Dic 082018
 

Appena arrivato a casa, Rodolphe sedette con decisione allo scrittoio, sotto il trofeo di una testa di cervo appesa alla parete. Ma quando ebbe la penna fra le dita, non seppe farsi venire in mente nulla e, appoggiandosi sui gomiti, si mise a riflettere. Gli sembrava che Emma fosse indietreggiata in un remoto passato, quasi che la risoluzione presa avesse interposto fra loro, d’improvviso, una distanza enorme.

Per riafferrare qualcosa di lei, andò a cercare nell’armadio a capo del letto una vecchia scatola di biscotti di Reims ove conservava le lettere d’amore e dalla quale sfuggì un odore di polvere umida e di rose appassite. Dapprima trovò un fazzolettino cosparso di piccole macchie scolorite. Era un fazzoletto di Emma, quando ella aveva perduto sangue dal naso durante una passeggiata; non se ne ricordava nemmeno più. Poi una miniatura regalatagli da Emma, sbattuta qua e là dalle sue mani nervose: la guardò. L’abbigliamento di lei gli sembrò pretenzioso e lo sguardo in tralice, di pessimo effetto; poi, continuando a guardare questa immagine e a evocare il ricordo del modello, i tratti del viso di Emma gli si confusero nella memoria, come se la figura dipinta e quella reale si fossero, sovrapponendosi, cancellate a vicenda. Lesse qualcuna delle sue lettere: erano piene di spiegazioni sul loro prossimo viaggio, brevi, pressanti e pratiche come comunicazioni commerciali. Volle rileggere le più lunghe, quelle di molto tempo prima; per ripescarle dal fondo della scatola, Rodolphe rimescolò tutte le altre e macchinalmente si mise a rovistare in quel mucchio di fogli e oggetti, ritrovando, senza alcun ordine logico, mazzolini di fiori, una giarrettiera, una mascherina nera, spille, capelli ‑ capelli bruni, biondi, qualcuno dei quali, rimasto impigliato nella scatola metallica, al momento di aprirla, si rompeva.

E così, vagando fra i ricordi, osservò la calligrafia e lo stile delle lettere, diverse una dall’altra come l’ortografia di ognuna di esse. Erano tenere o allegre, spiritose o malinconiche; qualcuna chiedeva amore e qualche altra soldi. Ogni tanto una frase gli rammentava un viso, dei gesti, il suono di una voce, o, a volte, proprio nulla.

Tutte queste figure di donna che si susseguivano nella sua immaginazione, si intralciavano reciprocamente e si ripetevano in una teoria uniforme, resa tale da un sentimento amoroso che le metteva tutte sullo stesso livello. Prendendo a manciate le lettere in disordine, si divertì per qualche minuto a lasciarle cadere come una cascata dalla mano destra alla sinistra. Poi, stufo e insonnolito, Rodolphe ripose la scatola nell’armadio dicendosi:

“Quante frottole!”

E questo riassumeva la sua opinione; perché i piaceri, a somiglianza degli scolari nel cortile di un collegio, avevano talmente calpestato il suo cuore da inaridirlo del tutto e chi vi passava, ancora più sventato dei fanciulli, non poteva lasciarvi, come loro invece facevano, neppure il proprio nome inciso sul muro.

“Avanti,” si disse “cominciamo.”

 

 

Scrisse:

 

 

Coraggio Emma! Deve avere coraggio! Non voglio essere la rovina della sua esistenza.

 

 

“Dopotutto è vero” pensò Rodolphe. “Agisco nel suo interesse, mi comporto da onest’uomo.”

 

 

Ha ponderato bene la sua decisione? Ha pensato in quale abisso avrei potuto trascinarla, povero angelo? No, vero? Lei cammina fiduciosa e folle, credendo nella felicità, nell’avvenire. Ah, siamo degli sventurati, degli insensati.

 

 

Rodolphe si fermò cercando a questo punto una scusa plausibile.

“Se le dicessi che sono rovinato?… Ah, no! E, d’altra parte questo non cambierebbe nulla. Fra un po’ si sarebbe daccapo. Ma si può far capire la ragione a donne simili?”

Rifletté, poi proseguì:

 

 

Non la dimenticherò mai, mi creda, e serberò per lei una devozione profonda ma un giorno presto o tardi, questo ardore (è il destino delle umane cose) certo finirà per diminuire! Sopraggiungerà la stanchezza, e avrei avuto il dolore di assistere al suo rimorso e di parteciparvi io stesso essendone stato la causa. Il solo pensiero della disperazione in cui avrei potuto gettarla, mi tortura. Emma! Mi dimentichi! Perché l’ho incontrata? Perché è così bella? È stata colpa mia? Oh, mio Dio, no! No! Incolpi soltanto la fatalità.

 

 

“Ecco una frase che fa sempre effetto” si disse.

 

 

Ah! Se lei fosse stata una di quelle donne dal cuore frivolo, come ce ne sono tante, certo avrei potuto, per egoismo, tentare un’esperienza senza danno per lei. Ma questa deliziosa esaltazione che costituisce al contempo il suo fascino e il suo tormento, le ha impedito di intuire, adorabile signora, la falsità della nostra posizione futura. Io stesso, dapprima non avevo riflettuto, riposavo all’ombra di quella felicità ideale, come avrei potuto fare sotto il manzaniglio, senza prevederne le conseguenze.

 

 

“Adesso potrebbe credere che rinuncio per avarizia… Non m’importa! Tanto peggio! Bisogna pur farla finita!”

 

 

Il mondo è crudele, Emma. Ovunque avessimo potuto recarci, ci avrebbero perseguitato. Sarebbe stato inevitabile, per lei, dover rispondere a domande indiscrete dover subire la calunnia, il disprezzo, l’oltraggio, forse. Offendere lei! Oh!… E io che vorrei vederla su un trono! Io che considero il suo affetto come un talismano! Perciò voglio punirmi con l’esilio per tutto il male che le ho fatto. Parto. Per dove? Non lo so. Mi sento impazzire. Addio. Sia sempre così buona come io la conosco! Serbi almeno un ricordo di quel disgraziato che l’ha perduta. Insegni il mio nome alla sua bambina, affinché lo ripeta nelle sue preghiere.

 

 

Lo stoppino delle due candele tremolava. Rodolphe si alzò per chiudere la finestra e, quando si rimise a sedere, pensò: “Mi sembra di aver detto tutto. Ah, ancora una cosa, per essere sicuri che non venga a riacciuffarmi.”

 

 

Sarò lontano quando leggerà queste tristi parole: ho voluto fuggire per il timore di cedere alla tentazione di vederla ancora. Niente debolezze. Ritornerò, e forse un giorno ci sarà possibile ricordare insieme, con molto distacco, i nostri trascorsi amori. Addio!

 

 

E aggiunse un ultimo addio, in due parole distinte, A Dio! che giudicò d’ottimo gusto.

“E adesso come mi firmo?” si domandò “Suo devotissimo… No. Il suo amico?… Sì, così va bene.”

Il suo amico

 

 

Rilesse la lettera e ne fu soddisfatto.

“Povera piccola!” pensò con tenerezza “Mi crederà più insensibile di una roccia; ci sarebbe voluta qualche lacrima qui sopra; ma non riesco a piangere, non è colpa mia.!” Prese allora un po’ d’acqua in un bicchiere, vi intinse un dito e lasciò cadere una grossa goccia che fece scolorire un poco l’inchiostro. Poi, quando volle sigillare la lettera, gli capitò sottomano il sigillo con il motto Amor nel cor.

«Non è molto adatto alla circostanza… Ah, cosa importa!»

Dopo di che fumò tre pipe e se ne andò a dormire.

L’indomani, appena si fu alzato, (verso le due, circa; aveva dormito fino a tardi), Rodolphe ordinò che cogliessero un paniere di albicocche. Nascose la lettera sul fondo, sotto le foglie di vite, e ordinò subito a Girard, il suo bracciante, di fare attenzione e di portarlo alla signora Bovary. Si serviva di questo sistema per corrispondere con lei mandandole, a seconda della stagione, frutta o selvaggina.

«Se ti domanda mie notizie,» disse «dirai che sono partito per un viaggio. Devi consegnare il paniere nelle sue mani. Va’ e bada di fare le cose come si deve.»

Girard si mise un camiciotto nuovo, annodò un fazzoletto intorno alle albicocche e, camminando a lunghi passi pesanti con le grosse scarpe chiodate, prese senza affrettarsi la via di Yonville.

La signora Bovary, quando egli arrivò, stava riordinando un mucchio di biancheria sulla tavola di cucina insieme con Félicité.

«Il padrone le manda questo» disse il contadino.

Emma si sentì afferrare dall’ansia, e, cercando qualche moneta in tasca, osservò il contadino con occhi selvaggi, mentre anche lui la guardava stupito, senza capire come un simile regalo potesse turbare tanto qualcuno. Finalmente se ne andò, ma Félicité rimase. Non riuscendo più a trattenersi, Emma corse nel tinello, con la scusa di portarvi le albicocche, rovesciò il paniere, strappò le foglie, trovò la lettera, l’aprì e, come se avesse alle spalle uno spaventevole incendio, fuggì atterrita in camera sua.

Vi trovò Charles, lo vide, lui le rivolse la parola senza che Emma capisse cosa le era stato detto; ella continuò pertanto a salire di corsa i gradini, ansimante, smarrita, ebbra, e sempre con quell’orribile foglio di carta fra le dita che faceva tanto rumore quanto un foglio di lamiera. Al secondo piano si fermò davanti alla porta accostata del solaio.

Cercò di calmarsi; si rammentò della lettera, doveva finire di leggerla e non ne aveva il coraggio. E poi, dove? Come fare per non farsi scorgere?

“Ecco, qui non mi vedrà nessuno” pensò. “Starò tranquilla.”

Spinse la porta ed entrò.

L’ardesia del tetto riverberava un calore greve che le serrò le tempie e la soffocò; si trascinò fino all’abbaino chiuso, tirò il catenaccio e di colpo la luce accecante dilagò.

Davanti a lei, al di là dei tetti, l’aperta campagna si stendeva a perdita d’occhio. Sotto, la piazza del villaggio era deserta. I ciottoli del marciapiede scintillavano, le banderuole delle case rimanevano immobili; all’angolo della strada, da un piano più basso, proveniva una sorta di ronzio con modulazioni stridenti. Era Binet, al tornio.

Si appoggiò al vano della finestra dell’abbaino e rilesse la lettera con risatine sarcastiche. Ma, quanto più cercava di concentrare la propria attenzione, tanto più le idee le si confondevano nella mente. Lo rivedeva, l’ascoltava, lo circondava con le braccia; i battiti del cuore le martellavano nel petto colpi d’ariete, accelerando a intervalli irregolari. Si guardò intorno, avrebbe voluto che il mondo crollasse. Perché non farla finita? Cosa la tratteneva? Era libera. Si sporse, guardando il selciato e dicendosi:

“Avanti! Fallo!”

Il raggio di luce che saliva diritto dal basso sembrava volesse attirare nel baratro il peso del suo corpo. Le parve che la superficie della piazza si sollevasse, oscillando, lungo i muri e che il pavimento si inclinasse da una parte come una nave che beccheggi. Si teneva afferrata ai bordi della finestra, quasi sospesa, circondata da un gran vuoto. Si sentiva fondere con l’azzurro del cielo, la testa leggera, come d’aria. Non doveva fare altro che cadere, lasciarsi andare. E il ronzio del tornio non desisteva, come una voce insistente che la chiamasse.

«Emma! Emma!» gridò Charles.

Si immobilizzò.

«Dove sei? Vieni!»

L’idea di essere appena sfuggita alla morte, per poco non la fece svenire di terrore; chiuse gli occhi, poi trasalì al contatto di una mano sul braccio: era Félicité.

«Il signore l’aspetta, signora. La minestra è in tavola.»

Dovette scendere! Dovette mettersi a tavola!

Cercò di mangiare, ma i bocconi la soffocavano. Spiegò il tovagliolo come se intendesse esaminarne i rammendi e volle davvero applicarsi al lavoro di contare i fili della tela. All’improvviso si ricordò della lettera. L’aveva perduta? Dove poteva essere? Sentì una stanchezza mentale così grande che non sarebbe stata in grado di inventare un pretesto qualsiasi per alzarsi da tavola. Era divenuta vile, oltretutto, aveva paura di Charles; certo sapeva ogni cosa. Infatti per una strana coincidenza disse:

«A quanto pare non rivedremo tanto presto il signor Rodolphe».

«Chi te l’ha detto?» trasalì Emma.

«Chi me l’ha detto?» rispose lui, un po’ stupito dal tono brusco della moglie «Girard, l’ho incontrato poco fa sulla porta del Caffè Francese. Deve partire o è già partito per un viaggio.»

Emma ebbe un singulto.

«Come mai ti stupisci? Si assenta di tanto in tanto, per distrarsi, e, perbacco, lo approvo. Quando uno è benestante e non ha moglie… Del resto si diverte allegramente l’amico! È un buontempone. Il signor Langlois mi ha raccontato…»

Tacque per convenienza, perché era entrata la domestica.

Quest’ultima dispose di nuovo nel paniere le albicocche sparse sulla credenza. Charles, senza accorgersi del rossore della moglie, se le fece portare, ne prese una e l’addentò.

«Oh! Ottime!» disse «Assaggiale.»

E tese il paniere, ma Emma lo respinse adagio.

«Senti che profumo!» disse Charles facendole passare ripetutamente un frutto sotto il naso.

«Soffoco!» gridò lei alzandosi di scatto.

Ma, grazie a uno sforzo della volontà, lo spasmo si sciolse.

«Non è niente» disse poi «Non è niente, sono i nervi. Siediti, e mangia!»

Temeva che le facessero domande, che volessero curarla, che non la lasciassero più in pace.

Charles, per non contrariarla, si era rimesso a sedere, e sputava in mano i noccioli di albicocca mettendoli poi nel piatto.

All’improvviso, un tilbury azzurro attraversò di gran carriera la piazza. Emma lanciò un grido e cadde irrigidita e riversa a terra

Rodolphe infatti, dopo molte riflessioni, si era deciso a partire per Rouen, e siccome non v’erano altre strade per andare dalla Huchette a Buchy se non quella che passava per Yonville, era stato costretto ad attraversare il villaggio ed Emma l’aveva riconosciuto alla luce delle lanterne che fendevano il crepuscolo come un lampo.

Il farmacista si precipitò nella casa del medico, attirato dalla confusione incredibile che vi regnava. La tavola con tutte le stoviglie era rovesciata, la salsa, la carne, i coltelli, la saliera, e l’oliera, tutto era sparso per la stanza; Charles chiedeva aiuto, Berthe spaventata, piangeva, e Félicité, con le mani tremanti, slacciava gli abiti alla padrona che aveva il corpo scosso da movimenti convulsi.

«Vado a prendere,» disse lo speziale «un po’ di aceto aromatico in laboratorio.»

Poi, siccome Emma, dopo aver annusato il flacone, riapriva gli occhi, disse:

«Ne ero certo, questo sveglierebbe un morto».

«Parla!» diceva Charles «Parla! Cerca di riprenderti! Sono qui io, il tuo Charles che ti ama! Mi riconosci? Guarda c’è la tua bambina: dalle un bacio!»

La bimba tese le braccine verso la madre per farsi prendere in collo, ma, voltando la testa, Emma disse con voce rotta:

«No… No… Nessuno».

E svenne di nuovo. La portarono a letto.

Emma vi rimase distesa, la bocca aperta, gli occhi chiusi, le mani posate immobili con i palmi in giù, pallida come una statua di cera. Dagli occhi, due rivoletti di lacrime scendevano adagio sul guanciale.

Charles rimaneva in piedi, in fondo all’alcova, e accanto a lui il farmacista serbava quel silenzio meditativo che conviene mantenere nelle occasioni più serie della vita.

«Si rassicuri,» disse il farmacista stringendogli il braccio «credo che il peggio sia passato.»

«Sì, sta riposando un poco adesso» rispose Charles guardando la moglie dormire. «Povera donna! Povera donna! Ha avuto una nuova ricaduta!»

Homais domandò allora in che modo si fosse sentita male. Charles rispose che la crisi l’aveva assalita d’improvviso mentre mangiava albicocche.

«Straordinario» rispose il farmacista. «È possibile che siano state le albicocche a provocare la sincope! Vi sono persone sensibilissime a certi odori! Sarebbe un interessante argomento di studio, sia dal punto di vista patologico sia da quello fisiologico. I preti ne conoscono l’importanza, infatti hanno sempre mescolato i profumi alle loro cerimonie. Lo fanno per ottundere l’intelletto e provocare uno stato d’estasi, cosa facile da ottenere nelle donne, che sono più delicate degli uomini. Ho sentito dire di donne che svengono all’odore del corno bruciato o del pane fresco…»

«Stia attento a non svegliarla,» disse sottovoce Bovary.

«E non soltanto gli esseri umani vanno soggetti a questi fenomeni,» continuò il farmacista «ma anche gli animali. Così, conoscerà benissimo l’effetto afrodisiaco prodotto dalla nepeta cataria volgarmente detta erba gattaria, sui felini; e d’altra parte, per citare un esempio che garantisco autentico, Bridoux (uno dei miei vecchi compagni di studi, attualmente stabilito in via Malpalu), possiede un cane che viene preso dalle convulsioni appena gli si fa annusare una tabacchiera. Spesso egli fa questo esperimento alla presenza degli amici, nella sua villetta al Bois Guillaume. Chi potrebbe credere che una semplice polvere per starnutire possa provocare tali sconvolgimenti nell’organismo di un quadrupede? È una cosa molto interessante, non è vero?»

«Sì» disse Charles, che non l’ascoltava.

«Questo dimostra» continuò l’altro, con un’aria di benigna sufficienza, «le stranezze senza fine del sistema nervoso. Per quanto concerne la signora, confesso che mi è sempre sembrata una vera sensitiva. Pertanto, non le consiglierei, amico mio, nessuno di quei pretesi rimedi che, con il pretesto di fare scomparire i sintomi, turbano il carattere. No, niente medicamenti inutili. Curare il regime, ecco tutto! Qualche sedativo, qualche emolliente o dolcificante. E non crede che sarebbe bene poter insistere sull’immaginazione?»

«E come?» domandò Bovary.

«Ah! Questo è il problema! Eh, sì: questo è il problema: That is the question!, come ho letto ultimamente sul giornale.»

Ma Emma, svegliandosi, gridò:

«E la lettera? La lettera?»

Credettero che delirasse. E lo ebbe effettivamente, il delirio, a partire dalla mezzanotte, quando si manifestò una febbre cerebrale.

Per quarantatré giorni, Charles non la lasciò un istante. Abbandonò tutti i suoi pazienti, non si coricò più, ogni momento le tastava il polso, le applicava senapismi, impacchi d’acqua fredda. Mandò Justin fino a Neufchâtel a prendere il ghiaccio, che si scioglieva strada facendo; e allora il poveretto tornava indietro a prenderne dell’altro. Chiamò a consulto il signor Canivet, fece venire da Rouen il dottor Larivière il suo vecchio maestro; era disperato. A spaventarlo soprattutto era lo stato di abbattimento di Emma: non parlava, non ascoltava nulla e perfino sembrava non soffrisse, come se il suo corpo e la sua anima si fossero riposate insieme di tutte le passate agitazioni.

Verso la metà di ottobre cominciò a essere in grado di mettersi a sedere sul letto, appoggiata ai guanciali. Charles pianse quando la vide mangiare per la prima volta una tartina con la marmellata. Stava riacquistando le forze, incominciò ad alzarsi per qualche ora nel pomeriggio e, un giorno in cui si sentiva meglio del solito, Charles provò a farle fare una passeggiatina in giardino, al suo braccio. La sabbia dei vialetti scompariva sotto le foglie morte. Emma camminava adagio, trascinando le pantofole e appoggiandosi con la spalla contro il marito; continuava a sorridere.

Andarono, così, fino in fondo al giardino, vicino alla terrazza. Emma si raddrizzò lentamente, riparandosi gli occhi con la mano per vedere meglio; scrutava lontano, il più lontano possibile: ma non v’erano che fuochi di paglia, all’orizzonte, che bruciavano sulle colline.

«Finirai per stancarti, cara» disse Bovary.

E la spingeva con dolcezza per guidarla sotto la pergola.

«Siediti sulla panca, starai comoda.»

«Oh! No! Là no, là no!» disse Emma con la voce fioca.

Si sentì male, e da quella sera la malattia ricominciò, ma con un andamento più incerto, per la verità, con sintomi più complessi. Talora era il cuore a farla soffrire poi il petto, la testa, gli arti; ebbe crisi di vomito che Charles interpretò come i primi sintomi di un cancro.

E il pover’uomo, come se non bastasse, aveva preoccupazioni finanziarie.

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.