Nov 032018
 

Ebbero infatti inizio queste famose Assemblee. Fin dal mattino del giorno di quel solenne avvenimento, tutti gli abitanti del luogo si fecero sulla porta di casa per occuparsi dei preparativi: la facciata del municipio era stata decorata con ghirlande d’edera, in un prato avevano montato una tenda per il banchetto e in mezzo alla piazza, davanti alla chiesa, una specie di bombarda avrebbe sottolineato l’arrivo del signor prefetto e i nomi degli agricoltori premiati. La guardia nazionale di Buchy (non ne esisteva un distaccamento a Yonville) si era aggiunta ai pompieri, il cui comandante era Binet. Quest’ultimo portava quel giorno un colletto ancora più alto del solito, e, stretto nell’uniforme, teneva il busto tanto rigido e immobile da dare l’impressione che tutta la vitalità della sua persona fosse discesa nelle gambe, le quali si alzavano in cadenza in un’andatura marziale e con un unico movimento. Sembrava che esistesse una sorta di rivalità fra l’esattore e il colonnello; desiderosi entrambi di mostrare la propria abilità facevano manovrare gli uomini, ciascuno dalla propria parte. Si vedevano passare alternativamente le spalline rosse e le cravatte nere. E tutto ciò continuava senza interruzione. Non s’era mai visto un simile sfoggio di solennità. Molti cittadini, il giorno prima, avevano lavato le proprie case, dalle finestre socchiuse pendevano drappi tricolori, tutte le osterie erano gremite e, dato il bel tempo, le cuffie inamidate sembravano più bianche della neve, le croci d’oro scintillavano in pieno sole, e gli scialli variopinti punteggiavano e screziavano la scura monotonia di quella distesa di finanziere e di camiciotti da lavoro blu. Le fattoresse dei dintorni, scendendo da cavallo, toglievano la grossa spilla mediante la quale tenevano la gonna stretta e rimboccata intorno al corpo per timore che si inzaccherasse, mentre i mariti, per salvaguardare i propri cappelli, li coprivano invece con un fazzoletto da tasca, serrandone un angolo fra i denti. La folla, seguendo la strada maestra, arrivava dalle due estremità del villaggio. Si riversava dai vicoli, dai viali, dalle case, e di tanto in tanto si sentivano ricadere i picchiotti delle porte dietro le signore in guanti di filo che uscivano per andare a vedere la festa. La gente ammirava soprattutto due alti cunei coperti di lampioncini che fiancheggiavano la tribuna ove avrebbero preso posto le autorità; contro le quattro colonne del municipio si trovavano altrettante specie di aste, ciascuna con un piccolo stendardo di tela verdastra in cima, arricchito da scritte dorate. Su uno di essi si leggeva: Al Commercio; su un altro: All’Agricoltura; sul terzo: All’Industria e sull’ultimo: Alle Belle Arti.

Ma il giubilo che rallegrava ogni volto, sembrava rattristare la signora Lefrançois, l’albergatrice. In piedi sulla soglia della cucina, ella mormorava fra sé e sé: “Che bestialità! Che bestialità quella loro baracca di tela! Credono forse che il prefetto sarà soddisfatto di mangiare laggiù, sotto una tenda, come un saltimbanco? E chiamano questo pasticcio fare il bene del paese! Non valeva proprio la pena di andare a cercare un taverniere a Neufchâtel! E per chi, poi? Per dei bovari, per dei villani senza scarpe!…”

Passò il farmacista. Indossava una giacca nera e pantaloni cachi, portava scarpe di castoro e, cosa straordinaria, un cappello a cupola bassa.

«Servo suo!» disse «Mi scusi, ho premura.»

E siccome la grossa vedova gli domandava dove andasse, rispose: «Le sembrerà ridicolo, vero? Io che resto chiuso nel mio laboratorio come il topo di quel tale nel formaggio».

«Quale formaggio?» fece l’albergatrice.

«No, niente! Non ci faccia caso!» rispose Homais «Volevo dire solo, signora Lefrançois, che me ne sto di solito rintanato per conto mio. Oggi però, data la circostanza, bisogna proprio che…»

«Ah! Va anche lei laggiù?» disse la signora Lefrançois con aria sprezzante.

«Certo che ci vado» replicò lo speziale stupito. «Non faccio forse parte della commissione consultiva?»

Mamma Lefrançois lo squadrò per qualche minuto e finì per rispondergli con un sorriso:

«Ma allora è un’altra cosa! E da quando in qua si occupa di coltivazioni? Se ne intende, dunque?»

«Ma sicuro, me ne intendo perché sono farmacista, vale a dire chimico! E poiché la chimica, signora Lefrançois, studia le azioni reciproche e molecolari di tutti i corpi esistenti in natura, ne consegue che l’agricoltura si trova a essere compresa nel suo campo di interessi. Infatti la composizione dei concimi, la fermentazione dei liquidi, l’analisi dei gas e le influenze dei miasmi, che cosa è mai tutto questo, io le domando, se non chimica pura e semplice?»

L’albergatrice non disse nulla. Homais continuò:

«Per essere agronomo, crede forse sia indispensabile aver lavorato personalmente la terra o aver allevato polli? È più necessario conoscere la composizione delle sostanze che si maneggiano, i giacimenti geologici, l’azione dell’atmosfera, la qualità del terreno, dei minerali, delle acque, la densità dei diversi corpi e la loro capillarità. Che so io? Bisogna avere una profonda conoscenza di tutti i principi igienici per dirigere e giudicare la costruzione degli edifici, il governo degli animali l’alimentazione dei domestici. E non basta, signora Lefrançois, bisogna conoscere la botanica per distinguere le piante una dall’altra. Capisce? Quelle medicinali da quelle velenose, le improduttive dalle utili, se è buona cosa sradicarle da un posto per trapiantarle in un altro, distruggere le une e diffondere le altre. In breve, bisogna tenersi al corrente dei progressi della scienza leggendo libri e pubblicazioni, darsi d’attorno senza respiro per conoscere i miglioramenti e indicarli agli altri…»

L’albergatrice non distoglieva un momento gli occhi dalla porta del Caffè Francese e il farmacista continuò:

«Volesse Iddio che i nostri agricoltori fossero dei chimici o almeno che ascoltassero un po’ di più i consigli della scienza! Così, io ho scritto ultimamente un sostanzioso opuscolo, un prontuario di oltre settantadue pagine, intitolato: La lavorazione e gli effetti del sidro, con nuove osservazioni relative all’argomento e l’ho mandato alla Società d’Agronomia di Rouen; questo mi ha procurato l’onore di essere accolto fra i suoi membri, sezione agricoltura, classe frutticultura. Ebbene, se la mia opera fosse stata divulgata…»

Ma a questo punto lo speziale si interruppe, tanto la signora Lefrançois sembrava preoccupata.

«Ma guardi un po’!» disse l’albergatrice «Non ci capisco più niente! Una bettola simile!»

E, alzando le spalle fino a stirare sul davanti la maglia del corsetto, indicava con ambe le mani il locale del suo antagonista, dal quale usciva in quel momento un suono di canti.

«Del resto non ne avrà per molto,» soggiunse «fra meno di otto giorni tutto sarà finito.»

Homais indietreggiò per lo stupore. La signora Lefrançois discese tre gradini e, parlandogli all’orecchio, mormorò:

«Ma come? Ancora non lo sa? Questa settimana gli faranno il sequestro. È stato Lheureux a farlo fallire. Lo ha assassinato con le cambiali».

L’ostessa cominciò allora a raccontargli tutta la storia; era venuta a saperla da Teodoro, il domestico del signor Guillaumin, e, per quanto detestasse Tellier, non poteva fare a meno di biasimare Lheureux: era un imbroglione e un arrivista.

«Ah, guardi!» disse «Eccolo là, sotto la tettoia del mercato; sta salutando la signora Bovary, che ha un cappellino verde e dà il braccio al signor Boulanger.»

«La signora Bovary!» fece Homais «Devo correre a porgerle i miei omaggi. Forse le farebbe piacere avere un posto nel recinto sotto il colonnato.»

E, senza più ascoltare mamma Lefrançois che lo chiamava per finirgli di raccontare il fatto, il farmacista si allontanò a passi rapidi, con il sorriso sulle labbra e i garretti tesi, distribuendo a destra e a manca grandi saluti e occupando molto posto con le ampie falde dell’abito nero che sventolavano al vento dietro di lui.

Rodolphe, avendolo scorto da lontano, si era messo a camminare in fretta, ma alla signora Bovary mancava il respiro ed egli rallentò dicendole senza perifrasi:

«Volevo evitare quell’uomo; sa, lo speziale».

Emma gli diede di gomito.

“Che significa?” si domandò lui.

E la guardava con la coda dell’occhio, continuando a camminare. Il profilo di lei era così placidamente inespressivo da non lasciar indovinare nulla. Si stagliava in piena luce, circondato dall’ala del cappellino guarnito di nastri chiari, simili a foglie di giunco. Gli occhi, dalle lunghe ciglia ricurve, guardavano dinanzi a sé, e, per quanto li tenesse bene aperti, davano l’impressione di perdere un poco del loro risalto a causa del sangue che le arrossava le gote pulsando dolcemente sotto la pelle sottile. Una riga rosea le segnava il setto nasale. Teneva il capo reclinato su una spalla, e, fra le labbra socchiuse, si vedeva la punta madreperlacea dei denti candidi.

“Si burla di me?” pensava Rodolphe.

Il gesto di Emma non aveva voluto essere altro se non un avvertimento, poiché accanto a loro c’era il signor Lheureux che di tanto in tanto si voltava, parlando, nella loro direzione, quasi volesse attaccare discorso.

«Abbiamo una giornata meravigliosa. Tutti sono usciti! Il vento soffia da est.»

E la signora Bovary, come del resto Rodolphe, non rispondeva nulla, mentre lui, a ogni più piccolo cenno, si avvicinava un poco, dicendo: «Come?» e portando la mano al cappello.

Quando furono dinanzi alla casa del maniscalco, invece di seguire la strada fino alla barriera, Rodolphe voltò bruscamente in un sentiero, trascinando la signora Bovary e gridando:

«Buonasera, signor Lheureux! Arrivederci!»

«Che modo di congedarlo!» disse Emma ridendo.

«Perché consentire agli altri di essere invadenti?» ribatté lui «E proprio oggi, poi, che ho il piacere di stare con lei…»

Emma arrossì Rodolphe non terminò la frase e si mise a parlare del bel tempo e del piacere di camminare sull’erba. Qua e là erano spuntate le margherite.

«Guardi quante graziose pratoline,» disse «sufficienti a dare una risposta agli interrogativi di tutti gli innamorati del paese.»

Soggiunse:

«Se ne cogliessi io, che cosa penserebbe?»

«È forse innamorato?» domandò Emma e fu presa da una tossettina.

«Eh! Chi lo sa?» rispose Rodolphe.

Il prato cominciava ad affollarsi e le massaie urtavano i vicini con i grandi parapioggia, i panieri e i ragazzini. Spesso bisognava spostarsi davanti a lunghe file di contadine, di servette dalle calze azzurre, con scarpe senza tacco, con anelli d’argento; sapevano di latte, quando si passava loro accanto. Camminavano tenendosi per mano e occupavano così tutta la larghezza del prato, dal filare dei pioppi fino alla tenda del banchetto. In quel momento venivano giudicati i capi di bestiame e i contadini, uno dopo l’altro, entravano in una specie di pista delimitata da una lunga corda sorretta da paletti.

Le bestie erano là dentro, con il muso verso la corda, allineate confusamente in gruppi disuguali. I porci, mezzo addormentati, affondavano il grugno nella terra. I vitelli muggivano, le pecore belavano; le mucche, con le gambe piegate, appoggiavano sull’erba il ventre, ruminando adagio e chiudendo le palpebre grevi, infastidite dai mosconi che ronzavano loro attorno. Alcuni carrettieri a braccia nude trattenevano per la cavezza gli stalloni impennati che emettevano sonori nitriti in direzione delle giumente. Queste ultime rimanevano impassibili, allungando la testa e lasciando ricadere la criniera, mentre i puledri si riposavano all’ombra delle madri e di tanto in tanto poppavano; sulla lunga ondulazione delle groppe robuste si levava al vento qua e là, simile alla cresta di un’onda, una criniera bianca, oppure spuntavano corna appuntite o teste di uomini che correvano… Più in là, al di fuori del recinto, cento passi lontano, v’era un toro, con la museruola e un grande anello di ferro alle narici, immobile come se fosse di bronzo. Un ragazzo vestito di cenci lo teneva con una corda.

Intanto alcuni signori venivano avanti fra le due file, a passo lento, esaminando ogni animale e consultandosi a bassa voce. Uno di essi, quello che sembrava essere il più autorevole, camminando, prendeva qualche appunto su un taccuino. Era il presidente della giuria, il signor Derozerays de la Panville. Non appena riconobbe Rodolphe, venne in fretta verso di lui e gli disse, sorridendo amabilmente:

«Ma come, signor Boulanger, ci abbandona?»

Rodolphe protestò che stava proprio per raggiungerli, ma quando il presidente si fu allontanato:

«No davvero,» disse «non ci andrò affatto. Preferisco di gran lunga, alla sua, la compagnia di una signora come lei». E, facendosi beffe di tutte le assemblee, Rodolphe, per potersi aggirare con tutta comodità, mostrò al gendarme la tessera azzurra e si fermò talvolta davanti a qualche bell’esemplare che la signora Bovary non mostrava in alcun modo di ammirare. Egli se ne accorse e allora cominciò a dire spiritosaggini sulle signore di Yonville, a proposito del loro abbigliamento, approfittandone per scusare la trascuratezza del proprio. Infatti il suo modo di vestire manifestava quell’incoerente accostamento di cose comuni e ricercate che di solito fa credere al volgo, esasperandolo e seducendolo, di intravedervi i segni dell’esistenza eccentrica e del disordine sentimentale di un individuo soggetto alla tirannia dell’arte, e al contempo sprezzante delle convenzioni sociali. Infatti la camicia di batista dai polsini plissettati si gonfiava secondo il capriccio del vento fuori dalla scollatura del panciotto di traliccio grigio, e i pantaloni a righe larghe scoprivano alle caviglie gli stivaletti di tela cachi con i rinforzi di pelle verniciata, così lucidi che l’erba vi si specchiava. Rodolphe calpestava con essi lo sterco di cavallo, una mano in tasca e il cappello di paglia di sghimbescio.

«Del resto, quando si vive in campagna…» soggiunse.

«Non ne vale la pena» disse Emma.

«È vero!» approvò lui «E pensare che non una di queste brave persone capisce qualcosa della linea di un vestito!»

Il discorso scivolò quindi sulla mediocrità della provincia, delle esistenze che riusciva a soffocare, delle illusioni che vi morivano.

«Tutto ciò» disse Rodolphe «mi induce a lasciarmi andare a una malinconia tremenda…»

«Lei?» disse Emma stupita «Ma se io la credevo così felice!»

«Ah! Sì, in apparenza, perché quando mi trovo in mezzo alla gente so mettermi sul viso una maschera beffarda, e d’altronde, più d’una volta, davanti a un cimitero, al chiaro di luna, mi sono domandato se non farei meglio a raggiungere quelli che già dormono il sonno eterno…»

«Oh!» disse Emma «E i suoi amici? Non ci pensa?»

«I miei amici? E quali? Ne ho, forse? Ce n’è qualcuno che si preoccupi di me?»

E accompagnò le ultime parole con una sorta di sibilo delle labbra.

A questo punto furono costretti a dividersi a causa di una catasta di sedie trasportate da un uomo. Ne era così stracarico che di lui rimanevano visibili soltanto le punte degli zoccoli e l’estremità delle braccia, distese. Si trattava di Lestiboudois, il becchino, che trasportava in mezzo alla folla le sedie della chiesa. Pieno di iniziativa per quanto concerneva i suoi interessi, aveva scoperto questo sistema per trarre profitto dalle Assemblee e la sua idea aveva avuto tanto successo che non sapeva più come fare per accontentare tutti. Infatti i contadini accaldati si contendevano queste sedie, la cui paglia sapeva d’incenso, e si appoggiavano agli alti schienali, imbrattati dalla cera delle candele, con una certa venerazione.

La signora Bovary riprese il braccio di Rodolphe, ed egli continuò, come parlando a se stesso:

«Sì, ho sentito la mancanza di moltissime cose nella vita! Sono sempre stato solo! Ah! Avessi almeno uno scopo! Avessi incontrato un affetto, avessi avuto vicino qualcuno… Oh! Come avrei volentieri speso tutte le energie di cui sono capace, come avrei saputo sormontare ogni ostacolo, come sarei riuscito ad abbattere ogni barriera che impedisse il mio cammino!»

«Eppure» interloquì Emma «non mi sembra che lei sia poi tanto da commiserare.»

«Ah! Dice?» fece Rodolphe.

«Perché, in fondo,» ella riprese «è libero.»

Esitò:

«Ricco».

«Non si burli di me» rispose Rodolphe.

Emma lo assicurò che non si stava affatto burlando di lui e in quel momento rimbombò un colpo di cannone; subito tutti si precipitarono in disordine verso il villaggio.

Ma si trattava di un falso allarme. Il prefetto non era arrivato, e i membri della giuria si trovarono nel grave imbarazzo di non sapere se dare inizio alla seduta o aspettare ancora. Finalmente, in fondo alla piazza comparve una grossa carrozza da nolo, tirata da due cavalli magri, frustati con la massima energia da un cocchiere con in capo un cappello bianco. Binet ebbe soltanto il tempo di gridare: «Allarme!», subito imitato dal colonnello. Tutti corsero verso i fucili affastellati, tutti si precipitarono di qua e di là. Qualcuno si dimenticò perfino di abbottonarsi il colletto. Ma l’equipaggio prefettizio parve indovinare lo scompiglio causato con il suo arrivo e la coppia di rozze, dondolando fra le catenelle, giunse al piccolo trotto davanti al colonnato del municipio, proprio nel momento in cui la guardia nazionale e i pompieri si allineavano al rullo dei tamburi, segnando il passo.

«Muovete le braccia!» gridò Binet.

«Alt!» gridò il colonnello «Per fila sinist!»

E, dopo un presentat’arm nel quale il tintinnio delle fascette dei fucili, moltiplicandosi, risonò con un frastuono simile a quello prodotto da un paiolo di rame che rotoli giù per una scala, tutte le armi ricaddero.

Si vide allora scendere dalla carrozza un signore vestito con una giacca corta ricamata d’argento, calvo sulla fronte e con una corona di capelli sulla nuca, dal colorito pallido e dalla più benigna apparenza. Gli occhi, molto grandi e dalle palpebre pesanti, rimasero chiusi a metà, per osservare la folla, mentre alzava il naso appuntito e atteggiava a un sorriso la bocca dalle labbra rientranti. Riconobbe subito il sindaco per via della fascia e gli comunicò che il signor prefetto non era potuto venire e aveva mandato in sua vece lui, un consigliere di prefettura. Aggiunse poi qualche scusa. Tuvache gli rispose con frasi ossequiose; l’altro si dichiarò confuso e i due rimasero così faccia a faccia, con le fronti che quasi si toccavano, in mezzo ai membri della giuria, del consiglio municipale, ai notabili, alla guardia nazionale e alla folla. Il signor consigliere, appoggiandosi al petto un piccolo tricorno nero, reiterò i suoi saluti mentre Tuvache, curvo come un arco, sorrideva a sua volta, balbettava, cercava frasi adatte, protestava la sua devozione alla monarchia, e ringraziava dell’onore che veniva fatto a Yonville.

Hippolyte il mozzo di stalla dell’albergo, venne a prendere per la briglia i cavalli del cocchiere e, zoppicando sul piede sciancato, li condusse sotto il portico del Leon d’Oro, ove si radunarono molti paesani per contemplare la carrozza. Il tamburo rullò, il mortaio tuonò e le autorità salirono in fila sulla tribuna per sedersi sulle poltrone di velluto rosso, prestate dalla signora Tuvache.

Tutta quella gente si somigliava. I loro visi flaccidi, leggermente abbronzati dal sole, avevano il colore del sidro dolce, con i soffici favoriti che sfuggivano dagli alti colletti rigidi sostenuti da cravatte bianche con il nodo ben disteso. Tutti i panciotti erano di velluto, con il collo a scialle; tutti gli orologi portavano, al termine di un lungo nastro, uno di quei sigilli ovali di corniola, tutti appoggiavano entrambe le mani sulle cosce, allargando con cautela il cavallo dei pantaloni di panno apprettato e più lucido del cuoio delle pesanti calzature.

Le signore della buona società stavano dietro di loro, sotto il vestibolo, fra le colonne, mentre il grosso della folla era accalcato di fronte, in piedi o seduto su sedie. Lestiboudois, infatti, aveva portato là tutte quelle che era riuscito a trasportare dal prato e, a ogni minuto, correva ancora in chiesa a prenderne altre, creando un tale ingombro, con il suo commercio, da rendere quasi impossibile per chiunque arrivare alla scaletta della tribuna.

«Secondo me, io trovo» disse il signor Lheureux (avvicinandosi al farmacista, che stava passando per raggiungere il suo posto) «che avrebbero dovuto innalzare là due alberi di navi di tipo veneziano, con qualcosa di severo e di ricco insieme come novità: sarebbe stato un bellissimo colpo d’occhio.»

«Certo,» rispose Homais «ma, cosa vuole, il sindaco ha disposto tutto da solo. Non ha molto buon gusto, questo povero Tuvache, ed è completamente sprovvisto di quella che si chiama sensibilità artistica.»

Nel frattempo, Rodolphe, con la signora Bovary, era salito al primo piano del municipio, nel salone del consiglio, e trovandolo deserto, aveva dichiarato che vi si sarebbero trovati benissimo per godersi lo spettacolo con tutto comodo. Prese tre degli sgabelli situati intorno alla tavola ovale, sotto il busto del re, e, dopo che li ebbe avvicinati a una finestra, sedettero uno vicino all’altra.

Vi fu un gran movimento sulla tribuna, lunghi conciliaboli e sussurri. Infine si alzò il signor consigliere. Nel frattempo si era venuti a sapere che si chiamava Lieuvain e il nome veniva ripetuto da questo a quello fra la folla. Il consigliere, appena ebbe riordinato alcuni fogli, li avvicinò agli occhi per vedere meglio e cominciò:

 

 

«Signori,

mi sia anzitutto concesso (prima di intrattenermi sull’argomento della riunione d’oggi, e il sentimento che voglio esternare sono certo sarà condiviso da tutti voi), mi sia concesso dicevo, di rendere omaggio alla superiore amministrazione, al governo, al re, signori, al nostro sovrano, a questo monarca tanto amato, al quale nessun aspetto o particolare della pubblica prosperità è indifferente, e che regge con una così salda e saggia mano il carro dello Stato in mezzo ai continui pericoli di un mare tempestoso, con la capacità, d’altronde, di far rispettare sia la pace sia la guerra, l’industria, il commercio, l’agricoltura, e le belle arti».

 

 

«Dovrei spostarmi un po’ più indietro» disse Rodolphe.

«Perché?» domandò Emma

Ma in quel momento la voce del consigliere crebbe straordinariamente di intensità, declamando:

 

 

«Non è più il tempo, signori, in cui la discordia civile insanguinava tutte le pubbliche piazze, in cui il possidente, il negoziante, l’operaio stesso, addormentandosi di un sonno tranquillo, tremava al pensiero di poter essere svegliato dall’improvviso suono delle campane a martello che avvertivano della presenza di un incendio, in cui le massime più sovversive minavano apertamente le basi…»

 

 

«Il fatto è che potrebbero vedermi dal basso» continuò Rodolphe «e sarei costretto a passare almeno quindici giorni a scusarmi; inoltre, con la cattiva reputazione di cui godo…»

«Oh! Lei si calunnia» disse Emma

«No, no, è proprio pessima, glielo assicuro.»

 

 

«Ma, signori,» continuò il consigliere «se allontano dalla mia immaginazione queste fosche visioni e volgo lo sguardo sull’attuale situazione della nostra bella patria, che cosa vedo? Ovunque fioriscono i commerci e le arti, ovunque nuove vie di comunicazione, simili ad altrettante arterie vitali nel corpo dello Stato vi stabiliscono rinnovati rapporti; i maggiori centri manifatturieri hanno ripreso la loro attività, la religione, rinsaldata nei suoi principi, sorride a tutti i cuori, i porti sono gremiti, la fiducia rinasce e, alfine, la Francia respira!…»

 

 

«Del resto,» soggiunse Rodolphe «forse, dal punto di vista della pubblica opinione, non hanno nemmeno torto.»

«Come può essere?» domandò Emma.

«Ma si,» disse lui «non sa che esistono anime le quali soffrono senza sosta? A esse sono necessari, alternativamente, il sogno e l’azione, le passioni più pure e i piaceri più travolgenti, e di conseguenza si gettano in ogni sorta di capriccio, di follia.»

Emma lo guardò, allora, come si guarda un viaggiatore che abbia attraversato paesi fantastici e osservò:

«Noi, povere donne, non possiamo permetterci simili distrazioni!»

«Distrazioni ben tristi, poiché in esse non v’è felicità.»

«Ma esiste la felicità in qualcos’altro?»

«Certo, si può incontrarla un giorno, nella vita.»

 

 

«Ed è questo che voi avete compreso» diceva il consigliere. «Voi agricoltori e operai delle campagne, voi pionieri pacifici di un’opera di grande civiltà! Voi, uomini del progresso e della moralità, voi avete compreso, io lo affermo, che gli uragani politici sono davvero più temibili delle perturbazioni atmosferiche…»

 

 

«Un giorno la si incontra,» ripeté Rodolphe «un bel giorno, all’improvviso, e proprio quando ormai si dispera. Allora si schiudono nuovi orizzonti, ed è come se una voce gridasse: “Eccola!” Si sente il bisogno di confidare a questa persona tutta la propria vita, di donarle tutto, di sacrificarle tutto. Non sono necessarie spiegazioni: la si riconosce subito. La si intravede nei propri sogni» (e intanto la guardò). «E finalmente, eccolo il tesoro tanto atteso, davanti a noi, che brilla e risplende. Eppure, ancora non ci si sente sicuri, non si ha il coraggio di credervi, si resta abbagliati, come chi esca dalle tenebre alla luce.»

E Rodolphe sottolineò questa frase con una mimica adeguata. Si passò la mano sul viso, quasi si sentisse stordito, poi la lasciò cadere su quella di Emma, che la ritrasse. Intanto il consigliere continuava a leggere:

 

 

«E chi potrebbe stupirsene, signori? Soltanto chi fosse così cieco, così immerso (non ho paura a dirlo), così immerso nei pregiudizi di un’altra epoca, da misconoscere anche ora lo spirito nuovo delle popolazioni agricole. Infatti, dove trovare un patriottismo più grande di quello che si incontra nelle nostre campagne, una maggior devozione alla causa pubblica, in una parole, una più viva intelligenza? E non alludo all’intelligenza superficiale, vano ornamento di spiriti oziosi, ma all’intelligenza profonda ed equilibrata che mira soprattutto a conseguire scopi utili, contribuendo in tal modo al bene di tutti, al comune progresso e al consolidamento dello Stato, frutto del rispetto della legge e dell’assolvimento del proprio dovere».

 

 

«Ah! Ancora!» disse Rodolphe «Sempre i doveri, sono stufo di questa parola. Sono un branco di vecchi incapaci, in panciotto di flanella, e di bigotte con lo scaldino e la corona del rosario. Continuano a cantarci negli orecchi: “Il dovere! Il dovere!” Eh! Perbacco! Il dovere è capire che cosa è grande, scegliere il bello, non accettare tutte le convenzioni della società, con le ignominie che ci impone»

«Eppure… eppure…» obiettò la signora Bovary.

«Eh, no! Perché inveire contro le passioni? Non sono forse la cosa più bella esistente sulla terra, le sorgenti dell’eroismo, dell’entusiasmo, della poesia, della musica, delle arti, di tutto, in una parola?»

«Ma bisogna pure» disse Emma «rispettare l’opinione della gente e obbedire alla morale.»

«Ah! Il fatto è che ce ne sono due» obiettò Rodolphe. «La minore, quella convenzionale, quella degli uomini, che cambia senza sosta, e sbraita a più non posso, che si muove in basso, terra terra, come questa riunione di imbecilli sotto i suoi occhi. E l’altra, quella eterna, che sta tutto intorno a noi e al di sopra di noi, come il paesaggio che ci circonda e il cielo azzurro che ci illumina.»

Il signor Lieuvain si asciugò la bocca con il fazzoletto e continuò:

 

 

«Sarebbe cosa inutile dimostrare qui l’utilità dell’agricoltura. Infatti, chi provvede ai nostri bisogni? Chi ci fornisce il sostentamento? Non è forse l’agricoltore? L’agricoltore, signori, che, seminando con mano solerte i solchi fecondi dei campi fa nascere il grano, il quale, macinato e ridotto in polvere per mezzo di ingegnosi macchinari, ne esce con il nome di farina, viene trasportato in città e ben presto giunge dal fornaio che lo trasforma in un alimento indispensabile al ricco e al povero. Non è forse l’agricoltore che, per fornirci gli abiti, alleva nei pascoli le greggi numerose? Come potremmo vestirci, invero come potremmo nutrirci, senza l’agricoltura? Ed è forse necessario andare così lontano per trovare degli esempi? Chi non ha mai pensato all’importanza che riveste il modesto animale ornamento dei pollai, che ci dà soffici cuscini per i nostri giacigli, una carne succulenta e le uova? Ma non finirei più se dovessi enumerare uno dopo l’altro i diversi prodotti che la terra ben coltivata, simile a una madre generosa, prodiga ai suoi figli. Qui le vigne, i pometi per il sidro e il ravizzone altrove i foraggi, o il lino, la coltura del quale, in questi ultimi anni, ha avuto uno sviluppo considerevole; e proprio sul lino vorrei richiamare in particolare la vostra attenzione».

Non era affatto necessario richiamarla, perché tutte le bocche della gente rimanevano spalancate, come per bere le sue parole. Tuvache, di fianco a lui, lo ascoltava con gli occhi sgranati; il signor Derozerays, di tanto in tanto, chiudeva dolcemente le palpebre e, più in là, il farmacista, con il figlio Napoleone fra le gambe, teneva una mano a conchiglia sull’orecchio per non perdere neppure una sillaba. Gli altri membri della giuria facevano andare lentamente su e giù il mento sui panciotti, in segno di approvazione. I pompieri, ai piedi della tribuna, si riposavano appoggiati alle baionette e Binet se ne stava immobile con il gomito in fuori e la punta della sciabola in aria. Forse ci sentiva, ma non doveva vedere nulla per colpa della visiera del chepì, che gli arrivava fin sul naso. Il suo luogotenente, il figlio minore del signor Tuvache, aveva esagerato ancora di più scegliendo il proprio copricapo; ne aveva in testa, in precario equilibrio, uno enorme, che lasciava sfuggire un angolo del fazzoletto di tela stampata postovi sotto. Il ragazzo sorrideva, di là sotto, con una dolcezza tutta infantile; il viso di lui, minuto e pallido, rigato da gocce di sudore, aveva un’espressione giubilante, stanca e piena di sonno.

La piazza era piena di gente fino alle case sull’altro lato. Tutte le finestre erano gremite di persone affacciate, altre stavano in piedi sulle porte e Justin, davanti alla vetrina della farmacia, sembrava assorto nella contemplazione di ciò che stava guardando. Per quanto regnasse un relativo silenzio, la voce del signor Lieuvain si perdeva nell’aria. Se ne afferravano brandelli di frasi, interrotti di tanto in tanto dal rumore delle sedie smosse fra la gente; poi, d’improvviso, capitava di sentire alle proprie spalle un lungo muggito, o il belato degli agnelli che si rispondevano dagli angoli delle vie. Infatti, bovari e pastori avevano spinto le proprie bestie fin lì, ed esse, di tanto in tanto, facevano sentire il loro verso, mentre cercavano di catturare con la lingua qualche po’ d’erba che pendeva loro dal muso.

Rodolphe si era avvicinato a Emma e le diceva, in un rapido sussurro:

«Questa congiura dei benpensanti non le ripugna? E fosse un solo sentimento a essere condannato! Ma sono gli istinti più nobili, le più pure simpatie a essere perseguitate, calunniate; e se due povere anime finalmente si incontrano, tutto trama perché non possano unirsi. Eppure esse tenteranno, batteranno le ali, si chiameranno. E non importa se, presto o tardi fra sei mesi o dieci anni, riusciranno a unirsi e ad amarsi perché il destino ha stabilito così e perché sono nate per incontrarsi».

Stava con le braccia incrociate sulle ginocchia e, levando il viso verso Emma, la guardava da vicino fissamente. La signora Bovary vedeva nei suoi occhi pagliuzze dorate intorno alle pupille nere e sentiva il profumo della pomata che gli rendeva lustri i capelli. Si sentì presa dal languore, ricordò il Visconte che le aveva fatto ballare il valzer alla Vaubyessard, la barba di lui, che emanava lo stesso profumo di vaniglia e di limone dei capelli di Rodolphe, e, senza volerlo, socchiuse le palpebre per aspirarlo meglio. Ma il movimento per drizzarsi sulla sedia che si trovò a compiere, le fece scorgere lontano, all’orizzonte, la Rondine, la vecchia diligenza che scendeva lentamente il colle di Leux trascinandosi dietro un lungo pennacchio di polvere. Proprio su questo veicolo giallo Léon era tornato tante volte da lei, e proprio per quella strada laggiù se ne era andato per sempre. Le sembrò di vederselo davanti, affacciato alla finestra, poi tutto si confuse, le nubi passarono, le sembrò di volteggiare ancora nel valzer, sotto le luci dei lampadari, fra le braccia del Visconte, le sembrò che Léon non fosse lontano, che stesse per arrivare, e, nello stesso momento, fu conscia della testa di Rodolphe accanto a lei. La dolcezza di questa sensazione si mescolava con i sogni di un tempo, e questi ultimi, come granelli di sabbia a un colpo di vento, turbinarono nel soffio sottile del profumo che le pervadeva l’animo. Dilatò le narici più volte per aspirare profondamente la fragranza dell’edera disposta attorno ai capitelli. Si tolse i guanti e si asciugò le mani, poi si fece vento al viso con il fazzoletto, ascoltando, attraverso il pulsare delle tempie, il brusio della folla e la voce del consigliere che salmodiava le sue frasi. L’oratore stava dicendo:

 

 

«Continuate! Perseverate! Non ascoltate la suggestione delle abitudini né i consigli troppo azzardati di un empirismo temerario. Adoperatevi per rendere più fertili i terreni, per avere buoni concimi, per il miglioramento delle razze di cavalli, buoi, ovini e suini. Che queste Assemblee siano per voi simili ad arene pacifiche, ove il vincitore tende la mano al vinto e fraternizza con lui, nella speranza di sempre più grandi successi. E voi, venerabili servitori, umili domestici, il cui penoso lavoro non è stato fino a oggi preso in considerazione da alcun governante, venite a ricevere la ricompensa delle vostre silenziose virtù, e convincetevi che ormai lo Stato tiene gli occhi fissi su di voi, che vi incoraggia, vi protegge, renderà giustizia alle vostre rivendicazioni e alleggerirà, per quanto gli è possibile, il fardello dei vostri penosi sacrifici».

 

 

Il signor Lieuvain, a questo punto, si rimise a sedere. Si alzò allora il signor Derozerays e cominciò un altro discorso. Non fu, forse, fiorito come quello del consigliere; ma si fece apprezzare per le argomentazioni più positive, per una competenza più specializzata e per considerazioni di maggior rilievo. L’elogio al governo fu per conseguenza più breve e ne risultarono avvantaggiate l’agricoltura e la religione. Furono presi in esame i rapporti fra l’una e l’altra, e il loro costante contributo al progresso della civiltà. Rodolphe e la signora Bovary parlavano di sogni presentimenti, magnetismo Risalendo alle origini della società, l’oratore descriveva le epoche primitive in cui l’uomo si nutriva di ghiande e viveva nei boschi. Parlò poi di come si fosse spogliato delle pelli di animali per indossare vesti di stoffa, di come avesse cominciato a scavare solchi e a coltivare le viti. Tutto ciò era stato un bene o, in queste scoperte, v’erano più inconvenienti che vantaggi? Il signor Derozerays si poneva questo problema. Dal magnetismo, Rodolphe era arrivato alle affinità e, mentre il presidente citava Cincinnato e il suo aratro, Diocleziano che piantava cavoli e l’imperatore della Cina che inaugurava l’anno nuovo con le seminagioni, il giovane spiegava alla signora come le attrazioni irresistibili debbano la loro origine a qualche esistenza precedente.

«Noi due per esempio,» diceva «perché ci siamo conosciuti? Quale fato lo ha voluto? Come due fiumi che scorrono attraverso lontane regioni per ricongiungersi, certo a nostra volta siamo stati spinti, lungo la china della vita, l’uno verso l’altra.»

E riprese la mano di lei che non la ritirò.

«Un insieme di colture produttive» gridò il presidente.

«Poco fa, per esempio, quando sono venuto da lei…»

«Al signor Binet di Quincampoix.»

«Sapevo forse che l’avrei accompagnata?»

«Settanta franchi!»

«Cento volte sono stato deciso ad andarmene, ma, senza saperlo, la seguivo, e sono rimasto.»

«Concimi.»

«Così come non me ne andrò stasera, domani, i giorni a venire, tutta la vita!»

«Al signor Caron, d’Argueil, una medaglia d’oro!»

«Perché non ho mai trovato in nessuna donna un fascino irresistibile come quello che lei possiede.»

«Al signor Bain, di Givry-Saint-Martin!»

«Così, io serberò il suo ricordo.»

«Per un montone merino…»

«Mi dimenticherà, passerò come un’ombra.»

«Al signor Belot, di Notre-Dame…»

«Oh, no! Ma io rappresenterò qualcosa nei suoi pensieri, nella sua vita, nevvero?»

«Razza suina, premio ex aequo ai signori Lehérissé e Cullembourg, sessanta franchi.»

Rodolphe le strinse la mano e la sentì calda e fremente come una tortorella prigioniera, bramosa di riprendere il volo. Ma, sia che volesse liberare la mano, sia che rispondesse alla stretta, Emma fece con le dita un movimento e Rodolphe esclamò:

«Oh, grazie! Lei non mi respinge. Lei è buona, ha capito che io le appartengo! Mi permetta di guardarla, di contemplarla!»

Un colpo di vento proveniente dalla finestra smosse il tappeto sulla tavola, e in basso, nella piazza, i lembi di tutte le grandi cuffie delle contadine si sollevarono come ali di farfalle bianche palpitanti.

«Impiego di panelli di semi oleosi» continuò il presidente.

Cominciava ad affrettarsi:

«Concime fiammingo, coltura del lino, irrigazione, piantagioni di alberi a lenta crescita per costruzioni navali, fedeltà domestica».

Rodolphe taceva. Si fissavano. Un unico desiderio faceva fremere a entrambi le labbra aride e, mollemente, senza sforzo, le loro dita si intrecciarono.

«Catherine-Nicaise-Elisabeth Leroux, di Sassetot-la-Guerrière, per cinquantaquattro anni di servizio nella stessa fattoria, una medaglia d’argento del valore di venticinque franchi.»

«Dov’è questa Catherine Leroux?» ripeteva il consigliere.

Non si faceva avanti nessuno e si udivano voci che parlottavano.

«Vacci!»

«No!»

«A sinistra»

«Non aver paura!»

«Ah! Che sciocca!»

«Insomma, c’è o no?» gridò Tuvache

«Sì… Eccola!»

«Venga avanti, allora!»

Si vide infine avanzare sulla pedana una vecchietta dall’aria spaurita che sembrava cercare di rimpicciolirsi nelle povere vesti. Calzava grossi scarponi dalla suola di legno, e metà della sua figura era nascosta da un grembiulone turchino. Il viso magro, circondato dalla cuffia priva di ala, era più segnato dalle rughe di una mela renetta avvizzita, e dalle maniche della camicetta rossa uscivano le mani lunghe con articolazioni nodose. La polvere dei granai, la soda dei bucati, il grasso della lana le avevano talmente incrostate, logorate, indurite, da farle sembrare sporche anche dopo essere state lavate e rilavate nell’acqua di fonte; rimanevano abbandonate, quelle mani, quasi in un gesto di rassegnazione, come se, dopo avere sempre servito gli altri volessero essere esse stesse l’umile testimonianza di tutte le sofferenze sopportate. L’espressione del suo viso era caratterizzata da una sorta di impassibilità monacale. Nulla che potesse somigliare alla malinconia o alla tenerezza addolciva lo sguardo scialbo della donna. La continua dimestichezza con gli animali le aveva fatto assumere il loro stesso mutismo e la loro placidità. Per la prima volta le capitava di trovarsi in mezzo a tanta gente; la sgomentavano i tamburi, le bandiere, i signori in abito nero, la Legion d’Onore del consigliere e rimaneva del tutto immobile, senza sapere se dovesse farsi avanti o fuggire, senza capire perché la folla la spingesse e perché i componenti la giuria le sorridessero. In tale atteggiamento, quel mezzo secolo di fedeltà domestica se ne stava davanti ai prosperi borghesi.

«Si avvicini, egregia Catherine-Nicaise-Elisabeth Leroux» disse il consigliere prefettizio, che aveva tolto dalle mani del presidente la lista dei premiati.

E, guardando ora i fogli, ora l’anziana donna, ripeteva in tono paterno:

«Venga avanti, venga avanti!»

«Ma è sorda?» disse Tuvache balzando dalla poltrona. E si mise a sbraitarle nell’orecchio:

«Cinquantaquattro anni di servizio! Una medaglia d’argento! Venticinque franchi! È per lei!»

Quando ebbe avuto la medaglia, la vecchietta l’osservò attentamente, e un sorriso di beatitudine le illuminò il viso; fu udita mormorare, mentre se ne andava:

«La darò al curato della mia parrocchia, perché mi dica delle messe».

«Che fanatismo!» esclamò il farmacista rivolgendosi al notaio.

La riunione era giunta al termine; la folla si disperse, e ora che i discorsi erano stati ormai letti, ognuno riprendeva il suo posto e ognuno rientrava nella vita abituale di tutti i giorni. I padroni rimbrottavano i domestici e questi ultimi se la pigliavano con gli animali, gli indolenti trionfatori che se ne tornavano alle stalle con una corona di verzura fra le corna.

Nel frattempo, le guardie nazionali erano salite al primo piano del municipio, con panini infilzati sulle baionette, mentre il tamburino del battaglione reggeva un paniere di bottiglie. La signora Bovary si appoggiò al braccio di Rodolphe, il quale l’accompagnò a casa. Si separarono davanti alla porta, poi Rodolphe passeggiò solo nel prato, in attesa che il banchetto avesse inizio.

Il festino durò a lungo, rumoroso, con un pessimo servizio. I convitati stavano tanto stretti che a fatica potevano muovere le braccia, e le strette assi che fungevano da panche minacciavano di rompersi sotto il peso dei commensali. Mangiarono molto, e ognuno faceva il possibile per rifarsi della sua quota-parte Il sudore scorreva a rivoli su tutti i volti e un vapore lattiginoso, simile alla bruma sul fiume in un mattino autunnale, ondeggiava sopra la tavola, fra le lucerne accese. Rodolphe, con la schiena addossata al telo della tenda, pensava con tanta intensità a Emma da non accorgersi di nulla. Dietro di lui, sull’erba, i domestici accatastavano pile di piatti sporchi; i vicini chiacchieravano, gli riempivano il bicchiere, ma lui non rispondeva e un gran silenzio si faceva nella sua mente sebbene il frastuono divenisse sempre più intenso. Pensava a quello che Emma aveva detto, al disegno delle sue labbra; il viso di lei, come in uno specchio magico, brillava sulle placche dei chepì senza visiera, le pieghe del suo abito si drappeggiavano sui muri e innumerevoli giornate d’amore si preannunciavano per l’avvenire.

La rivide quella sera stessa, durante i fuochi d’artificio, ma era in compagnia del marito, della signora Homais e del farmacista, il quale si preoccupava molto per il pericolo costituito dai razzi che deviavano accidentalmente, e di continuo lasciava la compagnia per andare a fare raccomandazioni a Binet.

Gli apparati pirotecnici, inviati all’indirizzo del signor Tuvache, erano stati chiusi, per un eccesso di precauzione, nella cantina della casa e così la polvere umida non voleva saperne di accendersi; la parte più spettacolare, costituita da un drago che si mordeva la coda, fu un fiasco completo. Di tanto in tanto partiva una misera candela romana, e allora, dalla moltitudine a bocca aperta, si alzava un clamore al quale si mescolavano i gridolini delle donne cui qualcuno aveva solleticato la vita grazie all’oscurità. Emma, silenziosa, si rannicchiava contro la spalla di Charles; con il mento alzato seguiva nel cielo nero la scia luminosa dei razzi. Rodolphe la contemplava alla luce dei lampioncini accesi.

Questi ultimi a poco a poco si spensero. Le stelle scintillarono. Caddero poche gocce di pioggia. Emma si annodò una sciarpa sul capo scoperto.

In quel momento la carrozza chiusa del consigliere di prefettura uscì dall’albergo. Il cocchiere, ubriaco, si addormentò subito, e si vedeva di lontano, al di sopra della cappotta, fra le due lanterne, la massa del suo corpo che si dondolava di qua e di là, a seconda delle oscillazioni dei cignoni.

«In verità,» disse lo speziale «bisognerebbe essere severissimi contro l’ubriachezza. Vorrei che tutte le settimane, sulla porta del municipio, comparisse l’elenco dei nomi di coloro che in quel periodo si sono intossicati con l’alcool. In questo modo, dal punto di vista statistico, ci si troverebbe a disporre di una specie di annali, veri e propri documenti, che in caso di necessità… Ma scusate…»

E corse di nuovo verso il capitano.

Questi stava rincasando. Era ansioso di rivedere il suo tornio.

«Forse farebbe bene» gli disse Homais «a mandare uno dei suoi uomini o ad andare lei stesso…»

«Mi lasci in pace» rispose l’esattore. «Non c’è nessun pericolo.»

«State tranquilli,» disse lo speziale, non appena fu di nuovo insieme con gli amici «il signor Binet mi ha assicurato che tutte le misure necessarie sono state adottate. Nessuna favilla è stata perduta di vista e le pompe degli incendi sono piene. Possiamo andare a dormire.»

«Era ora. Ne ho proprio bisogno» disse la signora Homais, che continuava a sbadigliare. «Ma non importa, abbiamo avuto per la festa una magnifica giornata.»

Rodolphe ripeté con una voce bassa e lo sguardo tenero:

«Oh, sì! Davvero bella!»

E, dopo essersi salutati, si voltarono le spalle.

Due giorni dopo, sul Faro di Rouen apparve un lungo articolo sulle Assemblee. Homais lo aveva scritto di getto il giorno successivo.

«Perché questi festoni, i fiori le ghirlande? Dove sta correndo la folla, simile ai flutti di un mare in burrasca, sotto i raggi di un sole tropicale che riversa il suo ardore sopra i nostri campi?»

Proseguiva parlando della situazione dei contadini. Certo il governo faceva molto, ma non ancora abbastanza. «Coraggio!» incitava «Ci sono mille riforme indispensabili, attuiamole!» Poi, accennando all’arrivo del consigliere, non trascurava alcun particolare né «l’aria marziale delle nostre milizie» né «le vivaci contadinelle» e neppure i «vegliardi dalla testa calva, veri patriarchi presenti alla cerimonia, alcuni dei quali veterani delle nostre falangi immortali, che sentivano battere ancora in fretta il cuore al virile suono dei tamburi». Citava il proprio fra i primi nomi di coloro che formavano la giuria e ricordava perfino, in una nota, che il signor Homais, farmacista, aveva inviato un opuscolo sul sidro alla Società d’Agricoltura. Giunto alla distribuzione dei premi, dipingeva la gioia dei prescelti con accenti ditirambici. I fratelli abbracciavano i fratelli, i padri i figli, gli sposi le spose. Più d’uno mostrava con orgoglio la propria umile medaglia e, di certo, appena tornato a casa, accanto alla fedele compagna della sua vita, avrà appeso, con le lacrime agli occhi, l’ambito trofeo alle modeste pareti della sua capanna.

«Verso le sei un banchetto organizzato sul prato del signor Liégard ha riunito i più autorevoli partecipanti alla festa. La più grande cordialità ha regnato senza interruzioni. Sono stati pronunciati numerosi brindisi: il signor Lieuvain al re, il signor Tuvache al prefetto, il signor Derozerays all’agricoltore, il signor Homais all’industria e alle belle arti, queste due sorelle, il signor Leplichey al progresso. La sera un rutilante fuoco d’artificio ha d’improvviso illuminato il cielo. Un vero caleidoscopio di colori, uno scenario d’opera, e per un momento il nostro piccolo paese ha davvero creduto d’essere trasportato nel bel mezzo di un sogno da mille e una notte. È doveroso sottolineare che nessun evento increscioso ha turbato questa riunione familiare.»

E aggiungeva:

«È stata però notata l’assenza del clero. Certo le sagrestie intendono il progresso in un altro modo. Liberissimi di farlo, signori di Loyola!»

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