Dic 222018
 

La folla aspettava contro il muro, schierata con ordine entro le transenne. All’angolo delle strade vicine, giganteschi manifesti ripetevano in caratteri barocchi: Lucia di Lammermoor… Lagardy… Opéra… ecc. Era bel tempo e faceva caldo; il sudore scorreva fra i riccioli, nessun fazzoletto da tasca era al suo posto, ma tutti asciugavano fronti arrossate, e per certi momenti un vento tiepido proveniente dal fiume agitava un poco i lembi delle tende di traliccio sospese davanti alle porte dei caffè. Un poco più in basso, tuttavia, si era rinfrescati da una corrente d’aria gelida che sapeva di sego, di cuoio, e di olio. Era l’effluvio che esalava da Rue des Charrettes, piena di grandi botteghe nere nelle quali i barili venivano fatti rotolare.

Emma, per tema di sembrare ridicola, prima di entrare volle fare una passeggiata al porto, e Bovary tenne prudentemente appoggiata al ventre una mano nella tasca dei pantaloni, dove c’erano i biglietti.

Quando furono nel vestibolo Emma fu presa dal batticuore. Sorrise senza volerlo, di vanità, vedendo la folla che si precipitava a destra, nell’altro corridoio, mentre lei saliva lo scalone dei primi posti. Provò un piacere infantile spingendo con la mano le larghe porte imbottite; aspirò a pieni polmoni l’odore polveroso dei corridoi, e, quando si fu seduta nel palco, si drizzò sulla vita con la disinvoltura di una duchessa.

La sala incominciava a riempirsi, i binocoli venivano tolti dagli astucci, e gli abbonati, scorgendosi di lontano, si facevano cenni di saluto. Venivano a ricrearsi con le belle arti dopo le preoccupazioni degli affari, ma senza dimenticarli; infatti discorrevano ancora di cotoni, di alcool puro, o di indaco. Si vedevano teste di vecchi, inespressive e pacifiche, bianche di colorito e di capelli, simili a medaglie d’argento appannate da una patina plumbea. I bellimbusti si pavoneggiavano in platea ostentando nell’apertura dei panciotti cravatte rosa o verde mela; e la signora Bovary li ammirava dall’alto, mentre appoggiavano sui bastoncelli dal pomo dorato il palmo disteso dei loro guanti gialli.

Intanto si accesero le luci dell’orchestra. Il lampadario discese dal soffitto, riversando con lo scintillio delle sfaccettature del cristallo una subitanea gaiezza nella sala. Poi entrarono i musicisti, uno dopo l’altro, e da principio vi fu un gran baillamme di suoni, di bassi ronfanti, di violini stridenti, di squilli di trombe e di pigolii di flauti e pifferi. Si sentirono tre colpi sul palcoscenico, i timpani cominciarono a rullare, gli ottoni lanciarono degli accordi, e il sipario, alzandosi, mostrò un paesaggio.

Rappresentava un crocevia in un bosco, a sinistra una fontana era ombreggiata da una quercia. Alcuni contadini e alcuni signorotti di campagna con la caratteristica sciarpa scozzese sulla spalla, cantavano insieme una canzone di caccia; sopraggiunse un capitano che invocava l’angelo del male levando al cielo le braccia; comparve un altro personaggio; se ne andarono tutt’e due e i cacciatori ripresero a cantare.

Emma si risentiva immersa nell’atmosfera delle sue letture giovanili, in pieno Walter Scott. Le sembrava di sentire, attraverso la nebbia, il suono delle cornamuse scozzesi echeggiare sulle brughiere. Del resto, il ricordo del romanzo le facilitava la comprensione del libretto, ed Emma seguiva l’intreccio frase per frase mentre inafferrabili pensieri le tornavano alla mente, subito dispersi da raffiche di musica. Si lasciava cullare dalla melodia e si sentiva vibrare in tutto l’essere suo come se i nervi fossero le corde stesse dei violini sulle quali passavano gli archetti. Non aveva occhi abbastanza per contemplare i costumi, gli scenari, i personaggi, gli alberi dipinti che tremavano quando qualcuno camminava sulla scena, i berretti di velluto, i mantelli, le spade, tutte quelle invenzioni fantastiche le quali si muovevano nell’armonia della musica come nell’atmosfera di un altro mondo. Ma una giovane donna venne avanti e gettò una borsa a uno scudiero dall’abito verde. Rimase sola e si sentì allora un flauto che imitava il mormorio di una fonte o il cinguettare degli uccelli. Lucia incominciò con aria austera la cavatina in sol maggiore; descriveva le sue pene d’amore ed esprimeva il desiderio di poter volare. Anche Emma avrebbe voluto fuggire dalla vita, andarsene in un abbraccio. D’improvviso Edgardo-Lagardy apparve.

Aveva quel meraviglioso pallore che conferisce qualcosa della maestà del marmo alle stirpi ardenti del mezzogiorno. Il suo torace vigoroso era stretto in una giubba di un colore bruno, uno stiletto cesellato gli batteva sulla coscia sinistra: si guardava intorno con sguardi pieni di languore e scopriva in un sorriso i denti bianchi. Si diceva che una principessa polacca, ascoltandolo cantare una sera, sulla spiaggia di Biarritz, dove lui riparava imbarcazioni, se ne fosse innamorata. Si era rovinata per lui. E lui l’aveva piantata per correre dietro ad altre donne, e questa celebrità sentimentale era utile alla sua fama di artista. L’accorto commediante non faceva mai mancare, in tutti gli annunci pubblicitari che lo riguardavano, una frase poetica sul fascino della sua persona e sulla sensibilità del suo animo. Una bella voce, un’imperturbabile sicurezza di sé, più temperamento che intelligenza, più enfasi che lirismo, finivano per rivalutare questa ammirevole natura di ciarlatano nella quale si univano alcune caratteristiche del barbiere e del torero.

Fin dalla prima scena suscitò entusiasmo. Prendeva Lucia fra le braccia, la lasciava, tornava vicino a lei, sembrava disperato: aveva accessi di collera seguiti da sospiri elegiaci di una dolcezza infinita e le note sfuggivano dalla gola nuda piene di singhiozzi e di baci. Emma si protendeva per vederlo, graffiando con le unghie il velluto del palco. Si riempiva il cuore con questi melodiosi lamenti che si trascinavano sull’accompagnamento dei contrabbassi come grida di naufraghi nel tumulto di una tempesta. Riconosceva tutte le prostrazioni e le angosce che per poco non l’avevano fatta morire. La voce della cantante era per lei soltanto l’eco della propria coscienza, e l’illusione scenica che l’affascinava le sembrava addirittura qualcosa della sua vita. Mai nessuno al mondo l’aveva amata di un amore simile; il suo amante non piangeva come Edgardo, l’ultima sera al chiaro di luna, quando si erano detti: «A domani, a domani!..» Nella sala scrosciarono gli applausi; la scena finale fu ripetuta daccapo; i due cantanti parlarono di fiori sulle loro tombe, di giuramenti, di esili, di fatalità, di speranze, e quando lanciarono l’addio finale Emma gettò un grido acuto che si confuse con la vibrazione degli ultimi accordi.

«Perché» domandò Bovary «quel signore la perseguita?»

«Ma no,» rispose lei «è il suo amante.»

«Eppure giura di vendicarsi sulla sua famiglia, mentre quell’altro, quello che era venuto prima, diceva: “Amo Lucia e sono convinto di esserne riamato”. E d’altra parte è andato via sottobraccio al padre di lei. Perché è suo padre, vero, quello piccolo, brutto, con la piuma di gallo sul cappello?»

Nonostante le spiegazioni di Emma , dopo il duetto recitativo nel quale Gilberto espone i suoi nefandi intenti al padrone Ashton, vedendo il falso anello di fidanzamento destinato a ingannare Lucia, Charles credette che fosse un pegno d’amore inviato da Edgardo. Confessò, del resto di non capire la storia per colpa della musica che non gli lasciava sentire le parole.

«Non importa,» disse Emma «taci!»

«Ma vorrei» continuò lui, chinandosi verso la moglie «rendermi conto, capisci?»

«Taci, taci!» fece lei con impazienza.

Lucia veniva avanti, sostenuta in parte dalle ancelle, con una corona d’arancio sui capelli, più pallida del suo abito di raso bianco. Emma ricordò il giorno del suo matrimonio; si rivedeva laggiù, sul viottolo in mezzo al grano, mentre andavano verso la chiesa. Perché mai, anche lei, come Lucia, non aveva resistito, supplicato? Era contenta, invece, senza rendersi conto dell’abisso in cui si stava gettando… Ah! Se nella freschezza della sua avvenenza, prima della contaminazione del matrimonio e la disillusione dell’adulterio, avesse potuto appoggiare la propria vita a un cuore grande e forte, allora la virtù, la tenerezza, le voluttà e il dovere sarebbero divenuti una cosa sola, e mai avrebbe potuto rinunciare a una felicità così alta. Ma una tale felicità, senza dubbio, non era altro che una menzogna immaginata per rendere impossibili i desideri. Conosceva adesso la meschinità delle passioni esasperate dall’arte. Sforzandosi di indirizzare altrove i propri pensieri, Emma volle scorgere in questa replica dei suoi affanni soltanto una fantasia plastica fatta per ingannare gli occhi, e addirittura sorrideva dentro di sé con sprezzante pietà, quando in fondo al palcoscenico, sotto una portiera di velluto, apparve un uomo dal mantello nero.

Fece cadere con un gesto il grande cappello alla spagnola, e subito gli strumenti e i cantanti attaccarono il sestetto. Edgardo, acceso dal furore, dominava tutti gli altri con la voce squillante; Ashton gli lanciava provocazioni mortali su note basse; Lucia emetteva il suo acuto lamento, Arturo modulava per suo conto su un tono medio; e la bassa figura del pastore ronfava come un organo, mentre le voci femminili, ripetendo le sue parole, riprendevano il motivo deliziosamente, in coro. Stavano tutti allineati e gesticolavano; e la collera, la vendetta, la gelosia, il terrore, la misericordia e lo stupore uscivano, volta a volta, dalle loro bocche socchiuse. L’amante oltraggiato brandiva la spada sguainata: il solino di merletto andava su e giù a scatti a seconda dei movimenti del petto, e il protagonista si spostava a destra e a sinistra a grandi passi, facendo risonare sul tavolato gli speroni dorati degli stivali flosci che si aprivano a imbuto sulla caviglia. “Doveva poter disporre”, pensò Emma, “di una possibilità d’amare inesauribile, per riversarne sulla folla una piena così imponente.” Tutte le velleità denigratorie svanirono davanti alle poetiche seduzioni di quella interpretazione, e, attirata verso l’uomo dalla finzione del personaggio, ella cercò di immaginare la vita, una vita clamorosa, straordinaria, splendida, che anche lei avrebbe potuto vivere se soltanto il caso l’avesse voluto. Si sarebbero conosciuti e si sarebbero amati! Con lui avrebbe viaggiato di capitale in capitale attraverso tutti i regni d’Europa, dividendo le fatiche e i successi, raccogliendo i fiori che gli avrebbero gettato, ricamando ella stessa i costumi, poi, ogni sera, dal fondo di un palco, dietro una grata dorata, avrebbe accolto con avidità le effusioni di quell’anima che avrebbe cantato soltanto per lei; egli l’avrebbe guardata dalla scena, mentre cantava. Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava, ne era sicura! Sentì il desiderio di gettarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore, e di dirgli in un grido: «Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!»

Calò il sipario.

L’odore del gas si mescolava all’alito di tutte quelle persone, l’aria smossa dai ventagli rendeva l’atmosfera ancora più soffocante. Emma volle uscire; la folla ingombrava i corridoi ed ella ricadde sulla poltrona con palpitazioni che le toglievano il respiro. Charles, temendo di vederla svenire, corse al caffè del teatro a prenderle un bicchiere di orzata.

Gli costò una gran fatica ritornare al suo posto; a ogni passo riceveva un urtone nei gomiti a causa del bicchiere che reggeva fra le mani, tanto che finì per versare i tre quarti del contenuto sulle spalle di una signora di Rouen che indossava un abito con le maniche corte e che, sentendosi scorrere sulla schiena il liquido freddo, si mise a gridare come un pavone quasi volessero assassinarla. Suo marito, il proprietario di una filanda, se la prese con il maldestro, e mentre la moglie, con il fazzoletto, cercava di asciugare le macchie sul suo bell’abito di taffettà color ciliegia, cominciò a brontolare con aria burbera accennando a indennizzi, spese, rimborsi. Finalmente Charles giunse da Emma e le disse, tutto trafelato:

«Credevo di non riuscire più a uscirne! C’è tanta di quella gente, tanta di quella gente!…»

E soggiunse:

«Indovina un po’ chi ho incontrato? Il signor Léon!»

«Léon?»

«Proprio lui! Verrà a salutarti.»

Mentre finiva di pronunciare queste parole, l’ex segretario del notaio di Yonville entrò nel palco.

Tese la mano con disinvoltura, da uomo di mondo, e la signora Bovary, come un automa, ripeté lo stesso gesto, ubbidendo, certo, alla suggestione di una volontà più forte. Emma non l’aveva più sentita da quella sera, a primavera, quando pioveva sulle foglie verdi e loro due si erano detti addio in piedi, vicino alla finestra. Ma subito, ricordando che doveva rispettare le convenienze, si riscosse a fatica dal torpore di quei ricordi e si mise a balbettare rapide frasi.

«Ah! Buonasera… Come? Lei qui?»

«Silenzio!» gridò una voce dalla platea, perché il terzo atto era cominciato.

«Abita a Rouen, allora?»

«Sì.»

«E da quando?»

«Mandateli fuori! Mandateli fuori!»

La gente si girava a guardare. Tacquero.

Ma, da quel momento, Emma non ascoltò più, e il coro dei convitati, la scene di Ashton e del valletto, bellissimo duetto in re maggiore, tutto si svolse per lei in lontananza come se gli strumenti fossero diventati meno sonori e i personaggi più distanti: ricordava le partite a carte dal farmacista e la passeggiata dalla balia, le letture sotto la pergola e le chiacchiere vicino al fuoco, tutto quel povero amore così calmo e così prolisso, così discreto e tenero e che lei ciò nonostante era riuscita a dimenticare. Perché era tornato? Quale concatenarsi di circostanze lo aveva riportato nella sua vita? Si era messo dietro di lei, le spalle appoggiate al tramezzo, e di tanto in tanto Emma rabbrividiva sentendo il soffio tiepido del suo respiro che le scendeva attraverso i capelli.

«Le piace questo spettacolo?» egli domandò, facendosi tanto vicino che la punta di un baffo le sfiorò la gota.

Emma rispose con noncuranza:

«Oh! Mio Dio, no! Non troppo».

Allora Léon propose di uscire dal teatro e di andare a prendere un gelato in qualche posto.

«Ah! Non ancora! Restiamo!» disse Bovary «Lucia ha i capelli sciolti; ci sarà di sicuro una scene tragica.»

Ma la scena della follia non interessava affatto Emma, e la recitazione della cantante le pareva esagerata.

«Grida troppo» disse, rivolta a Charles, che stava ascoltando.

«Sì,… forse… un po’» rispose lui, indeciso fra la sincerità del proprio piacere e il rispetto che nutriva nei confronti delle opinioni della moglie.

Poi Léon disse, sospirando:

«Fa un caldo…»

«Insopportabile! È vero.»

«Ti dà fastidio?» domandò Bovary.

«Sì, soffoco: andiamo.»

Il signor Léon posò delicatamente il lungo scialle di pizzo sulle spalle di lei, e tutt’e tre andarono al porto, e sedettero all’aria aperta, davanti alla vetrina di un caffè. Parlarono dapprima della malattia di Emma, per quanto lei interrompesse Charles ogni momento, timorosa, diceva, ch’egli annoiasse il signor Léon; quest’ultimo raccontò loro di essere tornato a Rouen per fermarvisi due anni in un importante studio, a far pratica negli affari, che erano diversi in Normandia da quelli trattati a Parigi. Si informò di Berthe, della famiglia Homais, di mamma Lefrançois; e siccome in presenza del marito non avevano più nulla da dirsi, ben presto la conversazione languì.

Sul marciapiedi passò gente che usciva da teatro, canticchiando o sbraitando a squarciagola: O bell’alma innamorata! Allora Léon, atteggiandosi a dilettante, si mise a parlare di musica. Aveva visto Tamburini, Rubini, Persiani, Grisi, e in confronto a loro Lagardy non valeva nulla.

«Eppure,» lo interruppe Charles, affondando il cucchiaino nel gelato al rum «si dice che all’ultimo atto sia meraviglioso; mi dispiace di essere venuto via prima della fine, perché cominciavo a divertirmi.»

«In quanto a questo,» disse il giovane «ci sarà quanto prima un’altra rappresentazione.»

Ma Charles rispose che sarebbero partiti l’indomani.

«A meno che» soggiunse, voltandosi verso la moglie «tu non voglia rimanere qui sola, gattina.»

E, cambiando parere davanti a questa occasione inattesa che veniva offerta alle sue speranze, il giovanotto cominciò a tessere gli elogi di Lagardy nell’ultimo atto. Era qualcosa di superbo, di sublime! Charles, allora, insistette.

«Potresti tornare domenica. Andiamo, deciditi! Non devi dire di no se sei convinta che questo possa anche minimamente giovarti.»

Intanto i tavolini tutt’intorno andavano svuotandosi; un cameriere venne a mettersi con discrezione accanto a loro; Charles capì ed estrasse il borsellino, Léon lo trattenne per un braccio e non dimenticò neppure di lasciare come mancia due monete d’argento che fece tintinnare sul marmo del tavolino.

«Sono veramente dispiaciuto… del denaro che lei…» mormorò Bovary.

L’altro fece un gesto noncurante e cordiale, poi, prendendo il cappello:

«Allora siamo d’accordo, vero, domani alle sei?»

Charles si rammaricò ancora una volta di non potersi trattenere più a lungo, ma dichiarò che nulla impediva a Emma…

«È che…» balbettò lei con uno strano sorriso «non so bene…»

«Non preoccuparti, hai tempo di ripensarci, vedremo, la notte porta consiglio..»

Poi, volgendosi a Léon che li accompagnava:

«Ora che è di nuovo dalle nostre parti, verrà qualche volta a pranzo da noi, posso sperarlo?»

Il giovane di studio affermò che non si sarebbe fatto pregare, tanto più che doveva recarsi a Yonville per un affare riguardante il suo studio. E si separarono davanti alla galleria Sain-Herbland, nel momento in cui l’orologio della cattedrale sonava le undici e mezzo.

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