Nov 242018
 

Egli aveva letto recentemente di un nuovo e vantato metodo per la cura dei piedi storpi, ed essendo un fautore del progresso si era messo in mente la campanilistica idea che Yonville, per essere all’altezza dei tempi, avrebbe dovuto sperimentare questi interventi di ortopedia.

«Tanto,» disse a Emma «che cosa rischiamo? Stia a sentire: (ed enumerò sulle dita i vantaggi del tentativo) successo quasi sicuro, sollievo e vantaggi estetici per il malato, fama subitanea per il chirurgo. Perché suo marito, per esempio, non dovrebbe desiderare di liberare il povero Hippolyte del Leon d’Oro? Tenga presente che quell’uomo non mancherà di raccontare la sua guarigione a tutti i viaggiatori di passaggio, e poi (Homais abbassò la voce e si guardò intorno circospetto) chi mi impedirà di mandare al giornale un trafiletto sull’argomento? Eh, mio Dio! Un articolo gira… se ne parla… finisce per diventare una valanga! E chi può mai dire? Chi può dire?»

In verità Bovary avrebbe potuto riuscire; nulla lasciava sospettare a Emma che egli non ne fosse capace, e quale soddisfazione sarebbe stata per lei averlo spinto a un passo che avrebbe potuto accrescerne la reputazione e l’agiatezza. Emma non desiderava altro se non basare le proprie aspirazioni su qualcosa di più solido dell’amore.

Charles, sollecitato dal farmacista e dalla moglie, si lasciò convincere. Si fece mandare da Rouen il volume del dottor Duval e tutte le sere, con la testa fra le mani, si immergeva in questa lettura.

Mentre studiava il piede equino, il piede storto in dentro, il piede valgo e cioè la strefocatopodia, la strefendopodia e la strefexopodia, (o, per meglio dire, le differenti malformazioni del piede, sia verso il basso sia in alto, in dentro o in fuori) insieme con la strefipopodia e la strefanopodia (ovvero torsione verso il basso e raddrizzamento in alto), il signor Homais, per mezzo di una serie di ragionamenti, cercava di convincere il mozzo di stalla dell’albergo a farsi operare.

«Non sentirai, forse, che un piccolissimo dolore, una puntura come per un modesto salasso, meno che per l’estirpazione di certi calli.»

Hippolyte rifletteva, guardandosi intorno coi suoi stupidi occhi.

«Del resto,» riprendeva il farmacista «la cosa non mi riguarda! Lo dico per un senso di umanità nei tuoi confronti. Vorrei vederti, amico mio, liberato da quella orribile claudicazione, con quel dondolio della regione lombare che, per quanto tu possa dire, deve nuocerti molto nel tuo lavoro.»

A questo punto Homais gli faceva presente come si sarebbe sentito più forte e più in gamba, e gli lasciava capire che avrebbe avuto più successo con le donne: il mozzo di stalla sorrideva goffamente. L’altro cercava di stuzzicarne la vanità.

«Ma che razza d’uomo sei, perbacco? Cosa avresti fatto, allora, se avessi dovuto fare il servizio militare e andare a combattere sotto le bandiere?… Ah Hippolyte!»

E Homais si allontanava, dichiarando di non capire certe ostinazioni e una tale cecità di fronte ai benefici della scienza.

Il disgraziato cedette, perché fu quasi una congiura, alla quale presero parte Binet, che non si occupava mai, di solito degli affari altrui, la signora Lefrançois, Artémise, i vicini, addirittura il sindaco; tutti, in una parola, lo esortarono, gli fecero prediche, lo svergognarono. Ma l’argomento decisivo fu che non avrebbe pagato un soldo. Bovary si sarebbe preoccupato perfino di procurare l’apparecchio per l’operazione. Era stata di Emma l’idea di tanta generosità e Charles aveva acconsentito, sempre più convinto, in fondo al cuore, che sua moglie era un angelo.

Con i consigli del farmacista e ricominciando daccapo per tre volte il lavoro, fecero costruire dal falegname, aiutato dal fabbro, una sorta di cassetta pesante circa otto libbre, nella quale non si era fatta economia di ferro, legno, latta, cuoio, viti e bulloni.

Tuttavia, per sapere quale tendine si dovesse recidere a Hippolyte, bisognava conoscere prima che specie di piede zoppo avesse.

Il piede di lui formava con la gamba una linea pressoché diritta, e questo non gli impediva di essere anche un poco distorto verso l’interno, per cui si trattava di un piede equino e un po’ varo, o, se si preferiva, di un piede varo con forti caratteristiche equine. Ma, pur con questo piede equino, largo proprio come la zampa di un cavallo, con la pelle rugosa, i tendini secchi, l’alluce grosso, le unghie nere simili ai chiodi di un ferro di cavallo, lo strefopodo, dalla mattina alla sera, trottava come un capriolo. Lo si vedeva di continuo sulla piazza saltellare intorno ai carretti, gettando avanti il suo sostegno inconsueto, il quale sembrava perfino più vigoroso di quello sano. A forza di essere utilizzato, aveva acquistato quasi delle qualità morali di pazienza e di energia tali che, quando il suo proprietario doveva compiere un lavoro particolarmente pesante, si appoggiava di preferenza proprio sull’arto storpio.

Dal momento che si trattava di un piede equino, bisognava recidere il tendine d’Achille, salvo poi intervenire in seguito sul muscolo tibiale anteriore per eliminare il difetto che portava il piede a spostarsi in dentro. Il medico, infatti, non osava rischiare in una sola volta due operazioni, e addirittura già tremava per la paura di incidere qualche parte importante e a lui sconosciuta.

Né Ambroise Paré, quando per la prima volta, dopo un intervallo di quindici secoli, emulò Celso praticando la legatura diretta di un’arteria, né Dupuytren allorché dovette incidere un ascesso nascosto sotto uno spesso lembo di encefalo, né Gensoul quando asportò, come non aveva fatto ancora nessuno prima di lui, il mascellare superiore, potevano essersi sentiti il cuore così agitato, la mano tremante, i nervi tesi come Bovary nel momento in cui si avvicinò a Hippolyte con il tenotomo stretto fra le dita. Come negli ospedali, sulla tavola vicina erano ammucchiate un cumulo di filacce, di fili ricoperti di cera, e bende, una piramide di bende, tutte le bende che conteneva la bottega del farmacista. Era stato il signor Homais a organizzare quel mattino tutti i preparativi, un po’ per stupire la gente e un po’ per rassicurare se stesso. Charles incise la pelle, si sentì uno scricchiolio. Il tendine era reciso, l’operazione finita. Hippolyte sembrava sbalordito per la sorpresa, si protendeva per coprire di baci le mani di Bovary.

«Suvvia, calmati» disse lo speziale. «Dimostrerai più tardi la tua riconoscenza.»

E uscì per comunicare l’esito ai cinque o sei curiosi che stazionavano nel cortile, i quali si aspettavano di vedere Hippolyte ricomparire camminando senza più zoppicare. Poi Charles, dopo aver sistemato il suo paziente nell’apparecchio meccanico, tornò a casa, ove Emma lo aspettava sulla porta, piena di ansia. Gli gettò le braccia al collo e poi si misero a tavola. Charles mangiò molto e volle bere addirittura, dopo la frutta, una tazza di caffè, un lusso che si concedeva soltanto la domenica, o quando aveva ospiti.

La serata fu deliziosa, piena di chiacchiere, di comuni speranze. Parlarono della futura agiatezza, dei lussi che avrebbero potuto permettersi. Charles già vedeva crescere la propria notorietà, aumentare il benessere della famiglia; sua moglie l’amava ancora e si sentiva felice di essersi purificata in un sentimento nuovo, pulito, migliore, felice di provare finalmente qualcosa di simile alla tenerezza, per quel brav’uomo che l’aveva sposata. Per un momento il pensiero di Rodolphe le attraversò la mente; ma i suoi occhi si posarono di nuovo su Charles: notò sorpresa che egli aveva dei bei denti.

Erano a letto, quando il signor Homais, ignorando la domestica che cercava di trattenerlo, entrò d’improvviso in camera, tenendo fra le mani un foglio fresco di inchiostro. Era l’articolo che intendeva mandare al Faro di Rouen per rendere pubblica la notizia. Voleva che lo leggessero.

«Lo legga lei» disse Bovary.

Egli lesse:

«Nonostante i pregiudizi che ancora coprono come una rete gran parte della faccia dell’Europa, la luce comincia a penetrare nelle nostre campagne. Martedì, la piccola città di Yonville è stata teatro di una importante esperienza nel campo della chirurgia e nello stesso tempo di un gesto altamente filantropico. Il signor Bovary, uno dei nostri più insigni professionisti…»

«Ah! Questo è troppo, è troppo!» diceva Charles soffocato dalla commozione.

«Ma no, per nulla! Ma come!… ha operato il piede storpio… Non ho usato il termine scientifico perché, sa, su un giornale… può darsi che non tutti capiscano, bisogna che la massa…»

«Infatti,» disse Bovary «continui.»

«Vado avanti» disse il farmacista. «Il signor Bovary, uno dei nostri più insigni professionisti, ha operato il piede storpio di un certo Hippolyte Tautain, mozzo di stalla da venticinque anni all’albergo Leon d’Oro della signora Lefrançois, sulla piazza d’armi. La novità dell’intervento e la popolarità del paziente hanno attirato un così gran numero di persone da dar luogo a una vera ressa davanti all’edificio. L’operazione, per altro, è stata effettuata come per incanto e solamente poche gocce di sangue sono uscite dall’incisione, quasi ad annunciare che il tendine ribelle aveva infine ceduto ai tentativi della scienza. Il paziente, cosa assai strana (possiamo affermarlo per averlo costatato con i nostri occhi), non ha accusato alcun dolore. Le sue condizioni sono fino a ora molto soddisfacenti; tutto lascia ritenere che la convalescenza sarà breve, e chissà che, alla prossima festa del villaggio, non ci sia possibile vedere il nostro bravo Hippolyte, fra un gruppo di allegri buontemponi, prendere parte a danze bacchiche, dimostrando così a tutti, con la sua vivacità nel ballo, di essere completamente guarito. Sia reso onore, dunque, agli scienziati generosi. Siano onorati quegli spiriti infaticabili che sacrificano il sonno per assicurare la salute del genere umano o anche per confortarlo nelle malattie! Onoriamoli! Onoriamoli mille volte! Non verrebbe fatto di esclamare: i ciechi vedranno, i sordi udiranno e gli zoppi cammineranno? Ma ciò che un tempo si ripromettevano i fanatici, oggi viene assicurato dalla scienza agli uomini tutti! Terremo informati i nostri lettori sui futuri risultati di questa straordinaria terapia.»

Ma tutto ciò non valse a impedire che, cinque giorni dopo, mamma Lefrançois arrivasse allarmatissima gridando:

«Aiuto, muore… Mi sento impazzire!»

Charles si precipitò verso il Leon d’Oro e il farmacista, che lo vide attraversare la piazza senza cappello, uscì di corsa dalla farmacia. Giunse anch’egli all’albergo ansimante, rosso in viso, preoccupato, e domandò a tutti quelli che stavano salendo le scale:

«Che cos’ha il nostro interessante strefopodo?»

Lo strefopodo si torceva, in preda a convulsioni atroci, tanto che l’apparecchio in cui gli avevano imprigionato la gamba batteva contro il muro come volesse sfondarlo.

Con grandi precauzioni, per non spostare l’arto dalla giusta posizione, tolsero la cassetta e si presentò allora ai loro occhi uno spettacolo spaventoso. La forma del piede scompariva in un gonfiore tale da dar l’impressione che la pelle sarebbe scoppiata da un momento all’altro e quasi tutta la gamba era coperta da ecchimosi provocate dal famoso apparecchio. Hippolyte si era già lamentato delle sofferenze che gli arrecava, ma non gli avevano dato retta; adesso riconobbero che non aveva poi tutti i torti e lo lasciarono libero per qualche ora. Ma non appena l’edema diminuì un poco, i due sapienti decisero di applicare di nuovo il meccanismo alla gamba malata e lo strinsero di più per far sì che le cose procedessero con maggiore celerità. Tre giorni dopo Hippolyte non poteva più resistere, e, ancora una volta, furono costretti a liberarlo rimanendo sbigottiti dal risultato ottenuto. Una tumefazione livida si stendeva sulla gamba, e, qua e là, v’erano flitteni dalle quali trasudava un liquido nero. La cosa stava prendendo una brutta piega. Hippolyte cominciava a essere inquieto e la signora Lefrançois pensò di trasferirlo nella saletta vicino alla cucina, perché almeno avesse modo di distrarsi un poco.

Ma l’esattore, che in quel locale ci pranzava tutti i giorni, si lamentò con disgusto di una tale vicinanza. Allora Hippolyte fu trasportato nella sala del biliardo.

E rimase là, gemendo sotto l’ingombrante copertura, pallido, con la barba lunga, gli occhi infossati, girando ogni tanto il capo sudato sul guanciale sudicio, ove si posavano le mosche. La signora Bovary veniva a trovarlo. Gli portava pannolini per i suoi cataplasmi, lo consolava, gli faceva coraggio. Ma, del resto, la compagnia non gli mancava, soprattutto nei giorni di mercato, quando i contadini, intorno a lui, colpivano le palle da biliardo, si davano da fare con le stecche, fumavano, bevevano, cantavano, sbraitavano.

«Come va?» gli domandavano, battendogli una mano sulla spalla «Non mi sembri mica troppo in gamba! Ma la colpa è tua, dovresti fare questo, dovresti fare quest’altro.»

E gli raccontavano storie di gente che era stata guarita con rimedi ben diversi da quelli usati per lui; poi, per consolarlo, aggiungevano:

«Il fatto è che tu ci fai troppo caso! Su, alzati! Ti tratti come un re! Non ci badare, vecchio burlone, ma puzzi».

La cancrena infatti saliva sempre più. Bovary si stava ammalando, tanto se ne crucciava. Andava a vederlo a tutte le ore, tutti i momenti. Hippolyte lo guardava con gli occhi pieni di spavento e balbettava singhiozzando:

«Quando guarirò?… Ah! Mi salvi!… Come sono disgraziato! Come sono disgraziato!»

E il medico se ne andava ogni volta raccomandandogli la dieta.

«Non dargli retta, ragazzo mio!» diceva la signora Lefrançois «Ti hanno già abbastanza martirizzato! Finirai per indebolirti ancora di più. Tieni, mangia!»

E gli metteva davanti una tazza di buon brodo, qualche fetta d’arrosto, un pezzo di lardo, e ogni tanto anche un bicchierino d’acquavite che Hippolyte non aveva il coraggio di bere.

L’abate Bournisien, essendo venuto a sapere che il paziente peggiorava, chiese di vederlo. Incominciò a compiangerlo per le sue sofferenze, ma gli disse che avrebbe dovuto gioirne, dal momento che era la volontà del Signore, e approfittare subito dell’occasione per riconciliarsi con il Cielo.

«Perché» diceva il sacerdote in tono paterno «finora tu hai trascurato un po’ i tuoi doveri; ti si vede di rado a messa e quanti anni sono che non ti accosti alla Santa Comunione? Capisco, le tue occupazioni, il turbine del mondo possono averti distratto dalle cure per la salute dell’anima. Ma adesso è il momento di pensarci. Non devi disperare, però; ho conosciuto grandi peccatori che, vicini a comparire davanti a Dio (non sei ancora a questo punto, lo so), hanno implorato la sua misericordia e sono certo morti nelle migliori disposizioni. Così, per precauzione, chi ti impedisce di recitare al mattino e alla sera un’Ave Maria o un Padre Nostro? Sì, fallo per me, per farmi un piacere. Cosa ti costa? Me lo prometti?»

Il povero diavolo promise. Il curato tornò tutti i giorni. Chiacchierava con l’albergatrice, raccontava aneddoti inframmezzati addirittura a barzellette, a giochi di parole che Hippolyte non capiva. Poi, quando capitava il destro, assumendo l’atteggiamento adatto, ricominciava a parlare di religione.

Il suo zelo fu premiato, perché ben presto lo strefopodo manifestò il desiderio di recarsi in pellegrinaggio al Buon Soccorso, se fosse guarito: e don Bournisien rispose di non trovare nulla a ridire a questo proposito; due precauzioni erano sempre meglio di una. E non c’era niente da perdere.

Il farmacista si indignò contro quelle che chiamava le manovre dei preti; nuocevano alla convalescenza di Hippolyte, affermava; e ripeteva alla signora Lefrançois:

«Lo lasci stare, lo lasci stare! Lo deprime con il suo misticismo».

Ma la brava donna non gli dava più retta. Era lui la causa di tutto. Per spirito di contraddizione, attaccò addirittura alla testiera del letto del malato una piletta piena d’acqua santa e un ramoscello di bosso.

La religione, però, non sembrava in grado di aiutare il paziente più della chirurgia, e l’inarrestabile cancrena continuava a salire dal piede verso il ventre. Avevano un bel cambiare le pozioni, sostituire un tipo di cataplasma con un altro. Tutti i giorni i muscoli si scollavano di più e infine Charles rispose con un cenno affermativo del capo quando la signora Lefrançois gli domandò se, visto il caso disperato, non sarebbe stato bene far venire il signor Canivet, di Neufchâtel, che era una vera celebrità.

Questi era dottore in medicina, sui cinquant’anni, godeva d’una buona posizione ed era molto sicuro di sé, non si fece alcun riguardo e si mise a ridere con aria di superiorità quando vide quella gamba in cancrena fino al ginocchio. Poi, dopo aver dichiarato senza mezzi termini che bisognava amputare, andò dal farmacista a sfogarsi contro gli asini che avevano potuto ridurre uno sventurato in uno stato simile. Scuotendo il signor Homais per un bottone della giacca, sbraitava nella farmacia: «Queste sono le invenzioni di Parigi! Ecco le belle idee di quei signori della capitale! È come per lo strabismo, il cloroformio e la litotripsia, un mucchio di mostruosità che il governo dovrebbe impedire! Vogliono fare i furbi e suggeriscono rimedi senza preoccuparsi delle conseguenze. Noi non siamo tanto bravi, noialtri, non siamo sapienti, non siamo arrivisti o damerini. Siamo professionisti, ci preoccupiamo di guarire la gente, e non ci sogneremmo mai di operare uno che sta a meraviglia! Raddrizzare i piedi storti! Sarebbe come pretendere di raddrizzare un gobbo!»

Homais soffriva, ascoltando questi discorsi, e dissimulava il proprio disagio sotto un sorriso da cortigiano, dovendo mantenersi in buoni rapporti con il signor Canivet, le cui ricette arrivavano talvolta fino a Yonville; così, non prese le parti di Bovary, né osò fare alcuna osservazione e, venendo meno ai propri principi, sacrificò la dignità agli interessi più seri della bottega.

L’amputazione della gamba a opera del dottor Canivet fu per Yonville un avvenimento memorabile. Tutti gli abitanti del paese si erano alzati prima del solito, e la Grande Strada, benché piena di gente, aveva un aspetto lugubre come se dovesse aver luogo un’esecuzione capitale. Dal droghiere si discuteva la malattia di Hippolyte, le botteghe non vendevano nulla, e la signora Tuvache, la moglie del sindaco, non si moveva dalla finestra per la smania di vedere arrivare il chirurgo.

Il signor Canivet giunse sul calesse che guidava lui stesso; la molla, posta dalla parte destra, aveva ceduto sotto il peso di quell’uomo corpulento, tanto che il veicolo era un po’ sbilanciato quando viaggiava. Accanto al dottore, sul sedile, si trovava una grossa scatola ricoperta di pelle di pecora rossa le cui tre borchie di chiusura in ottone erano perfettamente lucidate.

Dopo essere entrato come un turbine sotto il portico del Leon d’Oro, il dottore ordinò a gran voce di staccare il cavallo, poi andò nella scuderia per vedere se l’avessero governato e nutrito a dovere. Arrivando dai malati, si occupava sempre innanzitutto della giumenta e del calesse. A questo proposito dicevano di lui:

«Ah! Il signor Canivet è un originale!» e lo stimavano ancora di più per quell’assoluta imperturbabilità. Potevano crepare tutti, fino all’ultimo uomo, ma lui non avrebbe cambiato di una virgola la più insignificante delle sue abitudini.

Homais si presentò.

«Conto su di lei» disse il dottore. «Siamo pronti? Avanti!»

Ma il farmacista, arrossendo, confessò di essere troppo sensibile per assistere a una simile operazione.

«Quando si è semplici spettatori,» disse «è facile, lei lo sa bene, che l’immaginazione resti colpita. E poi, ho un sistema nervoso talmente…»

«Ah!» lo interruppe Canivet «mi sembra che lei sia portato all’apoplessia… E d’altronde, questo non mi stupisce, perché voi, signori farmacisti, ve ne state sempre chiusi nel vostro bugigattolo e questo finisce per guastarvi la salute. Guardi me, piuttosto! Mi alzo tutti i giorni alle quattro, mi faccio la barba con l’acqua fredda (non ho mai freddo), non porto maglie di lana e non mi piglio raffreddori, la carcassa è buona. Mangio in una maniera o nell’altra, con filosofia, come capita. Per questo non sono tanto delicato e mi è indifferente tagliare a pezzi un cristiano o il primo pollo che capita. A questo punto mi dirà: l’abitudine… l’abitudine!…»

Poi, senza nessun riguardo per Hippolyte, che sudava di terrore fra le lenzuola, questi signori diedero inizio a una conversazione durante la quale il farmacista paragonò il sangue freddo di un chirurgo con quello di un generale: e questo accostamento piacque a Canivet che si dilungò in chiacchiere sulle necessità della sua professione. La considerava una missione, per quanto gli ufficiali sanitari la disonorassero. Poi, tornando al paziente, esaminò le bende, le stesse che Homais aveva portato quando si era trattato di operare il piede zoppo, e domandò se vi fosse qualcuno in grado di tenere ferma la gamba. Andarono a chiamare Lestiboudois e il signor Canivet, dopo essersi rimboccato le maniche, entrò nella sala del biliardo, mentre lo speziale, insieme con Artémise e l’albergatrice entrambe pallide come i grembiali che avevano indosso, origliavano alla porta.

Bovary, nel frattempo, non aveva osato uscire di casa. Stava seduto in salotto, vicino al caminetto spento, la testa bassa, le mani giunte e gli occhi fissi. Che disgraziata combinazione, che sfortunato contrattempo! In quanto a lui, aveva adottato tutte le precauzioni possibili. Era stata una fatalità. Ma questo non aveva importanza. Se Hippolyte poi fosse morto, sarebbe stato lui ad averlo assassinato. E inoltre, che cosa avrebbe potuto rispondere quando i suoi clienti lo avessero interrogato? Aveva forse commesso qualche errore? Per quanto ci pensasse gli pareva proprio di no. Del resto, anche i più famosi chirurghi a volte sbagliano. Già, ma proprio questo non avrebbero mai creduto! Avrebbero riso, piuttosto, ci avrebbero fatto intorno un gran chiasso! Tutta questa storia sarebbe arrivata fino a Forges, fino a Neufchâtel, fino a Rouen, dappertutto! I colleghi avrebbero potuto attaccarlo, ne sarebbe nata una polemica, sarebbe stato costretto a rispondere sui giornali. Hippolyte stesso avrebbe potuto fargli causa. Già si vedeva disonorato, rovinato, perduto! E la sua immaginazione, assalita da una quantità di ipotesi, veniva sballottata fra esse come una botte vuota trascinata in mare e in balia delle onde.

Emma, di fronte a lui, lo guardava; non condivideva la sua umiliazione, altri sentimenti la dominavano: si domandava come avesse potuto pensare che un uomo simile valesse qualcosa, quando già tante volte aveva avuto modo di rendersi conto della sua assoluta mediocrità.

Charles adesso andava su e giù per la stanza, facendo scrocchiare le scarpe sul pavimento di legno.

«Siediti» disse Emma. «Mi dai ai nervi.»

Charles sedette.

Ma come aveva potuto (lei che era così intelligente) ingannarsi ancora una volta? E poi, per quale deplorevole mania distruggeva così la propria esistenza con continui sacrifici? Rammentò tutte le sue aspirazioni a una vita lussuosa, le frustrazioni dell’anima sua, le meschinità del matrimonio, della vita di tutti i giorni, i sogni caduti nel fango come rondini ferite, i desideri, le rinunce, tutto quello che avrebbe potuto avere! E per che cosa? Per che cosa?

Nel silenzio in cui era immerso il villaggio, un grido straziante attraversò l’aria. Bovary divenne pallido come un morto. Emma aggrottò le sopracciglia nervosamente e tornò a immergersi nei propri pensieri. Lo aveva fatto per lui, per questo individuo, per quest’uomo che non capiva niente, privo di ogni sensibilità. Rimaneva lì, infatti, tranquillissimo, senza rendersi conto di aver coinvolto anche lei nel ridicolo di cui si era coperto. Lei aveva fatto di tutto per amarlo, e si era pentita, aveva pianto, per avere ceduto a un altro.

«Forse era un piede valgo» esclamò d’improvviso Bovary, immerso nei propri pensieri.

Allo choc imprevedibile di questa frase caduta sulle sue riflessioni come una palla di piombo su un piatto d’argento, Emma, trasalendo, alzò il capo, senza rendersi conto di quel che aveva voluto dire il marito; si guardarono in silenzio, quasi sbalorditi di vedersi, tanto le rispettive meditazioni li avevano portati lontano l’uno dall’altra. Charles la osservava con lo sguardo torbido di un ubriaco, ascoltando, immobile, le ultime grida dell’amputato che si susseguivano con modulazioni strascicate rotte da urla acute, simili al lamento lontano di una bestia sgozzata. Emma si mordeva le labbra livide e rigirava fra le dita un frammento di madrepora che aveva staccato, fissando su Charles sguardi infuocati, come frecce di fuoco pronte a trafiggerlo. Tutto di lui adesso la irritava, il viso, l’abito, quello che non diceva, il suo atteggiamento, la sua esistenza. Si pentiva, come di un delitto, della fedeltà di un tempo, e ciò ch’era rimasto della sua virtù crollava ormai sotto i colpi furiosi dell’orgoglio. Gioiva di tutte le perfide ironie che l’adulterio suggerisce. I ricordi dell’amante tornavano a lei con suggestioni vertiginose che sommergevano la sua anima spingendola verso di lui con nuovo entusiasmo; e Charles gli appariva così distaccato ormai dalla sua vita, lontano per sempre, fuori della realtà e addirittura annientato come se stesse per morire, come se stesse agonizzando sotto i suoi stessi occhi.

Si sentì un rumore di passi sul marciapiede. Charles guardò e scorse, attraverso le persiane abbassate, vicino al mercato, in pieno sole, il dottor Canivet che si asciugava la fronte con il fazzoletto. Dietro di lui veniva Homais; portava una grande scatola rossa ed entrambi si dirigevano verso la farmacia.

Charles, preso da un’improvvisa tenerezza e dallo scoraggiamento, si voltò allora verso la moglie dicendole:

«Dammi un bacio, cara!»

«Lasciami stare!» fece lei rossa di collera.

«Che cos’hai? Ma che cos’hai?» egli ripeté stupefatto «Calmati, cerca di riprenderti! Sai che ti amo!… vieni!»

«Basta!» gridò lei esasperata.

E, uscendo di corsa dal salotto, Emma sbatté la porta tanto forte che il barometro cadde dal muro e si infranse sul pavimento.

Charles si lasciò cadere nella poltrona, stravolto, domandandosi che cosa potesse avere sua moglie, paventando una malattia nervosa, piangendo; percepiva vagamente intorno a sé qualcosa di funesto e di incomprensibile.

La sera, quando Rodolphe giunse in giardino, trovò l’amante che l’aspettava in fondo alla scala, sul primo gradino. Si strinsero fra le braccia con passione e ogni risentimento si sciolse come neve al calore dei loro baci.

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