portarle al Monte di Pietà per lei; Léon obbedì, benché l’incarico non fosse affatto di suo gusto. Temeva di compromettersi.

In seguito, il giovane, riflettendo, si rese conto che l’amante si comportava in maniera strana, tanto da trovare ragionevoli coloro che cercavano di staccarlo da lei.

Infatti, qualcuno si era preso la briga di far pervenire a sua madre una lunga lettera anonima, per avvertirla che il figlio si stava perdendo con una donna maritata, e subito la brava signora, intravedendo l’eterno spauracchio delle famiglie, e cioè la vaga creatura perniciosa, la sirena, il mostro, che abita di solito le profondità dell’amore in maniera fantasiosa, scrisse al signor Dubocage, principale di Léon, il quale trattò la cosa con estremo tatto. Parlò a Léon per tre quarti d’ora, nell’intento di aprirgli gli occhi e renderlo cosciente del baratro nel quale poteva precipitare. Un tale imbroglio avrebbe potuto nuocere in seguito alla sua posizione. Lo supplicò di rompere con Emma, e, se non intendeva fare questo sacrificio per il bene proprio, lo facesse almeno per lui, Dubocage.

Léon alla fine aveva giurato che non avrebbe più rivisto Emma, e si rimproverava ora di non avere mantenuto la parola, prendendo in considerazione tutte le chiacchiere e i fastidi che quella donna avrebbe potuto ancora procurargli, senza tener conto dei frizzi dei colleghi che si sprecavano la mattina intorno alla stufa. Stava per diventare primo assistente, era il momento di mettere la testa a partito. In tal modo rinunciava al romanticismo, ai sentimenti esaltanti, alle fantasie: poiché non esiste borghese che, nell’entusiasmo della gioventù, sia pure soltanto per un giorno, per un minuto, non si sia creduto capace di passioni sublimi e di alte imprese. Come il più modesto libertino ha sognato harem, così ogni notaio porta celati in sé i frantumi di un poeta.

Léon si sentiva infastidito adesso quando Emma d’improvviso si metteva a singhiozzare sul suo petto, e il cuore di lui, simile a quelle persone che si stancano se ascoltano per lungo tempo la musica, si assopiva nell’indifferenza alle manifestazioni clamorose di un amore del quale non apprezzava più le raffinatezze.

Si conoscevano troppo perché fosse loro possibile godere quello stupore del possesso che centuplica la gioia. Emma era tanto disgustata di lui quanto Léon si sentiva stanco di lei, che, del resto, ritrovava nell’adulterio tutta la monotonia del matrimonio.

Ma come fare per liberarsi? E poi, se anche Emma si sentiva umiliata dalla bassezza di una tale felicità, non poteva impedirsi di tenervisi avvinghiata per abitudine, per corruzione, ogni giorno con maggiore accanimento, riuscendo a inaridire ogni gioia con la pretesa di volerla troppo grande. Accusava Léon delle proprie speranze deluse quasi l’avesse tradita, e arrivava ad augurarsi una catastrofe che avrebbe facilitato la loro separazione, dal momento che lei non trovava il coraggio di deciderla.

Emma non rinunciava comunque a scrivergli lettere, nella convinzione che una donna non possa fare a meno di scrivere al proprio amante.

Ma, scrivendo, aveva dinanzi a sé l’immagine di un uomo diverso, un fantasma fatto dei più ardenti ricordi, delle letture più belle e delle più accese brame, ed egli diveniva infine così reale e accessibile da farla fremere, meravigliata, sia pure senza riuscire a vederlo distintamente tanto si perdeva, come un dio, nella farragine dei suoi attributi… Abitava le contrade celesti ove le scale di seta dondolano appese ai balconi fra il profumo dei fiori al chiaro di luna. Lo sentiva vicino, sarebbe venuto per rapirla, per portarla con sé, anima e corpo, nel rapimento di un bacio. Dopo questi sogni, si sentiva abbattuta, sfinita, perché gli slanci di una così nebulosa passione la spossavano più delle sfrenate lussurie.

Emma soggiaceva adesso a una prostrazione incessante e assoluta. Riceveva spesso intimazioni, carte bollate che degnava appena di uno sguardo. Desiderava essere morta o dormire sempre.

Il giorno di carnevalino, non fece ritorno a Yonville; andò al ballo mascherato. Indossò pantaloni di velluto e calze rosse, mise in capo una parrucca con il codino e un tricorno, inclinato su un orecchio. Ballò tutta la notte, al suono furibondo dei tromboni; intorno a lei facevano cerchio, e al mattino si ritrovò sotto il portico del teatro, in mezzo a cinque o sei maschere, donne del popolo e marinai, colleghi di Léon che parlavano di andare a mangiare qualcosa.

I caffè vicini erano tutti gremiti. Trovarono posto in una delle più modeste trattorie, il cui proprietario lasciò a loro disposizione una stanzetta al quarto piano. Gli uomini parlottavano in un angolo, consultandosi certo sulla spesa. Erano un giovane di studio, due studenti in medicina e un commesso. Davvero una compagnia eletta! Quanto alle donne, Emma se ne accorse subito dal timbro di voce, dovevano essere tutte di infimo rango. Ebbe paura: spostò indietro la sedia e abbassò gli occhi.

Gli altri cominciarono a mangiare. Emma non toccò cibo, si sentiva il viso in fiamme, le palpebre le bruciavano e un senso di gelo le correva sulla pelle. Sentiva nel cervello la sensazione del pavimento della sala da ballo che vibrava sotto la sollecitazione ritmica dei mille piedi dei ballerini. Poi l’odore d’alcool misto a quello dei sigari la stordì. Ebbe uno svenimento: la portarono vicino alla finestra.

Cominciava a far giorno e una grande chiazza color porpora andava dilatandosi nel cielo pallido, dalla parte di Sainte-Catherine. Il fiume livido rabbrividiva sotto il vento, i ponti erano deserti, i lampioni andavano spegnendosi.

Emma si era ripresa e pensava a Berthe che dormiva laggiù, nella camera della domestica. In quel momento passò un carro carico di lunghe e strette lamine di ferro, facendo risuonare contro i muri delle case lo strepito di una vibrazione metallica assordante.

Emma all’improvviso abbandonò la compagnia, si sbarazzò del costume, disse a Léon che doveva tornare a casa e finalmente restò sola all’Hotel de Boulogne.

Tutto le era insopportabile, perfino se stessa. Desiderava fuggire come un uccello, lontanissimo, negli spazi inviolati, potervi tornare fanciulla.

Uscì, attraverso il corso, Place Cauchoise, la periferia, fino a una nota strada che dominava i giardini. Camminava in fretta, l’aria aperta la calmava, e, poco per volta, le facce della folla, le maschere, le quadriglie, i lampadari, la cena, quelle donne, tutto scomparve come brume disperse dal vento. Poi, tornata all’albergo della Croce Rossa, si gettò sul letto, nella piccola camera al secondo piano ove si trovavano le incisioni della Torre di Nesle. Alle quattro del pomeriggio Hivert venne a svegliarla.

Appena arrivata a casa, Félicité le mostrò un foglio di carta grigia posto dietro la pendola. Vi lesse:

In virtù della copia della sentenza esecutiva…

Quale sentenza? Il giorno prima avevano in effetti portato un altro documento, di cui Emma non era a conoscenza, così che rimase stupefatta da queste parole:

Intimazione in nome del Re, della Legge, della Giustizia alla signora Bovary…

Saltando molte righe scoprì che:

Entro il termine perentorio di ventiquattr’ore — Che cosa? Pagare la somma totale di ottomila franchi. E più sotto ancora: Vi sarà costretta a norma di legge e in particolare per mezzo del sequestro esecutivo di mobili ed effetti di sua proprietà.

Che fare?… Entro ventiquattr’ore, l’indomani! Lheureux, Emma pensò, voleva certo spaventarla di nuovo; capì d’improvviso le sue manovre, lo scopo delle sue cortesie. A rassicurarla era la spropositata entità della somma.

Eppure, continuando ad acquistare, a non pagare, a farsi prestare denaro, a firmare cambiali e a rinnovarle, facendo aumentare, come se si gonfiasse ogni volta, l’importo, aveva preparato per il signor Lheureux quel capitale ch’egli aspettava con impazienza per le proprie speculazioni.

Emma si recò da lui con un’aria disinvolta:

«Ma lo sa cosa ho ricevuto? Non può essere che uno scherzo!»

«No.»

«Come?»

Lheureux si voltò adagio e le disse, incrociando le braccia: «Lei pensa, mia gentile signora, che sarei andato avanti fino alla consumazione dei secoli a essere il suo fornitore e banchiere per misericordia divina? Bisognerà pure che a un certo punto rientri in possesso dei miei capitali, siamo giusti!»

Emma protestò per l’entità del debito.

«Ah! Tanto peggio! Il tribunale l’ha riconosciuto! C’è la sentenza! Gliel’hanno notificata! D’altra parte io non c’entro, è stato Vinçart.»

«Ma lei non potrebbe?…»

«Oh! Assolutamente no!»

«Ma… allora… ragioniamo.»

Emma cercava di menare il can per l’aia, non ne aveva saputo niente… era stata una vera sorpresa…

«E chi ne ha colpa?» disse Lheureux, con un inchino sarcastico «Mentre io sgobbo come un negro, lei si dava alla bella vita.»

«Ah! Non mi faccia la morale!»

«Questo non nuoce mai» ribatté lui.

Emma allora divenne vile, lo supplicò e addirittura appoggiò la graziosa mano bianca e affusolata sul ginocchio del mercante.

«Andiamo, mi lasci! Diranno che vuole sedurmi!»

«Lei è un miserabile!» gridò Emma.

«Oh! Oh! Come se la prende!» rispose Lheureux ridendo.

«Farò sapere a tutti che tipo è. Dirò a mio marito…»

«Bene, mostrerò anch’io qualcosa a suo marito!»

E il signor Lheureux tirò fuori dalla cassaforte una ricevuta di mille e ottocento franchi che Emma gli aveva rilasciato al tempo dello sconto di Vinçart.

«Crede» soggiunse «che non si accorgerà del suo piccolo furto, il povero caro uomo?»

Emma si accasciò, distrutta da quella mazzata. Il mercante andava avanti e indietro fra la finestra e il banco, ripetendo:

«Ah! Gli farò vedere… Gli farò proprio vedere…»

Si avvicinò a lei, e con voce dolce, disse:

«Non è un divertimento, lo so, ma nessuno è mai morto per così poco, e del resto è l’unico modo per restituirmi il denaro che mi deve…»

«Ma dove potrò trovare tutti questi soldi?» disse Emma torcendosi le mani.

«Ah! Beh! quando si hanno amici come ne ha lei!»

E la fissava con uno sguardo così penetrante e terribile che Emma rabbrividì fino ai precordi e disse:

«Le prometto, firmerò…»

«Ne ho abbastanza delle sue firme!»

«Venderò ancora…»

«Andiamo!» fece lui alzando le spalle «Ma se non ha più niente!»

E gridò attraverso lo spioncino che si apriva sulla bottega:

«Annette! Non ti dimenticare i tre scampoli del numero quattordici».

Comparve la servetta. Emma capì e domandò ‘se si sarebbe potuta fermare la procedura versando una somma’.

«Ormai è troppo tardi.»

«Ma se le portassi alcune migliaia di franchi, un quarto, un terzo della somma, quasi tutto?»

«Eh! No, è inutile.»

La spingeva adagio verso la scala.

«La scongiuro, signor Lheureux, qualche giorno ancora.»

Emma singhiozzava.

«Ah, bene! Adesso anche le lacrime!»

«Mi porterà alla disperazione!»

«Non me ne importa» disse lui richiudendo l’uscio.

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