Dic 012018
 

Ricominciarono ad amarsi. Spesso, durante la giornata, Emma gli scriveva un biglietto dicendogli di venire subito; poi, attraverso i vetri, faceva segno a Justin, che, togliendosi in fretta il grembiule, si avviava di corsa verso la Huchette. Rodolphe arrivava per sentirsi dire da Emma che si annoiava, che suo marito era odioso e la vita orribile.

«E io che cosa ci posso fare?» gridò un giorno spazientito.

«Ah! Se tu volessi!…»

Emma era seduta in terra, fra le sue ginocchia, i capelli sciolti, lo sguardo perduto nel vuoto.

«Cosa vuoi dire?» fece Rodolphe.

Emma sospirò:

«Potremmo andare a vivere altrove… in qualche luogo…»

«Ma tu sei proprio pazza!» ribatté lui ridendo «Ti pare possibile?»

Emma, però, tornò sull’argomento; lui finse di non capire e cambiò discorso. Non si rendeva conto del perché di tante complicazioni in una cosa semplice come l’amore. Ma Emma aveva uno scopo, un’altra ragione che accresceva il suo attaccamento.

La tenerezza di lei nei confronti dell’amante aumentava infatti ogni giorno, di pari passo con la ripugnanza per il marito. Quanto più si abbandonava all’uno, tanto più detestava l’altro. Charles non le era mai sembrato tanto sgradevole, con quelle dita quadrate, l’intelligenza ottusa, le maniere volgari, come quando si ritrovava con lui dopo i convegni con l’amante. E allora, pur continuando a far credere di essere una sposa virtuosa, si infiammava pensando a Rodolphe, ai suoi capelli neri che si piegavano in un’onda sulla fronte abbronzata, alla figura di lui così robusta e al contempo elegante, a quest’uomo il quale dimostrava tanta lucidità d’intelletto e tanto trasporto nel sentimento. Per lui si limava le unghie con la cura di un cesellatore, per lui curava l’aspetto del proprio viso senza risparmio di creme, e profumava i propri fazzoletti con fiumi di lavanda. Si copriva di braccialetti, di anelli, di collane. Quando sapeva che sarebbe venuto, riempiva di rose i grandi vasi di vetro blu e preparava se stessa e la propria camera, come una cortigiana in attesa del principe. La domestica non faceva che lavare biancheria e Félicité non si moveva dalla cucina, dove Justin le teneva spesso compagnia guardandola lavorare.

Con il gomito appoggiato sulla lunga asse ove lei stirava osservava avidamente tutti gli indumenti femminili sparsi lì attorno: le sottovesti di stoffa morbida, le sciarpe, i colletti, e le mutandine a guaina, larghe sui fianchi e strette verso il basso.

«A cosa serve questo?» domandava il ragazzotto, passando la mano sulla crinoline o sulle fibbie.

«Ma non hai mai visto niente?» rispondeva ridendo Félicité «Come se la tua padrona, la signora Homais, non ne portasse di uguali!»

«Ah, sì, proprio! La signora Homais!»

E aggiungeva cogitabondo:

«Non è davvero una signora come la sua!»

Ma Félicité perdeva la pazienza a vederselo continuamente d’intorno. Aveva sei anni più di lui e Théodore, il domestico del signor Guillaumin, cominciava a farle la corte.

«Lasciami in pace!» diceva, spostando il vaso dell’amido «Va’ piuttosto a pestare le mandorle, stai sempre a curiosare in mezzo alle donne; aspetta, per occuparti di queste cose, ragazzaccio, di aver la barba sul mento.»

«Non si arrabbi, via! L’aiuterò a lucidare gli stivaletti della sua padrona.»

E andava subito a prendere, sulla mensola del camino, le scarpe di Emma, tutte incrostate di fango – il fango degli appuntamenti – che si staccava sotto le sue dita come polvere sottile; lui la guardava salire adagio in un raggio di sole.

«Quanta paura hai di rovinarle!» diceva la domestica, che non ci metteva tanta attenzione quando le puliva, perché la padrona, appena la stoffa era un po’ logora, gliele regalava.

Emma ne aveva un gran numero nell’armadio e le sciupava senza riguardo e senza che Charles si permettesse la più piccola osservazione.

Così, sborsò anche trecento franchi per una gamba di legno che Emma giudicò di dover regalare a Hippolyte.

La parte di legno era ricoperta di sughero e l’arto era fornito di articolazioni a molla, un meccanismo complicato, nascosto da un pantalone nero che terminava con una scarpa verniciata. Ma Hippolyte non osava servirsi tutti i giorni di una così bella gamba e supplicò la signora Bovary di procurargliene una più pratica. Fu sempre il medico, ben inteso, a pagare anche per quest’altro acquisto.

Il mozzo di stalla, poco alla volta, riprese a lavorare. Lo si vedeva come prima, per le vie del villaggio, e quando Charles sentiva di lontano sull’acciottolato il rumore secco della gamba di legno, cambiava strada il più rapidamente possibile.

Il signor Lheureux, il mercante, era stato incaricato di procurare la gamba di legno. Questo gli fornì l’occasione di frequentare Emma. Parlò con lei dei nuovi arrivi da Parigi, di mille nuovi articoli per le signore, fu assai compiacente e non chiese mai denaro. Emma si lasciò allettare da tanta facilità di appagare i suoi capricci. Volle, per farne dono a Rodolphe, un bellissimo frustino che era in vendita a Rouen in un negozio di ombrelli. Il signor Lheureux glielo fece avere a casa la settimana successiva.

Ma l’indomani si presentò con un conto di duecentosettanta franchi, senza tener conto degli spiccioli. Emma si trovò in un grave imbarazzo: tutti i cassetti dello scrittoio erano vuoti; dovevano ancora pagare più di quindici giorni a Lestiboudois, due trimestri alla domestica, un’infinità di altri conti, e Bovary aspettava con impazienza il saldo dell’onorario da parte del signor Derozerays, il quale, come faceva di solito tutti gli anni, l’avrebbe mandato nel periodo prossimo al giorno di San Pietro.

Per un po’ Emma riuscì a tenere a bada Lheureux, ma a un certo punto questi perse la pazienza: lo perseguitavano, era a corto di capitali e, se non fosse riuscito a ricuperarne almeno una parte, sarebbe stato costretto a riprendersi tutta la merce che le aveva fornito.

«Eh! Se la riprenda!» disse Emma.

«Oh, ho scherzato!» rispose lui «Rimpiango soltanto il frustino, davvero. Me lo farò ridare da suo marito.»

«No! No!» disse Emma.

“Ah! Adesso ti ho in pugno!” pensò Lheureux.

E, persuaso di essere sulla buona strada, uscì ripetendo sottovoce, come se stesse fischiettando secondo la sue abitudine:

«Bene! Si vedrà! Si vedrà!»

Emma intanto si arrovellava cercando il modo di togliersi da quel pasticcio, quando la domestica entrò e depose un piccolo rotolo di carta turchina sul caminetto, da parte del signor Derozerays. La signora Bovary si precipitò a prenderlo e l’aprì. Conteneva quindici napoleoni. Quanto bastava. Sentì Charles sulle scale; nascose l’oro in fondo a un cassetto e ne tolse la chiave.

Tre giorni dopo Lheureux si rifece vivo.

«Ho un accordo da proporle» disse. «Se in luogo della somma pattuita volesse prendere…»

«Eccola!» disse Emma mettendogli in mano quattordici napoleoni.

Il mercante rimase esterrefatto. Per dissimulare il disappunto, si profuse in scuse e in offerte di servigi che Emma rifiutò. Poi, per qualche minuto, ella continuò a tenere fra le dita nella tasca del grembiule, i due pezzi da cento soldi che il mercante le aveva dato di resto. Si riprometteva di fare economia, per poter restituire più tardi…

“Ah!” si disse “Non se ne accorgerà.”

 

 

Oltre al frustino dal pomo dorato, Rodolphe aveva ricevuto un sigillo con inciso il motto Amor nel cor; e poi una sciarpa invernale e un portasigarette identico a quello del Visconte, che Charles aveva raccolto quel giorno sulla strada e che Emma conservava ancora. Questi regali lo umiliavano e ne rifiutava molti: ma Emma insisteva e Rodolphe finiva per cedere, trovandola tirannica e troppo invadente.

Ella aveva anche delle strane idee:

«Quando suonerà mezzanotte,» gli diceva «penserai a me!» E se lui confessava di non essersene ricordato, lo rimproverava a lungo, terminando con l’eterna domanda:

«Mi ami?»

«Ma sì ti amo!» rispondeva Rodolphe.

«Molto?»

«Sicuro!»

«E non hai amato mai nessun’altra?»

«Pensi di avermi preso vergine?» esclamava lui, ridendo.

Emma piangeva, Rodolphe cercava di consolarla infiorando di giochi di parole le sue proteste d’affetto:

«Oh! Ma è perché ti amo!» insisteva lei «Ti amo tanto da non poter vivere senza di te, capisci? Certe volte provo un tale desiderio di vederti che mi sento lacerare da tutte le furie dell’amore. Mi domando: dov’è in questo momento? Forse con altre donne? Gli sorridono, lui si avvicina.. Oh, no, non è possibile, ce n’è qualcuna che ti piace? Lo so, ce ne sono di più belle di me; ma io so amarti meglio! Sono la tua serva e la tua concubina! Tu sei il mio re, il mio idolo! Sei buono sei bello, sei intelligente, sei forte!»

Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l’eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti celata dall’identità di espressione. Poiché labbra viziose o venali gli avevano mormorato frasi simili, non attribuiva molta importanza al candore di Emma. “È necessario” pensava “ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva non traboccasse dall’anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l’esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle.”

Ma, da quella posizione privilegiata di critica nella quale viene a trovarsi colui che, in qualsiasi impegno, si tiene sempre indietro, Rodolphe scorse in quest’amore altri godimenti da sfruttare. Giudicava scomoda ogni forma di pudore. Trattava Emma senza riguardi. Ne fece qualcosa di duttile e corrotto. Il suo era una specie di attaccamento idiota, pieno di ammirazione per se stesso, di voluttà per Emma; era una beatitudine che l’intorpidiva; e la sua anima affondava in quell’ebbrezza, e vi annegava, raggrinzita come il duca di Clarence nella sua botte di malvasia.

La signora Bovary cambiò i propri atteggiamenti soltanto per l’influenza esercitata dalle sue abitudini amorose. Gli sguardi di lei divennero più arditi, i discorsi più liberi, e commise perfino la sconvenienza di passeggiare con Rodolphe fumando una sigaretta, quasi a voler manifestare il proprio disprezzo per la gente, e alla fine anche coloro che ancora dubitavano finirono per non dubitare più quando la videro scendere dalla Rondine con la vita stretta da un panciotto, come un uomo. La signora Bovary madre, venuta a rifugiarsi dal figlio dopo una spaventosa scenata con il marito, rimase scandalizzata, certo non meno di tutte le brave borghesi di Yonville. E molte altre cose le dispiacquero: innanzitutto Charles non aveva seguito i suoi consigli per quanto concerneva le letture di Emma. E inoltre ella non approvava l’andamento di quella casa. Si permise alcune osservazioni e ne derivarono situazioni incresciose, soprattutto una volta, a proposito di Félicité.

La signora Bovary madre, la sera prima, nell’attraversare il corridoio, l’aveva sorpresa in compagnia di un uomo dalla barba nera, di circa quarant’anni, il quale, al rumore dei suoi passi, era scappato in fretta dalla cucina. Emma rise, ma la buona signora si adirò, dichiarando che se una padrona di casa non si infischia dei buoni costumi ha l’obbligo di curarsi di quelli dei domestici.

«Ma in che mondo vive?» disse la nuora, con uno sguardo tanto impertinente che la suocera le domandò se per caso non difendesse la propria causa.

«Fuori!» fece Emma alzandosi di scatto.

«Emma… Mamma…» gridava Charles per rappacificarle.

Ma, in preda all’esasperazione, se n’erano già andate entrambe. Emma batteva i piedi in terra ripetendo:

«Ah! Che maniere! Che villana!»

Charles corse dalla madre; ella era fuori di sé, balbettava: «È un’insolente, una testa vuota! E forse peggio!»

Voleva partire subito, se la nuora non le avesse chiesto scusa. Charles tornò allora dalla moglie, la scongiurò di cedere; si mise in ginocchio. Emma finì per rispondere:

«E va bene! Ci vado».

In realtà tese la mano alla suocera con la dignità di una marchesa, dicendo:

«Mi voglia scusare, signora».

Poi risalì in camera, si gettò bocconi sul letto e pianse come una bambina, con la testa affondata nel guanciale.

Si erano accordati, lei e Rodolphe, nel senso che, se fosse accaduto qualcosa di insolito, Emma avrebbe attaccato a una persiana un foglio di carta bianca; in tal caso, trovandosi a Yonville, egli sarebbe accorso nel viottolo dietro la casa. Emma fece il segnale convenuto. Trascorsero tre quarti d’ora, e per un attimo scorse Rodolphe all’angolo del mercato. Fu tentata di aprire la finestra e di chiamarlo, ma era già scomparso. Ricadde a sedere disperata.

Quasi subito le sembrò di sentire un passo sul marciapiede. Era lui, di certo; scese le scale e attraversò il cortile. Lo vide là fuori. Si gettò nelle sue braccia.

«Sta’ attenta!» disse lui.

«Ah, se sapessi!» rispose Emma.

E si mise subito a raccontargli tutto, in fretta, disordinatamente, esagerando i fatti, inventandone molti, e con una tale abbondanza di incisi che Rodolphe non riuscì a capire niente.

«Via, povero angelo, coraggio, non te la prendere, abbi pazienza!»

«Ma sono quattro anni che paziento, che soffro!… Un amore come il nostro dovrebbe farsi conoscere dall’intero universo. Mi stanno torturando. Non ne posso più! Salvami!»

Si stringeva a Rodolphe. Gli occhi, pieni di lacrime le balenavano come fiamme sott’acqua, la gola le palpitava costretta da rapidi singulti. Non l’aveva mai amata tanto; perdette la testa e le domandò:

«Cosa si dovrebbe fare? Cosa vorresti?»

«Portami con te!» gridò lei «Rapiscimi!… Te ne supplico!»

E si gettò sulla sua bocca, come per strappare un assenso imprevisto e alitato in un bacio.

«Ma…» soggiunse Rodolphe.

«Cosa c’è ancora?»

«E tua figlia?»

Emma rifletté un momento poi rispose:

«Tanto peggio, la prenderemo con noi».

“Che donna!” si disse Rodolphe, guardandola allontanarsi.

Emma stava attraversando di corsa il giardino. Qualcuno la chiamava.

Il giorno dopo, la signora Bovary madre si stupì molto del cambiamento intervenuto nella nuora. Emma infatti si mostrò più docile e spinse la sua deferenza fino a domandare alla suocera una ricetta per mettere i cetriolini sott’aceto.

Si comportava così per ingannare meglio l’una e l’altro? Oppure per una sorta di masochismo, per sentire ancora di più l’amarezza inflittale dalle cose che stava per abbandonare? Non se ne curava, piuttosto, viveva perduta nella contemplazione dell’ormai vicina felicità. E, con Rodolphe, ne parlava continuamente. Appoggiandosi alla sua spalla mormorava:

«Eh! Quando saremo sulla diligenza! Ma ci pensi? Lo credi possibile? Mi sembra che quando sentirò la carrozza partire, sarà come se stessi alzandomi in pallone, come se stessimo salendo verso le nuvole. Lo sai che conto i giorni? E tu?»

La signora Bovary non era mai stata bella come in questo periodo. Possedeva quell’indefinibile bellezza che proviene dalla gioia, dall’entusiasmo, dal successo e che deriva dall’armonia dello spirito con le circostanze. Le sue bramosie, gli affanni, l’esperienza del piacere, le illusioni sempre vive, come accade con i fiori grazie ai fertilizzanti, al sole, ai venti e alle piogge, l’avevano a poco a poco fatta maturare ed ella sbocciava ormai nel pieno della fioritura. Le palpebre di lei sembravano tagliate apposta per i lunghi sguardi amorosi, in cui la pupilla si perde, mentre un sospiro profondo dilatava le narici minute e rialzava l’angolo carnoso delle labbra, che, in piena luce, erano ombreggiate da una lieve peluria scura. Si sarebbe detto che un artiste abile in seduzione avesse disposto sulla sua nuca la treccia dei capelli: questi ultimi erano raccolti con negligenza in una massa pesante, a seconda delle vicende dell’adulterio che li scioglieva ogni giorno. La voce, ora, aveva inflessioni più morbide, la figura atteggiamenti più nobili; qualcosa di sottile e di penetrante si sprigionava perfino dalle pieghe dell’abito e dalla curva del piede.

Charles, come nei primi tempi del matrimonio, la trovava deliziosa e del tutto irresistibile.

Quando rientrava a notte alta, non aveva il coraggio di svegliarla. La lampada da notte di porcellana disegnava sul soffitto una chiazza di luce rotonda e tremolante e le tendine chiuse della culla sembravano una capannuccia bianca che si delineasse accanto al letto nell’ombra. Charles indugiava guardandole. Credeva di sentire il respiro lieve della bambina. Adesso stava crescendo, ogni stagione avrebbe portato un rapido progresso; la vedeva già tornare da scuola al tramonto tutta ridente, con il grembiale macchiato di inchiostro e il panierino infilato al braccio. Poi avrebbe dovuto mandarla in collegio, e questo gli sarebbe venuto a costare parecchio; come fare? Vi pensava fin d’ora. Meditava di prendere in affitto una piccola fattoria nei dintorni; l’avrebbe sorvegliata lui stesso tutte le mattine, andando a visitare i malati. Avrebbe messo da parte il reddito, depositandolo alla cassa di risparmio, in seguito avrebbe acquistato delle azioni, da qualche parte, non importa dove. E poi la clientela sarebbe aumentata, ci contava perché voleva che Berthe fosse allevata bene, che, se aveva talento, imparasse a suonare il pianoforte. Ah. come sarà graziosa, più tardi, quando rassomigliando a sua madre porterà come lei, d’estate, grandi cappelli di paglia! Di lontano le scambieranno per due sorelle. Se la immaginava la sera, mentre avrebbe lavorato vicino a loro, al lume della lampada. Gli avrebbe ricamato le pantofole e si sarebbe occupata dell’andamento della casa, rallegrata dalla gentilezza e dal buonumore di Berthe. E infine pensava alla sua sistemazione: si sarebbe pur trovato un bravo giovane con una solida posizione, capace di renderla felice; e questa felicità sarebbe durata sempre.

Emma non dormiva, fingeva di essere addormentata e, mentre Charles si assopiva al suo fianco, viveva altri sogni.

Al galoppo di quattro cavalli, da otto giorni era trasportata verso paesi nuovi dai quali non avrebbero più fatto ritorno. Andavano e andavano, abbracciati e senza parlare. Spesso, dall’alto di una montagna scorgevano all’improvviso qualche splendida città, con le sue cupole, i ponti, le imbarcazioni, i boschetti di limoni e le cattedrali di marmo bianco i cui campanili aguzzi ospitavano nidi di cicogne. Procedevano al passo a causa delle grandi pietre del selciato e c’erano per terra mazzi di fiori che le donne in corsetto rosso offrivano ai viaggiatori. Si sentivano suonare le campane, nitrire i muli, insieme con gli accordi delle chitarre e il mormorio delle fontane, il cui vapore andava a rinfrescare cumuli di frutta disposta a piramide ai piedi di pallide statue sorridenti sotto gli zampilli dell’acqua. E poi, una sera, arrivavano in un villaggio di pescatori, ove le reti scure asciugavano al vento lungo le scogliere e vicino alle capanne. Qui si sarebbero fermati, avrebbero abitato in una casa bassa, dal tetto a terrazza, all’ombra di un palmizio, in fondo a un golfo, sulla riva del mare. Avrebbero fatto gite in gondola, si sarebbero cullati sulle amache, conducendo un’esistenza placida e comoda come gli abiti di seta che avrebbero indossato, un’esistenza tutta calda e stellata come le dolci notti dalle quali erano attesi. Purtroppo, sull’immensità di questo avvenire evocato da Emma non accadeva niente di rilevante; i giorni, uno più bello dell’altro, si somigliavano come le onde, e l’avvenire si dondolava all’orizzonte infinito, armonioso, azzurrino e pieno di sole. Ma la bimba tossiva nella culla, oppure Bovary russava più sonoramente ed Emma finiva per addormentarsi soltanto al mattino quando l’alba scoloriva i vetri della finestra e Justin, sulla piazza, già apriva le vetrine della farmacia.

Emma aveva chiamato il signor Lheureux e gli aveva detto:

«Avrei bisogno di un mantello, grande, con il collo ampio e foderato.»

«Ha intenzione di fare un viaggio?» domandò lui.

«No!… ma cosa c’entra? Posso contare su di lei, vero? E faccia presto.»

Il mercante si inchinò.

«Mi occorrerebbe anche un baule» continuò lei «non troppo pesante, e comodo.»

«Sì, sì, capisco, di circa novantadue centimetri per cinquanta, come li fanno adesso.»

«E un nécessaire da notte.»

“Decisamente” pensò Lheureux “qui c’è sotto un pasticcio.” «Prenda,» disse la signora Bovary, togliendosi l’orologio dalla cintura «prenda questo e si paghi.»

Ma il mercante protestò dicendo che non era proprio il caso: si conoscevano. Aveva mai dubitato di lei? Che ridicolaggine! Emma insistette affinché accettasse almeno la catena. Lheureux se l’era già messa in tasca e se ne stava andando quando si sentì richiamare.

«Tenga tutto lei. In quanto al mantello,» Emma parve riflettere per un momento «non lo porti qui affatto, mi darà soltanto l’indirizzo del sarto e lo avvertirà di tenerlo a mia disposizione.»

La fuga era fissata per il mese successivo. Emma sarebbe partita da Yonville come se avesse dovuto recarsi a Rouen per commissioni. Rodolphe avrebbe fissato i posti, chiesto i passaporti, e addirittura scritto a Parigi per avere una vettura diretta fino a Marsiglia, dove avrebbero acquistato un calesse per proseguire senza fermarsi lungo la strada di Genova. Emma pensava di mandare il bagaglio da Lheureux, il quale lo avrebbe fatto portare direttamente sulla Rondine, in maniera che nessuno potesse sospettare di nulla; e, in tutti questi preparativi, non si accennava mai alla bambina. Rodolphe evitava di parlarne e forse Emma non ci pensava.

Rodolphe volle ancora due settimane di tempo per sistemare alcune cose, poi quando erano trascorsi otto giorni, ne chiese altri quindici. In seguito disse di non sentirsi bene. E successivamente fece un viaggio. Il mese di agosto trascorse e, dopo tutti questi rinvii, stabilirono irrevocabilmente la data del 4 settembre, un lunedì.

Finalmente si giunse al sabato, l’antivigilia della partenza.

Rodolphe, quella sera, arrivò più presto del solito

«Sei pronto?» domandò Emma.

«Sì!»

Fecero un giro intorno all’aiuola e andarono a sedersi vicino alla terrazza, sulla sommità del muricciolo

«Sei triste» disse Emma.

«No, perché?»

E intanto la guardava in maniera strana, con tenerezza.

«È perché te ne vai?» continuò lei «Lasci i tuoi affetti, la tua vita? Capisco… Io invece, non ho niente al mondo, tu sei tutto per me. E quindi anch’io devo essere tutto per te, sarò la tua famiglia, la tua patria: ti sarò vicina, ti amerò.»

«Come sei bella!» disse egli stringendola fra le braccia.

«Davvero?» fece Emma con una risatina voluttuosa «Mi ami? Giuralo allora!»

«Se ti amo! Se ti amo? Ma ti adoro, amore mio!»

La luna piena, color porpora, stava sorgendo bassa sull’orizzonte, in fondo alla distesa dei prati. Saliva veloce fra i rami dei pioppi che di tanto in tanto la nascondevano. Infine apparve, elegante nel suo candore, nel cielo sgombro e rischiarato dalla sua luce, e rallentò lasciando cadere sul fiume una grande striscia fatta di stelle e questo luccichio d’argento sembrava torcersi da cima a fondo come un serpente senza testa coperto di squame luminose. Somigliava anche a un mostruoso candelabro dal quale colasse un ruscello di gocce di diamanti fusi. Intorno a loro era la notte tiepida; chiazze d’ombra empivano il fogliame. Emma, gli occhi socchiusi, aspirava con profondi sospiri il vento fresco che stava soffiando. Tacevano, entrambi troppo assorti nelle fantasticherie dei propri sogni. Nei loro cuori tornava tutta la tenerezza dei vecchi tempi, copiosa e tacita come il fiume che scorreva tanto dolcemente, così com’era dolce il profumo delle sassifraghe, e proiettava nei ricordi ombre più vaste e malinconiche di quelle allungate sull’erba dai salici immobili. Spesso si udivano le foglie frusciare, smosse da qualche animale notturno, un riccio o una donnola a caccia di prede, o il tonfo di una pesca matura che cadeva da sola dalla spalliera.

«Che bella notte!» disse Rodolphe.

«Ne avremo altre» rispose Emma.

E, come parlando a se stessa:

«Sì, sarà bello viaggiare!… Perché mi sento triste allora? È la paura dell’ignoto, il disagio di dover cambiare abitudini… O piuttosto… No, è la troppa felicità. Che donna dappoco sono, vero? Perdonami!»

«Sei ancora in tempo!» esclamò lui «Rifletti, potresti pentirtene poi, forse.»

«Mai!» disse Emma con slancio.

E, facendoglisi più vicina:

«Che cosa potrebbe accadermi? Non esistono deserti né precipizi né oceani che non affronterei con te. Vivendo insieme, verrà a crearsi fra noi un legame ogni giorno più stretto, più completo! Non vi sarà mai nulla che possa turbarci, né preoccupazioni né ostacoli. Saremo soli, ci apparterremo per sempre. Parla, rispondimi!»

Rodolphe rispondeva: «Sì, sì» a intervalli regolari. Emma gli passò le mani fra i capelli, ripetendo con voce infantile, sebbene avesse il volto rigato da grosse lacrime:

«Rodolphe! Rodolphe!… Mio caro Rodolphe!»

Suonò mezzanotte.

«Mezzanotte!» disse lei «È già domani. Ancora un giorno!

Rodolphe si alzò per andarsene e, come se il gesto compiuto da lui fosse il segnale della fuga, Emma di colpo divenne gioiosa.

«Hai i passaporti?»

«Sì.»

«Ti sei dimenticato niente?»

«No.»

«Ne sei sicuro?»

«Certo!»

«Mi aspetterai all’albergo Provenza, vero? A mezzogiorno?»

Assentì con il capo.

«A domani allora!», disse Emma con un’ultima carezza.

Rimase a guardarlo mentre si allontanava.

Rodolphe non si voltò. Emma gli corse dietro e, protendendosi sull’acqua, fra i cespugli:

«A domani!» gridò.

Rodolphe era già sull’altra riva e camminava in fretta in mezzo ai prati.

Dopo qualche minuto si fermò; quando la vide svanire con il suo abito bianco, lentamente, nell’ombra, come un fantasma si sentì preso da un tale batticuore che dovette appoggiarsi a un albero per non cadere.

«Che imbecille sono mai!» esclamò imprecando violentemente «Non importa, era un’amante deliziosa!»

E, di colpo, la bellezza di Emma, con tutti i piaceri che l’amore di lei gli procurava, si materializzarono nella sua mente. Di nuovo si intenerì, poi ebbe un moto di ribellione contro di lei.

«Non è possibile che io vada all’estero, mi assuma la responsabilità di un bambino…» continuava gesticolando.

Si diceva queste cose per rendere più ferma la propria risoluzione.

«E d’altro canto, le complicazioni, le spese… Ah, no, no, mille volte no! Sarebbe un errore madornale!»

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