Gen 262019
 

Prendeva lezione al giovedì. Si alzava e si vestiva zitta zitta per non svegliare Charles, che le avrebbe fatto dei rimproveri perché si preparava troppo presto. Si metteva a camminare su e giù, si affacciava alla finestra e stava a guardare la piazza. Fra i pali del mercato regnava la penombra, e la casa del farmacista, con le persiane ancora chiuse, lasciava scorgere nella luce pallida dell’aurora le lettere maiuscole dell’insegna.

Quando la pendola segnava le sette e un quarto, Emma andava al Leon d’Oro, dove Artémise, sbadigliando, veniva ad aprirle la porta, poi attizzava il fuoco, per la signora, smovendo i carboni ancora accesi sotto la cenere; Emma rimaneva sola in cucina. Ogni tanto usciva. Hivert con tutta calma attaccava i cavalli, e ascoltava intanto mamma Lefrançois che, sporgendo la testa coperta con un berretto di cotone da un finestrino, lo caricava di commissioni e gli forniva spiegazioni tali da confondere chiunque altro, ma non lui. Emma batteva i piedi sull’acciottolato del cortile.

Hivert, dopo aver mangiato una scodella di zuppa, indossato il pastrano, acceso la pipa e impugnato la frusta, si metteva finalmente a cassetta.

La Rondine partiva al piccolo trotto, e, lungo i primi tre quarti di miglio, si fermava qua e là per far salire i viaggiatori che l’aspettavano in piedi, al margine della strada, davanti ai cancelli dei cortili. Quelli che avevano avvertito la sera prima, si facevano aspettare. Qualcuno era ancora addirittura a letto, in casa sua; Hivert chiamava, urlava, imprecava, poi scendeva da cassetta e andava a picchiare gran colpi contro le porte. Il vento soffiava attraverso i finestrini pieni di fessure.

Ciò nonostante, i quattro sedili si riempivano, la diligenza rotolava via, i pometi, bene allineati, si susseguivano, e la strada, fra due lunghi fossi pieni d’acqua gialla, continuava a restringersi verso l’orizzonte.

Emma la conosceva da un capo all’altro; sapeva che dopo un prato c’era un palo, e poi un olmo, un granaio, o la casupola di un cantoniere; a volte, per fare una sorpresa a se stessa, chiudeva gli occhi. Ma non perdeva mai la consapevolezza del cammino che ancora dovevano percorrere.

Finalmente le case di mattoni divenivano più fitte, la terra risonava sotto le ruote, la Rondine scivolava in mezzo ai giardini nei quali si potevano scorgere, attraverso le cancellate, statue, pergolati di viti, piante di tasso sagomate, e un’altalena. Poi, d’improvviso, appariva la città.

Scendendo ad anfiteatro e sommersa dalla nebbia, si stendeva confusamente al di là dei ponti. L’aperta campagna risaliva poi, con un andamento monotono, fino a toccare all’orizzonte la linea incerta del cielo sbiadito. Visto così dall’alto, l’intero paesaggio aveva l’immobilità di un dipinto; le navi all’ancora si ammassavano in un angolo del porto, il fiume arrotondava la sua ansa ai piedi delle colline verdi, e le isole dalla forma allungata sembravano grandi pesci neri immobili sull’acqua. Le ciminiere delle officine erano sormontate da immensi pennacchi di fumo scuro che si disperdevano dalla cima. Si poteva udire il ronzio delle fonderie e lo scampanio limpido delle chiese, alte sopra la bruma. Gli alberi delle vie principali, ormai spogli, formavano macchie violette in mezzo alle case e i tetti lucidi di pioggia riflettevano la luce in maniera diversa, a seconda della posizione del quartiere. A volte, un colpo di vento spingeva le nuvole verso il colle di Sainte-Catherine, simili ad aerei flutti che si frangessero senza suono contro una scogliera.

Qualcosa di vertiginoso si sprigionava da tutte quelle esistenze ammassate, ed Emma se ne sentiva il cuore ricolmo, come se le centoventimila anime che palpitavano laggiù avessero liberato, tutte nello stesso momento, l’emanazione delle passioni che Emma attribuiva loro. Il suo amore si ingigantiva davanti a quegli aperti spazi e si riempiva di sonorità al rombo vago che giungeva fino a lei. Traboccava dal suo cuore, sulle piazze, sulle passeggiate, sulle vie e la vecchia città normanna si dilatava davanti agli occhi di Emma come una smisurata capitale, come una Babilonia in cui lei entrasse. La signora Bovary si sporgeva, appoggiata con le due mani al finestrino per aspirare la brezza; i tre cavalli galoppavano. Le pietre scricchiolavano nel fango, la diligenza ondeggiava, e Hivert, da lontano, dava una voce alle carrette sulla strada, mentre i borghesi che avevano trascorso la notte al Bois-Guillaume scendevano pacifici la collina sulle loro piccole vetture private.

Si fermavano alla barriera; Emma si sfilava le soprascarpe, si cambiava i guanti, si aggiustava lo scialle e, venti passi più avanti, scendeva dalla Rondine. La città si stava svegliando allora.

Commessi con la papalina in capo lustravano le vetrine dei negozi, e donne con un paniere appoggiato sull’anca, ferme agli angoli delle vie, lanciavano di tanto in tanto il loro grido sonoro; Emma camminava tenendo gli occhi bassi, sfiorando i muri, e sorridendo di felicità sotto il velo nero che le copriva il volto.

Siccome temeva di essere riconosciuta, non sceglieva mai la via più breve. Si addentrava nei vicoli bui, e arrivava tutta trafelata verso la parte bassa di Rue Nationale, vicino alla fontana che vi si trova. È, questo, il quartiere del teatro, delle taverne e delle mondane. Spesso le passava accanto un carretto carico di qualche traballante scenario. I camerieri dei caffè spargevano sabbia sul lastricato, fra gli arbusti in vaso. Avevano addosso l’odore dell’assenzio, dei sigari e delle ostriche.

Emma svoltava in una via, e riconosceva subito Léon dai capelli ricci che gli sfuggivano di sotto il cappello.

Il giovane continuava a camminare sul marciapiede. Emma lo seguiva fino al suo albergo; Léon saliva, apriva la porta, entrava… Che abbraccio!

Dopo i baci, le parole, come un fiume. Si raccontavano i dispiaceri della settimana, i presentimenti, le ansie per le lettere; ma in questi momenti tutto era dimenticato, si guardavano con i visi accostati, fra risa di voluttà e parole di tenerezza.

Il letto era grande, di mogano, fatto come una navicella. Le cortine di levantina rossa che scendevano dal soffitto avevano il drappeggio raccolto molto in basso, vicino al capezzale svasato, e nulla era più bello al mondo della pelle bianca e della capigliatura nera di Emma che spiccavano contro quel color porpora, quando, con un gesto pudico, chiudeva le braccia nude nascondendosi il viso fra le mani.

La tiepida stanza dal tappeto discreto, con gli allegri fregi, e il tranquillo chiarore, sembrava fatta apposta per le intimità della passione. Quando vi entrava un raggio di sole, i bastoni delle tende dalle estremità a forma di freccia, le maniglie di ottone, e i grossi pomoli degli alari risplendevano di colpo. Sul caminetto, fra i candelabri, c’era una di quelle grandi conchiglie rosa che, appoggiate all’orecchio, fanno sentire il rumore del mare.

Come amavano quella bella camera piena di allegria nonostante il suo lusso un po’ spento. Trovavano i mobili sempre al loro posto, e, qualche volta, le forcine, che Emma aveva dimenticato il giovedì precedente, ancora sotto il piedistallo della pendola. Facevano colazione vicino al caminetto, su un piccolo tavolo intarsiato di palissandro. Emma gli tagliava la carne e gliene metteva i pezzetti nel piatto bamboleggiando; rideva di un riso sonoro e sensuale quando la spuma dello champagne traboccava dal bicchiere sottile e le bagnava gli anelli alle dita. Erano così totalmente perduti in quel senso di reciproco possesso da credere di trovarsi in casa propria, con la possibilità di viverci fino alla morte come due eterni giovani sposi. Dicevano ‘la nostra’ camera, ‘il nostro’ tappeto, ‘le nostre’ poltrone, proprio come Emma avrebbe chiamato ‘le mie’ pantofole quelle che Léon le aveva regalato per soddisfare un suo capriccio. Erano pantofole di raso rosa, con il bordo di cigno. Quando Emma sedeva sulle ginocchia del suo amante, le gambe non arrivavano a toccare terra, ed ella reggeva le minuscole calzature, sospese nell’aria e sempre in movimento, solamente con la punta delle dita del piede nudo.

Léon assaporava per la prima volta le inesprimibili squisitezze dell’eleganza femminile. Non aveva mai incontrato una grazia simile nel parlare, una simile discrezione nel vestire, quegli atteggiamenti da tenera colomba. Ammirava gli entusiasmi della sua anima e i pizzi della sua gonna. Non era forse una signora della buona società, e una donna maritata, una vera amante, insomma?

Le mutevolezze del suo stato d’animo, ora mistico, ora gioioso, loquace, taciturno, adirato, indifferente, suscitavano in lui mille desideri, evocando istinti o reminiscenze. Era l’amante celebrata in tutti i romanzi, l’eroina di tutti i drammi, la vaga protagonista di tutti i volumi di versi. Ritrovava sulle sue spalle il colore ambrato dell’odalisca al bagno, aveva la vita slanciata delle castellane feudali, rassomigliava anche alla pallida donna di Barcellona, ma soprattutto era un Angelo.

Spesso, quando la guardava, sentiva la propria anima fuggire verso di lei, spandendosi come un’onda intorno al suo capo, e discendere travolta dal candore del suo petto.

Léon sedeva sul pavimento, davanti a lei, appoggiava i gomiti sulle ginocchia, e la contemplava sorridendo e con il viso disteso.

Emma si chinava verso l’amante e mormorava, quasi soffocata dal languore:

«Oh! Non ti muovere! Non parlare! Guardami! C’è qualcosa di così dolce nei tuoi occhi, che mi fa un gran bene!»

Lo chiamava ‘piccolo’.

«Mi ami, piccolo?»

E quasi non riusciva a sentire la risposta, tanto rapidamente le labbra di lui venivano a posarsi sulle sue.

Sulla pendola c’era un piccolo Cupido di bronzo, che curvava leziosamente le braccia sotto una ghirlanda dorata. Ne avevano riso più d’una volta, ma, quando dovevano separarsi, tutto sembrava loro tetro.

Uno davanti all’altra, immobili, si ripetevano.

«A giovedì!… A giovedì!»

All’improvviso Emma gli prendeva la testa fra le mani, lo baciava sulla fronte, in fretta, gridando: «Addio!» e correva giù per le scale.

Andava in Rue de la Comédie, dal parrucchiere, per farsi pettinare. Scendeva la sera, nelle botteghe si accendevano i lumi a gas.

Emma sentiva la campanella del teatro che chiamava gli attori per la recita e vedeva passare, dirimpetto, uomini dal viso pallido e donne con abiti sciupati che entravano dall’ingresso del retroscena.

Faceva un gran caldo nella piccola stanza dal soffitto basso, ove la stufa borbottava in mezzo alle parrucche e alle pomate. L’odore del ferro per i ricci, quelle mani grasse che le manipolavano la testa, finivano per stordirla ed Emma si assopiva sotto la mantellina che le riparava gli abiti. Spesso il parrucchiere, mentre la pettinava, le offriva i biglietti per il ballo mascherato.

Poi Emma se ne andava! Risaliva le vie, giungeva all’albergo della Croce Rossa; riprendeva le soprascarpe che aveva nascosto al mattino sotto una panca, e si rannicchiava al suo posto fra i viaggiatori impazienti. Qualcuno scendeva all’inizio della salita. Emma restava sola nella vettura.

A ogni curva si scorgeva meglio l’illuminazione della città che si stendeva con un gran vapore luminoso sulle case ormai indistinte. Emma si metteva in ginocchio sui cuscini e lasciava che i suoi occhi si smarrissero in quel bagliore. Singhiozzava, chiamava Léon, gli rivolgeva parole tenere e baci che si perdevano al vento.

Sulla collina c’era un povero diavolo, un vagabondo, che si aggirava di solito fra le diligenze con il suo bastone. Era coperto di stracci e un cappellaccio di castoro, tanto sformato da sembrare una catinella, gli nascondeva il viso; ma quando se lo toglieva, mostrava, al posto delle palpebre, le orbite insanguinate che non potevano chiudersi. La carne si sfilacciava in brandelli rossi, e ne colavano umori che si rapprendevano in croste verdi estese fino al naso, le cui narici nere aspiravano convulsamente. Quando parlava arrovesciava la testa con un riso idiota; allora le pupille, di un azzurro incerto, roteavano con un movimento ininterrotto fino a raggiungere, verso le tempie, la striscia di carne viva e piagata.

Seguendo le carrozze, cantava una canzoncina:

 

 

Assai spesso d’un bel giorno il tepore

Fa sognar le fanciulle d’amore.

 

 

E nei versi che seguivano v’erano uccelletti, sole e fogliame.

A volte Emma lo vedeva comparire all’improvviso dietro di sé. Si ritraeva allora con un grido. Hivert lo prendeva in giro. Lo invitava a mettere un baraccone alla fiera di Saint-Romain, oppure gli domandava ridendo come stesse la sua bella.

Spesso, durante la corsa, si vedeva il cappello del disgraziato entrare all’improvviso dal finestrino della diligenza, mentre il suo proprietario si teneva aggrappato con un braccio al veicolo, in equilibrio sul predellino, fra gli schizzi di fango delle ruote. La voce di lui, dapprincipio debole e belante, diveniva acuta. Si trascinava nella notte, come il confuso lamento di una indefinibile angoscia, attraverso il tinnire della sonagliera, il mormorio degli alberi, e il rotolio cupo della diligenza, e aveva qualcosa di remoto che sconvolgeva Emma. Questo suono le scendeva in fondo all’anima come un turbine in un abisso e la trasportava negli spazi di una malinconia senza limiti. Ma Hivert, che si accorgeva subito del veicolo sbilanciato, allungava al cieco violenti colpi di frusta. La sferza colpiva il malcapitato sulle piaghe ed egli cadeva nel fango lanciando un urlo.

Poi i viaggiatori della Rondine finivano per addormentarsi, qualcuno con la bocca aperta, altri con il mento basso, appoggiandosi alla spalla dei vicini, o con il braccio passato nella correggia, oscillando con regolarità agli scossoni della vettura; il riflesso della lanterna che dondolava fuori sulla groppa dei cavalli penetrava all’interno attraverso le tendine color cioccolata, posando ombre sanguigne su tutti quegli individui immobili. Emma, ebbra di malinconia, rabbrividiva per il freddo stringendosi negli abiti, sentiva i piedi diventarle sempre più gelati, e le sembrava di avere la morte nel cuore.

Charles l’aspettava a casa; la Rondine era sempre in ritardo il giovedì. Finalmente la signora Bovary arrivava. Abbracciava appena la piccola. La cena non era ancora pronta, ma Emma non se la prendeva. Non rimproverava neppure la domestica, tutto sembrava permesso a quella ragazza.

Spesso, Charles, notando il pallore della moglie, le domandava se si sentisse male.

«No» rispondeva Emma.

«Ma,» insisteva lui «perché sei tanto strana stasera?»

«Non è nulla! Non è nulla!»

V’erano perfino delle sere in cui, appena tornata a casa, saliva in camera sua, e Justin, che si trovava là, si aggirava in punta di piedi e si ingegnava a rendersi utile meglio di un’ottima cameriera finita. Riponeva i fiammiferi, il candeliere, un libro, sistemava la camicia, scopriva il letto.

«Suvvia,» diceva Emma «va bene, ora vattene.»

Poiché lui restava lì con le mani penzolanti e gli occhi spalancati, come fosse prigioniero fra gli innumerevoli fili di un sogno improvviso.

L’indomani era di solito una giornata orribile, e i giorni successivi, peggio ancora, per l’impazienza che Emma aveva di riafferrare la felicità — una bramosia aspra, infiammata da immagini ben conosciute, che al settimo giorno prorompeva impetuosamente nelle carezze di Léon. Gli ardori di lui si celavano sotto espansioni di meraviglia e di riconoscenza. Emma gustava questo amore in una maniera discreta e totale, lo nutriva con tutti gli artifici della tenerezza, e paventava il momento in cui lo avrebbe perduto.

Spesso diceva a Léon con voce dolce e melanconica:

«Ah! un giorno mi lascerai!… Ti sposerai!… Sarai anche tu come gli altri».

«Quali altri?»

«Come tutti gli uomini, insomma» rispondeva lei.

Poi soggiungeva, respingendolo con un gesto languido:

«Siete tutti infami!»

Un giorno in cui conversavano facendo considerazioni filosofiche sulle disillusioni terrene, Emma (per mettere alla prova la sua gelosia o cedendo forse alla necessità di uno sfogo più completo) disse che un tempo, prima di lui, aveva amato qualcuno; ‘non come te!’, si affrettò a soggiungere, giurando sulla testa di sua figlia, che non era accaduto proprio nulla.

Léon le credette, ma la interrogò per sapere cosa facesse quest’uomo.

«Era un capitano di marina, mio caro.»

Avrebbe in tal modo prevenuto ogni ricerca, e nello stesso tempo si sentiva accresciuta da questa pretesa di avere affascinato un uomo che sarebbe dovuto essere coraggioso e abituato alle avventure.

Il giovane di studio sentì allora quanto era modesta la sua posizione e rimpianse di non avere spalline, croci, titoli. Queste cose dovevano piacerle, Léon lo sospettava viste le sue abitudini prodighe.

Emma taceva molti dei suoi capricci, come quello di avere un tilbury azzurro per venire a Rouen, tirato da un cavallo di razza inglese e guidato da un cocchiere che calzasse stivali con i risvolti. Era stato Justin a farle venire l’idea di una simile stravaganza, supplicandola di prenderlo come cameriere; e se questa privazione non diminuiva a ogni appuntamento il piacere dell’arrivo, aumentava certo la tristezza del ritorno.

Molto spesso, quando parlavano insieme di Parigi, Emma finiva con il mormorare:

«Ah! Come potremmo vivere bene laggiù!»

«Ma non siamo felici anche qui?» rispondeva con dolcezza il giovane, passandole una mano sui capelli.

«Ma certo,» diceva lei «sono pazza: baciami!»

Emma si comportava con il marito nella maniera più deliziosa, gli preparava creme al pistacchio, e gli suonava valzer dopo cena. A Charles sembrava di essere il più fortunato dei mortali ed Emma viveva senza inquietudini, quando una sera, a un tratto, Charles le domandò:

«È la signorina Lempereur a darti lezioni, vero?»

«Sì.»

«Strano, l’ho veduta poco fa» continuò lui «dalla signora Liégard. Le ho parlato di te, ma non ti conosce.»

Fu un colpo di fulmine. Ciò nonostante, Emma rispose con naturalezza:

«Senza dubbio ha dimenticato il mio nome!»

«Forse ci sono a Rouen» disse il medico «altre signorine Lempereur che insegnano il pianoforte.»

«Può darsi!» rispose Emma.

Poi aggiunse con vivacità:

«Del resto, ho le sue ricevute. Aspetta. Te le faccio vedere».

E andò allo scrittoio, frugò in tutti i cassetti, confuse tutte le carte e finse così bene di perdere la testa che Charles l’esortò vivamente a non prendersela tanto per quelle miserabili ricevute.

«Oh! Le ritroverò» disse.

Il venerdì seguente, infatti, Charles, infilandosi uno stivale nello stanzino buio ove erano riposti i suoi abiti, sentì un foglio di carta fra il cuoio e la calza, lo prese e lesse:

Ricevo, per tre mesi di lezioni, più altre forniture, la somma di sessantacinque franchi. Félicie Lempereur, insegnante di musica.

 

 

«Come diavolo è finita nei miei stivali?»

«Sarà di certo caduta» rispose Emma «dalla vecchia cartella dei conti, che si trova in un angolo dello scaffale.»

Da quel momento in poi la sua esistenza fu soltanto un cumulo di menzogne, nelle quali avvolse il proprio amore quasi fossero veli capaci di nasconderlo.

Era divenuto un bisogno, una mania, un piacere, al punto che, se lei affermava di essere passata, il giorno prima, dalla parte destra di una strada, bisognava credere che fosse passata dalla sinistra.

Un mattino in cui Emma era partita vestita come sempre con abiti leggeri, si mise improvvisamente a nevicare; Charles, osservando il tempo dalla finestra, scorse don Bournisien sul calesse del signor Tuvache, che lo portava a Rouen. Scese allora per consegnare al sacerdote un pesante scialle che avrebbe dovuto far avere alla signora Bovary non appena giunto all’albergo della Croce Rossa. Una volta giunti all’albergo, don Bournisien domandò dove fosse la moglie del medico di Yonville. L’albergatore rispose che la signora frequentava assai poco il suo locale. E così, la sera, il curato, incontrando Emma sulla Rondine, le raccontò del contrattempo, senza attribuire peraltro, molta importanza alla cosa; infatti incominciò a elogiare un predicatore che in quel momento faceva bellissimi sermoni nella cattedrale, tanto da far accorrere tutte le signore ad ascoltarlo.

Ma non importava se il curato non aveva domandato spiegazioni; altri, in occasioni simili, avrebbero potuto dimostrarsi meno discreti. Così, Emma ritenne opportuno, da quella volta, scendere sempre alla Croce Rossa, di modo che la brava gente del suo villaggio, vedendola in quell’albergo, non sospettasse di nulla.

Un giorno però, il signor Lheureux la incontrò che usciva dall’Hotel de Boulogne sottobraccio a Léon ed Emma si spaventò, temendo che il mercante avrebbe potuto chiacchierare. Ma lui non era così stupido.

Tre giorni dopo, entrò nella camera della signora Bovary e, chiudendo la porta dietro di sé, disse:

«Avrei bisogno di soldi».

Emma dichiarò di non potergliene dare. Lheureux diede l’avvio a interminabili lamentele e rammentò tutti i piaceri che le aveva fatto.

In realtà, Emma, delle due cambiali firmate da Charles, ne aveva pagata soltanto una. Quanto all’altra, il mercante, cedendo alle insistenze di lei, aveva consentito a sostituirla con altre due, rinnovate anch’esse a lunghissimo termine. Ora Lheureux si tolse di tasca una lista di merci fornite e non pagate che comprendeva: le tende, il tappeto, la stoffa per le poltrone, e diverse altre cose, fra cui alcuni articoli da toletta, per un valore di circa duemila franchi.

Emma chinò la testa; il mercante proseguì:

«Se non ha liquido disponibile, ha però dei beni».

E accennò a una modesta casetta situata a Barneville, vicino a Aumale, una proprietà che fruttava ben poco. La casa era annessa un tempo a una piccola fattoria venduta in seguito dal signor Bovary padre, e Lheureux era informato di tutto, dalla superficie in ettari fino al nome dei vicini.

«Al posto suo,» disse «me ne libererei e potrei disporre ancora della differenza in denaro.»

Emma fece presente la difficoltà di trovare un acquirente; ma il merciaio le fece sperare in quella possibilità. Restava ancora l’ostacolo della vendita: come avrebbe potuto fare?

«Ma non ha la procura?» osservò Lheureux.

Questa frase giunse a Emma come un soffio di aria fresca.

«Mi lasci la lista!» disse.

«Non è il caso!» rispose Lheureux.

Tornò la settimana successiva, vantandosi di aver scovato, dopo essersi dato un gran da fare, un certo Langlois, che da un bel po’ di tempo aveva adocchiato la proprietà senza fare alcuna offerta.

«Il prezzo non importa!» esclamò Emma.

Bisognava aver pazienza, invece, aspettare e tastare il terreno con quel bel tipo. Per risolvere la cosa valeva la pena di fare un viaggio, e siccome lei non avrebbe potuto farlo, il signor Lheureux si offerse di andare sul posto, per un abboccamento con il signor Langlois. Al suo ritorno, il mercante annunciò che il compratore aveva offerto quattromila franchi.

A questa notizia Emma si rallegrò.

«Francamente,» soggiunse lui «è ben pagata.»

Emma incassò metà della somma immediatamente, e, quando volle saldare il suo conto, il mercante le disse:

«Mi dispiace, parola d’onore, di vederla privarsi, così, tutto in una volta, di una somma tanto ingente».

La signora Bovary guardò allora i biglietti di banca, sognando il numero infinito di incontri con Léon che quei duemila franchi rappresentavano:

«Come? Come?» balbettò.

«Oh!» disse l’altro, ridendo con fare bonario «si può mettere tutto quello che si vuole sulle fatture! Crede che non sappia come vanno le cose nelle famiglie?»

E la osservava fissamente, facendo scivolare fra le unghie due lunghi fogli di carta. Finalmente aprì il portafoglio e dispose sulla tavola quattro cambiali da mille franchi ciascuna.

«Mi firmi queste,» disse «e si tenga tutto.»

Emma protestò scandalizzata.

«Ma se le do l’eccedenza,» rispose sfrontatamente il signor Lheureux «non vuol dire forse farle un piacere personale?»

E, prendendo una penna, scrisse in fondo alla lista: Ricevuti dalla signora Bovary, quattromila franchi.

«Cosa mai la preoccupa, visto che entro sei mesi riceverà la rimanenza della vendita della sua casupola e che le ho fissato la scadenza dell’ultima cambiale a dopo il pagamento?»

Emma era un po’ confusa da tutti questi calcoli, e sentiva negli orecchi un tintinnio, come se una cascata di monete d’oro uscita dai sacchi sventrati fosse rimbalzata tutto intorno a lei sul pavimento di legno.

Lheureux le spiegò di avere un amico a Rouen, un banchiere a nome Vinçart, che gli avrebbe scontato le quattro cambiali, e in seguito lui stesso si sarebbe incaricato di consegnare alla signora l’eccedenza del debito reale.

Ma, invece di duemila, non ne portò che mille e ottocento, perché l’amico Vinçart (come era giusto) ne aveva trattenuti duecento per spese di commissione e sconto.

Poi chiese, senza darvi peso, una quietanza.

«Lei capisce… Nel commercio… qualche volta… E la data, per favore, la data.»

Un orizzonte di capricci appagati si aprì davanti a Emma. Ella ebbe abbastanza buon senso per mettere da parte mille scudi, con i quali furono pagate alla scadenza le prime tre cambiali. Ma la quarta capitò per caso nelle mani di Charles un giovedì, ed egli, sconvolto, attese paziente il ritorno della moglie per avere una spiegazione.

Se non gli aveva detto niente di questa cambiale, era stato soltanto per risparmiargli i fastidi domestici; Emma sedette sulle sue ginocchia, lo accarezzò, tubò come una tortora, fece una lunga enumerazione di tutte le cose indispensabili prese a credito.

«Insomma, vista la quantità, vorrai convenire che non sono affatto care.»

Charles, non sapendo più cosa fare, ricorse ben presto all’eterno Lheureux, il quale giurò di sistemare le cose, se Bovary gli avesse firmato due cambiali di cui una, con scadenza a tre mesi, di settecento franchi. Per poter far fronte agli impegni, Bovary scrisse una lettera patetica alla madre, e quest’ultima, invece di rispondere, venne di persona. Quando Emma volle sapere se il marito avesse ottenuto qualcosa egli rispose:

«Sì, ma vuol vedere la fattura».

Il giorno successivo, Emma, non appena fece giorno, corse da Lheureux per pregarlo di stendere una nuova fattura, non superiore ai mille franchi, perché se avesse mostrato quella di quattromila sarebbe stata costretta a dire di averne già pagato i due terzi e di conseguenza sarebbe venuta fuori la faccenda della vendita, condotta così bene dal mercante e venuta in luce, in realtà, soltanto più tardi.

Nonostante il prezzo molto basso di ogni articolo, la signora Bovary madre non poté fare a meno di trovare esagerata la spesa.

«Ma non potevi proprio fare a meno di un tappeto? Perché avete rinnovato la stoffa delle poltrone? Ai miei tempi, avevamo in casa una sola poltrona, per le persone anziane; almeno era così in casa di mia madre, una gran brava donna, posso assicurarvelo. Non tutti possono essere ricchi. E non c’è ricchezza che resista allo sperpero! Mi sentirei arrossire se dovessi trattarmi con tutte le attenzioni come fate voi! Eppure sono vecchia, avrei bisogno di cure… E guardate qui, rifacimenti, lussi! Ma come, la seta delle fodere a due franchi!… Quando si trova la giaconetta a dieci soldi e anche a otto, e serve benissimo lo stesso.»

Emma, appoggiata al divanetto, rispondeva il più tranquillamente possibile:

«Eh! Signora, basta, basta!»

L’altra continuava a borbottare, predicando che di quel passo sarebbero finiti all’ospizio. D’altronde, la colpa era di suo figlio. Per fortuna aveva promesso di annullare quella procura…

«Come?»

«Ah! Me lo ha giurato!» riprese la brava donna.

Emma aprì la finestra, chiamò Charles e il pover’uomo fu costretto a confessare la promessa strappatagli dalla madre.

Emma sparì per ricomparire subito dopo con un grosso foglio di carta che porse molto dignitosamente alla suocera.

E questa gettò nel fuoco la procura.

Emma si mise a ridere, di un riso stridente, clamoroso, ininterrotto: ebbe una crisi di nervi.

«Ah! Mio Dio!» gridò Charles «Adesso hai torto anche tu! Vai a farle una scenata…»

La madre, alzando le spalle, dichiarò di essere convinta ch’erano tutte pose.

Ma Charles, per la prima volta, si ribellò, prese le difese di sua moglie, tanto che la signora Bovary madre decise di andarsene. Partì l’indomani stesso, e sulla porta, mentre il figlio cercava di trattenerla, disse:

«No, no! Tu vuoi più bene a lei che a tua madre, e fai bene, è nell’ordine delle cose. Del resto, peggio per te! Vedrai!… Statemi bene!… Non verrò tanto presto, come dici tu, a farle delle scenate».

Charles rimase molto umiliato di fronte a Emma, poiché questa non gli nascondeva affatto il rancore che provava nei suoi confronti per averle manifestato così poca fiducia; egli dovette insistere e pregarla a lungo prima che acconsentisse ad accettare di nuovo la procura, e addirittura l’accompagnò lui stesso dal signor Guillaumin per stipularne una seconda in tutto uguale all’altra.

«Capisco,» disse il notaio «un uomo di scienza non può prendersi tutti i fastidi della vita pratica.»

E Charles si sentì consolato da questa considerazione adulatrice che dava alla sua debolezza l’aspetto lusinghiero di più alte preoccupazioni.

Quante pazzie, il giovedì successivo, all’albergo con Léon nella loro camera! Emma rise, pianse, cantò, ballò, si fece portare gelati, volle fumare sigarette, parve molto stravagante, ma adorabile, meravigliosa.

Léon non sapeva nulla di quella reazione di tutto il suo essere che la spingeva, sempre più incalzante, a gettarsi sui piaceri della vita. Diventava irritabile, golosa e piena di voluttà; e andava a passeggio con lui per le strade, a testa alta, senza timore, diceva, di compromettersi. Qualche volta, però, trasaliva all’idea di incontrare Rodolphe; le sembrava, benché si fossero separati per sempre, di non essersi ancora liberata del tutto dalla sua potestà.

Una sera Emma non rientrò a Yonville. Charles non capiva più niente e la piccola Berthe, che non voleva andare a dormire senza la mamma, singhiozzava da spezzarsi il cuore. Justin era andato sulla strada maestra tanto per fare qualcosa e il signor Homais aveva abbandonato la farmacia.

Infine, alle undici, non potendo più trattenersi, Charles attaccò il carrozzino, ci saltò sopra, frustò la sua bestia e arrivò verso le due all’albergo della Croce Rossa. Di Emma nessuna traccia. Pensò allora che forse Léon l’aveva vista; ma dove abitava? Ricordò, per una fortunata combinazione, l’indirizzo del suo principale. Vi si precipitò.

Cominciava a far giorno. Intravide un’insegna sopra una porta; bussò. Qualcuno, senza aprirgli, gli gridò l’informazione richiesta, aggiungendovi una buona dose di ingiurie contro quelli che disturbano la gente di notte.

La casa abitata dal giovane di studio non aveva né campanello né picchiotto né portiere. Charles batté grandi colpi con i pugni contro le imposte. Passò un agente di polizia, Charles si spaventò e si allontanò.

“Sono pazzo,” si diceva “certo l’avranno trattenuta a pranzo dai Lormeaux.”

Ma la famiglia Lormeaux non abitava più a Rouen.

“Si sarà fermata a far compagnia alla signora Dubreuil. Eh! La Signora Dubreuil è morta da più di dieci mesi!… Dove sarà allora?”

Gli venne un’idea. Si fece dare, in un caffè, l’Annuario, e cercò in fretta l’indirizzo della signorina Lempereur, la quale abitava in Rue de la Renelle-des-Maroquiniers al numero 74.

Appena fu entrato in questa via, all’altro capo comparve Emma; più che abbracciarla, Charles le si gettò contro, gridando:

«Chi ti ha trattenuta, ieri?»

«Sono stata poco bene.»

«Cosa hai avuto?… e dove?… Come mai?»

Emma si passò una mano sulla fronte e rispose:

«Dalla signorina Lempereur».

«Ne ero sicuro. Stavo proprio andandoci.»

«Non ne vale la pena» disse Emma. «Esce di casa molto presto; ma un’altra volta, sta’ tranquillo. Mi sentirò troppo legata, capisci, se so che il minimo ritardo ti sconvolge tanto.»

Era una specie di permesso che ella stessa si concedeva per evitarsi noie nelle sue scappate, e ne approfittò largamente e con tutto il suo comodo. Quando le veniva il desiderio di rivedere Léon, partiva con un pretesto qualsiasi e, poiché lui quel giorno non l’aspettava, andava a chiamarlo allo studio.

Le prime volte fu una gran gioia rivederla, ma presto Léon non poté più nasconderle la verità: il principale era molto seccato per l’intralcio causato dalle sue assenze.

«Non ci far caso, andiamo» diceva lei.

E Léon se la svignava.

Emma volle che si vestisse tutto di nero e si lasciasse crescere il pizzo, per rassomigliare ai ritratti di Luigi XIII. Volle visitare il suo appartamento, e lo trovò mediocre; Léon se ne vergognò, ma Emma non ci fece caso e gli consigliò di comperare tende uguali alle sue e, alle obiezioni di lui sulla spesa, gli disse ridendo:

«Ah! Ah! Ci tieni ai soldini!»

Léon doveva ogni volta raccontarle tutto quello che aveva fatto, dall’ultimo incontro. Emma gli chiese di scrivere versi, versi per lei, un sonetto d’amore in suo omaggio: Léon non riuscì a trovare in nessun modo la rima per il secondo verso, e finì col copiare la poesia da un album dei ricordi.

Lo fece più per compiacerla che per vanità. Non discuteva le idee di Emma; accettava i suoi giudizi e, in questo amore, la parte della donna era più sua di quanto non lo fosse di lei. Ella aveva parole tenere e baci che gli rapivano l’anima: ma dove aveva imparato quella corruzione, quasi immateriale tanto era profonda e dissimulata?

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