Dic 152018
 

Innanzitutto non sapeva come disobbligarsi con il signor Homais di tutti i medicamenti che il farmacista aveva fornito; e sebbene come medico potesse esimersi dal pagare, si vergognava un po’ di averne approfittato. Le spese di casa, da quando la cuoca faceva da padrona, erano diventate spaventose; i conti piovevano da ogni parte, i fornitori borbottavano. Soprattutto il signor Lheureux lo assillava. Infatti, nel momento più grave della malattia di Emma, costui approfittò della circostanza per esigere il pagamento delle fatture: aveva consegnato il mantello, il nécessaire da notte, due bauli invece di uno e una quantità di altre cose. Charles ebbe un bel dire che non gli servivano; il mercante rispose con arroganza che tutti quegli articoli gli erano stati ordinati e che lui non intendeva riprenderseli. D’altro canto, questo avrebbe voluto dire contrariare la signora proprio nella convalescenza. Era meglio che il signor Bovary ci pensasse bene. Il signor Lheureux, in breve, era deciso ad adire le vie legali piuttosto che rinunciare ai suoi diritti e riprendersi le mercanzie. Charles, in seguito, dette ordine di riportare tutto al negozio. Félicité se ne dimenticò; il suo padrone aveva altre preoccupazioni; non ci pensarono più. Il signor Lheureux tornò alla carica e, a volte minacciando, a volte piangendo, tanto fece e tanto disse che Bovary fini con il firmargli una cambiale a sei mesi. Ma, non appena firmata questa cambiale, Charles ebbe un’idea audace: quella di farsi dare in prestito mille franchi dal signor Lheureux. Così, gli domandò, con aria imbarazzata, se non vi sarebbe stato modo di averli, aggiungendo che intendeva contrarre il debito per la durata di un anno, e al tasso che avrebbero stabilito. Lheureux corse alla bottega, portò gli scudi e dettò un’altra cambiale con la quale Bovary si impegnava a pagare all’ordine del signor Lheureux, in data primo settembre prossimo venturo, la somma di millesettanta franchi che, insieme con i centottanta già sottoscritti, faceva giusto milleduecentocinquanta franchi. Così, con il tasso del sei per cento, aumentato di un quarto per la commissione, e con le forniture che gli rendevano almeno un altro terzo, questo affare gli avrebbe fruttato in un anno, centotrenta franchi di utile. Inoltre Lheureux sperava che la cosa non si sarebbe fermata qui, e cioè che Bovary non potendo pagare la cambiale sarebbe stato costretto a rinnovarla, e in tal caso il suo povero denaro curato presso il medico come in una clinica, sarebbe ritornato a lui, un giorno, più grasso e cresciuto tanto da fare scoppiare il sacco.

Del resto tutto gli andava a gonfie vele. Gli era stata appena aggiudicata una fornitura di sidro per l’ospedale di Neufchâtel. Il signor Guillaumin gli aveva promesso azioni delle torbiere di Grumesnil, e dal canto suo, il mercante sognava di organizzare un nuovo servizio di diligenza, fra Arcueil e Rouen, che non avrebbe tardato a mandare in rovina quel trabiccolo del Leon d’Oro; infatti la nuova vettura, viaggiando più rapidamente, avrebbe potuto tenere i prezzi più bassi, nonché portare una maggiore quantità di bagaglio e in tal modo far sì che Lheureux riuscisse ad avere nelle proprie mani tutto il traffico commerciale di Yonville.

Charles si domandò più volte in che modo sarebbe riuscito l’anno successivo, a restituire tanto danaro; cercava di studiare qualche espediente, come ricorrere a suo padre o vendere qualcosa. Ma suo padre sarebbe stato sordo alle richieste, e lui non aveva niente da vendere. Si rendeva conto allora di essersi messo in un bel pasticcio e preferiva distogliere la mente da meditazioni così sgradevoli. Si rimproverava di dimenticare Emma, quasi ritenesse, dato che tutti i suoi pensieri le appartenevano, di defraudarla di qualcosa smettendo, anche soltanto per poco, di pensare a lei.

L’inverno fu rigido. La convalescenza della signora Bovary si protrasse a lungo. Quand’era bel tempo, la spingevano sulla poltrona accanto alla finestra, quella che guardava sulla piazza, perché adesso aveva in antipatia il giardino e la persiana, da quella parte, restava sempre chiusa. Emma volle che il cavallo fosse venduto, tutto ciò che un tempo prediligeva, ora pareva dispiacerle. Tutti i suoi pensieri sembravano limitarsi alla cura di se stessa. Restava a letto a fare spuntini, chiamava la domestica per informarsi sulle tisane o per chiacchierare con lei. La neve sulla tettoia del mercato proiettava nella camera un riflesso bianco, immobile; poi cominciarono le piogge. Ed Emma aspettava ogni giorno, con una specie di ansia, l’infallibile ripetersi dei piccoli avvenimenti quotidiani, dei quali in realtà non le importava nulla. Il più importante era l’arrivo della Rondine, ogni sera. L’albergatrice gridava, altre voci rispondevano, mentre la lanterna di Hippolyte, il quale stava cercando i bagagli sul tetto della diligenza, palpitava come una stella nell’oscurità. A mezzogiorno Charles rientrava, poi usciva di nuovo; più tardi Emma prendeva un brodo e verso le cinque, quando il giorno moriva, i ragazzi, tornando dalla scuola, trascinavano gli zoccoli sul marciapiede e battevano, uno dopo l’altro, la riga contro il saliscendi delle imposte.

A quell’ora don Bournisien veniva a farle visita. Si informava sulla sua salute, le raccontava le novità, l’esortava ad aver fede in Dio, con chiacchiere un po’ leziose, ma non del tutto sgradevoli. Soltanto la vista della sua tonaca bastava perché Emma si sentisse confortata.

Un giorno credette di essere agonizzante, tanto si sentiva male, e chiese di fare la Comunione; e, a mano a mano che venivano fatti nella camera i preparativi perché la malata potesse ricevere il sacramento, mentre veniva allestito un altare sul cassettone ingombro di medicine, e Félicité spargeva per terra fiori di dalia, Emma sentì qualcosa di possente passare su di sé, qualcosa che la liberava dai suoi dolori, da ogni percezione, da ogni sentimento. Il suo corpo, alleviato, sembrava non esistere più, incominciava per lei un’altra vita; sentiva tutto il suo essere, in ascesa verso Dio, annientarsi in questo amore come l’incenso acceso si dissolve in fumo. Aspersero d’acqua benedetta la coperta del letto; il sacerdote tolse dal Santo Ciborio la candida Ostia e, in un’estasi di gioia celeste, Emma sporse le labbra per accettare il corpo del Salvatore che le veniva offerto. Le tendine dell’alcova si gonfiavano intorno a lei mollemente, come nuvole, le fiammelle le apparivano come aureole abbaglianti. Allora lasciò ricadere la testa, convinta di sentire negli spazi infiniti il suono delle arpe serafiche e di intravvedere nel cielo azzurro, su un trono d’oro, in mezzo ai santi con le verdi palme in mano, Dio Padre che in tutto lo splendore della sua maestà, con un gesto faceva scendere sulla terra angeli dalle ali di fiamma per portarla via fra le loro braccia.

Questa splendida visione rimase nella sua memoria come il sogno più meraviglioso che avesse mai sognato; e continuava a sforzarsi di ricreare quella sensazione, che percepiva ancora, ma in una maniera meno esclusiva, sebbene con una dolcezza altrettanto profonda. La sua anima, sfinita dall’orgoglio, si riposava alfine nell’umiltà cristiana, e, assaporando il piacere d’essere debole, Emma contemplava in se stessa la distruzione della propria volontà, spalancando tutte le porte all’invasione della grazia. Esisteva dunque, in luogo della felicità, una beatitudine più grande, un amore superiore a tutti gli altri, un amore ininterrotto e senza fine, che si accresceva eternamente! Emma intuiva, fra le illusioni del suo spirito, una condizione di purezza, fluttuante al di sopra della terra, e fondentesi con il cielo, che andava a raggiungere. Voleva divenire santa, e comperò rosari, si mise addosso medagliette, desiderò avere al capezzale del letto un reliquiario incrostato di smeraldi, per baciarlo tutte le sere.

Il curato ammirava questi atteggiamenti, sebbene ritenesse la religione di Emma incline a sfiorare, a forza di fervore, l’eresia e addirittura la stravaganza. Ma, non essendo troppo versato in questi argomenti, quando superavano certi limiti, scrisse al signor Boulard, libraio del vescovo di mandargli qualche testo molto noto per una signora intelligentissima. Il libraio, con la stessa indifferenza con cui avrebbe mandato chincaglierie ai negri, fece un pacco scegliendo alla rinfusa fra tutto ciò che si vendeva in quel momento in fatto di religione. V’erano catechismi, libelli di tono aspro, alla maniera di quelli di de Maistre, e delle specie di romanzi rilegati in rosa, dallo stile dolciastro, sfornati da menestrelli di seminario o da una scribacchina pentita. V’erano Pensateci bene; L’uomo di mondo ai piedi di Maria, di ***, decorato con onorificenze varie; Degli Errori di Voltaire, a uso dei giovani, eccetera.

La signora Bovary non aveva ancora la mente abbastanza chiara per potersi applicare seriamente a una cosa qualsiasi, e inoltre intraprese queste letture con troppa precipitazione. Si irritò contro le prescrizioni del culto; l’arroganza degli scritti polemici le dispiacque per l’accanimento nel perseguitare persone che non conosceva, e i racconti profani, imbottiti di religione, le sembravano scritti con una tale ignoranza della vita da allontanarla a poco a poco dalle verità di cui si aspettava una conferma. Tuttavia non desistette e, quando lasciava cadere il libro, si sentiva pervasa dalla più soave malinconia cattolica che un’anima eletta possa concepire.

Per quanto concerneva il ricordo di Rodolphe, Emma lo aveva riposto nel più profondo del cuore e là esso rimaneva, più solenne di una mummia reale in un sotterraneo. Un’esalazione sfuggiva da questo grande amore imbalsamato, e, passando attraverso tutta l’anima sua, profumava di tenerezza l’atmosfera di candore nella quale Emma intendeva vivere. Quando pregava sull’inginocchiatoio gotico, Emma indirizzava al Signore le stesse parole soavi che aveva mormorato un tempo all’amante, nelle effusioni dell’adulterio. Faceva così per stimolare la sua fede, ma siccome nessun appagamento discendeva dai cieli, si alzava con le membra stanche e con il vago sospetto di un immenso inganno. Questi tentativi, pensava, erano un merito di più, e, nell’orgoglio della sua devozione, Emma si paragonava alle grandi dame di un tempo, delle quali aveva sognato la gloria in un ritratto della signora La Vallière; quelle dame che, trascinando con tanta maestà lo strascico pieno di fronzoli delle loro lunghe vesti, si ritiravano negli eremi per spandere ai piedi del Cristo tutte le lacrime di un cuore ferito dalla vita.

Si dedicò allora a eccessi di carità. Cuciva abiti per i poveri, mandava legna alle donne che stavano per partorire e un giorno Charles, rientrando, trovò tre poco di buono in cucina a mangiare la minestra. Emma fece tornare a casa la bambina, che il marito, durante la sua malattia, aveva rimandato dalla balia. Volle insegnarle a leggere; Berthe aveva un bel piangere, sua madre non si irritava più. Era una rassegnazione per partito preso, un’indulgenza universale. Si serviva di un linguaggio pieno di espressioni fiorite per qualsiasi argomento. Diceva alla bambina:

«Ti è passata la colica, angelo mio?»

La signora Bovary madre non trovava niente a ridire, salvo forse per quanto concerneva quella mania di confezionare camiciole per gli orfani invece di rammendare gli stracci di casa. Ma, spossata dai litigi domestici, la brava donna stava volentieri in questa casa tranquilla e vi rimase addirittura fino a Pasqua, per evitarsi i sarcasmi di papà Bovary, il quale, tutti i venerdì santi, non mancava mai di ordinare un salsicciotto.

Oltre alla compagnia della suocera, che la incoraggiava un po’ con la rettitudine dei giudizi e i modi austeri, Emma quasi tutti i giorni riceveva visite. Venivano a trovarla la signora Langlois, la signora Caron, la signora Dubreuil, la signora Tuvache, e, con regolarità, dalle due alle cinque, l’ottima signora Homais, che non volle mai credere a nessuno dei pettegolezzi messi in giro sul conto della vicina. Anche i piccoli Homais venivano a trovarla. Li accompagnava Justin. Saliva con loro nella stanza e restava in piedi, vicino alla porta, immobile e senza parlare. Spesso accadeva perfino che la signora Bovary, senza curarsi di lui, si accingesse a pettinarsi. Cominciava con il togliersi il pettine, scotendo la testa con un movimento brusco; e quando Justin vide per la prima volta quella chioma che scendeva fino ai ginocchi sciogliendo i suoi anelli neri per il povero ragazzo fu come entrare d’improvviso in qualcosa di straordinario e di mai visto, il cui splendore lo spaventava.

Emma non si accorgeva certo delle silenziose premure né della timidezza di Justin. Non sospettava che l’amore, scomparso ormai dalla propria vita, palpitasse tanto vicino a lei, sotto una camicia di grossa tela, in un cuore d’adolescente sensibile al fascino della sua bellezza. D’altra parte, Emma considerava ormai ogni cosa con una indifferenza tanto grande, aveva parole tanto affettuose, e sguardi tanto alteri, modi al contempo così diversi, che non era più possibile distinguere fra l’egoismo e la carità, o fra la corruzione e la virtù. Una sera, per esempio, si adirò con la domestica che le chiedeva di uscire, balbettando e cercando un pretesto; poi di colpo le domandò:

«Ma tu lo ami?»

E, senza aspettare la risposta di Félicité, ch’era diventata tutta rossa, aggiunse con aria triste:

«Allora corri! Divertiti!»

All’inizio della primavera, fece buttare all’aria tutto il giardino, da cima a fondo, a dispetto del parere contrario di Bovary, il quale fu ugualmente soddisfatto di vederla manifestare finalmente una qualsiasi volontà. Ed ella si dimostrò sempre più volitiva a mano a mano che si ristabiliva. Trovò innanzitutto la maniera di liberarsi di mamma Rollet, la balia, che durante la malattia di Emma aveva preso l’abitudine di venire troppo spesso in cucina con i suoi due lattanti e il pensionante vorace più d’un cannibale. Poi si svincolò dalla famiglia Homais, congedò una alla volta tutte le altre visitatrici, e frequentò perfino con minore assiduità la chiesa, pienamente approvata dal farmacista, che le disse allora in tono amichevole:

«Stava proprio diventando un po’ bigotta!»

Don Bournisien, come sempre, veniva tutti i giorni, all’uscita dal catechismo. Preferiva restare in piedi a prendere aria in mezzo al boschetto, come chiamava la pergola. Era l’ora in cui Charles di solito rientrava. Entrambi soffrivano il caldo, si facevano portare del sidro dolce e insieme bevevano alla completa guarigione della signora Bovary.

C’era anche Binet, o meglio si trovava un pochino più in basso, contro il muro della terrazza a pescare i gamberi. Bovary lo invitava a dissetarsi e lui era bravissimo nello sturare bottiglie.

«Bisogna» diceva, volgendo tutt’intorno, fino all’estremo orizzonte, uno sguardo soddisfatto «tenere così la bottiglia, ben diritta sulla tavola, e, dopo aver tagliato le cordicelle, spingere il tappo a piccoli colpi, adagio, adagio, come fanno del resto con l’acqua di seltz nei ristoranti.»

Ma il sidro, durante questa dimostrazione, spesso sprizzava loro in pieno viso e allora il sacerdote, con una risatina priva di vivacità; non risparmiava loro questa battuta:

«La sua bontà salta agli occhi».

In realtà era un brav’uomo, e un giorno addirittura non si scandalizzò quando il farmacista consigliò a Charles, per distrarre la moglie, di accompagnarla al teatro di Rouen a sentire cantare Lagardy, il notissimo tenore. Homais rimase strabiliato da questo silenzio, volle conoscere l’opinione del parroco e il prete dichiarò che, a suo parere, la musica era meno pericolosa per i costumi della letteratura.

Lo speziale allora prese le difese delle belle lettere. Il teatro, affermava, colpisce i pregiudizi e, sotto le apparenze del divertimento, insegna la virtù.

«Castigat ridendo mores, don Bournisien! Prendiamo la maggior parte delle tragedie di Voltaire: sono abilmente disseminate di riflessioni filosofiche che ne fanno una vera e propria scuola di morale e di saper vivere per gli spettatori.»

«Io» disse Binet «ho visto una volta una commedia intitolata Il monello di Parigi, nella quale è posto in risalto il carattere di un vecchio generale che è davvero centrato. Egli rimbrotta un giovanotto di buona famiglia, seduttore di un’operaia che alla fine…»

«Sicuro,» continuò Homais «c’è la cattiva letteratura così come esistono farmacisti incompetenti, ma condannare in blocco la più importante delle belle arti mi sembra una balordaggine, una idea medioevale, degna dei tempi abominevoli in cui imprigionarono Galileo.»

«Sono d’accordo che esistono buoni autori e buone opere,» disse il curato «ma tutte queste persone di sesso diverso riunite in un locale piacevole, adorno di lussi mondani, tutti quegli artifici pagani, i belletti, le luci, le voci effeminate, tutto ciò, deve per forza di cose dar luogo a un certo spirito di libertinaggio e suggerire pensieri sconvenienti, tentazioni impure. Questa è l’opinione di tutti i Padri della Chiesa. E poi,» soggiunse, assumendo a un tratto un tono di voce mistico, mentre faceva rotolare sul pollice una presa di tabacco «se la Chiesa condanna gli spettacoli, vuol dire che ha le sue buone ragioni; bisogna sottomettersi ai suoi decreti»

«Perché» domandò il farmacista «scomunica gli attori? Un tempo essi avevano parte attiva nelle cerimonie del culto. Sì, recitavano, rappresentavano, nel coro, delle specie di commedie chiamate misteri, nelle quali le leggi della decenza spesso venivano offese.»

Il sacerdote si contentò di emettere un gemito e il farmacista continuò:

«È come nella Bibbia; vi sono… lo sa… non pochi particolari… piccanti, delle cose… veramente… forti!»

E, a un gesto di irritazione di don Bournisien:

«Ah! Converrà che non è certo un libro da mettere nelle mani di un’adolescente, e io mi seccherei molto se Athalie…»

«Ma sono i protestanti, e non noi, a raccomandare la Bibbia» gridò l’altro, spazientito.

«Non importa,» disse Homais «mi stupisco che, al giorno d’oggi, in un secolo illuminato, ci si ostini ancora a proibire uno svago intellettuale inoffensivo moralista e talora addirittura igienico, non è vero, dottore?»

«Certo» rispose il medico, con indifferenza, quasi che, avendo le stesse idee, non volesse offendere nessuno, oppure, non avesse idee affatto.

L’argomento sembrava chiuso, quando il farmacista giudicò opportuno sferrare un ultimo colpo.

«Ho conosciuto dei preti che si mettevano in borghese per andare a veder sgambettare le ballerine.»

«Andiamo!» esclamò il curato.

«Ne ho conosciuti!»

E, sillabando le parole, Homais ripeté:

«Ne ho co-no-sciu-ti!»

«E va bene, facevano malissimo!» disse don Bournisien, rassegnato a tutto.

«Perbacco! E fanno ben altro!» esclamò lo speziale.

«Signore!…» disse il sacerdote con occhi così feroci che il farmacista ne fu intimidito.

«Volevo soltanto dire» continuò Homais in tono meno violento «che la tolleranza è il metodo più sicuro per attirare le anime alla religione.»

«Questo è vero! Questo è vero!» concesse il brav’uomo rimettendosi a sedere.

Ma non si trattenne più di due minuti. Quando se ne fu andato, il signor Homais disse al medico:

«Ecco quello che io chiamerei un battibecco. Ma l’ho messo con le spalle al muro, l’ha visto, e in che modo!… Insomma, dia retta a me: conduca sua moglie allo spettacolo, non fosse altro che per fare stizzire, una volta nella vita, uno di quei corvi, perbacco! Se ci fosse qualcuno a sostituirmi, vi accompagnerei io stesso. Si sbrighi! Lagardy darà una sola rappresentazione; è stato scritturato per andare in Inghilterra con retribuzioni considerevoli. A quanto affermano, è un gran dritto! Nuota nell’oro! Si porta dietro tre amanti e un cuoco! Tutti questi grandi artisti accendono la candela da tutt’e due le parti; hanno bisogno di un’esistenza disordinata che serve a eccitare l’immaginazione. Ma finiscono all’ospizio perché non hanno il buon senso di fare delle economie quando sono giovani. Bene, andiamo, buon appetito; a domani».

Questa idea dello spettacolo mise radici in fretta nella mente di Bovary; egli lo comunicò subito alla moglie, che dapprima rifiutò, adducendo come scusa la stanchezza, lo scompiglio, la spesa; ma, cosa strana, Charles non cedette, convinto che questa distrazione le sarebbe stata di grandissimo giovamento. Non vedeva proprio alcun impedimento all’attuazione di questo progetto; la madre gli aveva mandato trecento franchi sui quali non contava più, i suoi debiti in quel momento non erano enormi e la scadenza della cambiale del signor Lheureux sembrava ancora così lontana che non era il caso di preoccuparsene. D’altro canto, immaginando che Emma si facesse degli scrupoli, Charles insistette ancora, e lei, ossessionata, finì per decidersi. E il giorno dopo alle otto salirono sulla Rondine.

Il farmacista il quale non aveva nulla che lo trattenesse a Yonville, ma che si credeva costretto a non potersene allontanare, sospirò vedendoli partire.

«Bene, buon viaggio,» disse loro «felici mortali!»

Poi, avvicinandosi a Emma, che indossava un abito di seta azzurra a quattro volanti, aggiunse:

«È bella come un amore! Farà furori a Rouen».

La diligenza faceva capo all’albergo della Croce Rossa, sulla piazza Beauvoisine. Era uno di quegli alberghi come ce ne sono in tutte le periferie delle città di provincia, con grandi scuderie e piccole camere da letto, con un cortile in mezzo al quale è possibile vedere le galline bezzicare l’avena sotto i calessi infangati dei commessi viaggiatori; cari vecchi alberghi dai balconi di legno tarlato che scricchiolano al vento nelle notti d’inverno, sempre pieni di gente, di strepito, e di cibi pronti, le cui tavole nere sono sempre sbrodolate di caffè all’acquavite; alberghi con i vetri spessi ingialliti dalle mosche, con i tovaglioli umidi macchiati di vino nero; alberghi che sanno sempre di paese, come braccianti vestiti con abiti cittadini, e hanno un caffè sulla strada, e, sul retro, verso la campagna, un orto. Charles si diede subito un gran da fare. Confuse il proscenio con la galleria, la platea con i palchi, domandò spiegazioni, non ci capì niente, fu mandato dalla maschera e dal direttore e viceversa, tornò all’albergo, e di nuovo alla biglietteria, e ripeté più volte quest’andirivieni: misurò tutta la città dal teatro

La signora si comperò un cappello, un paio di guanti e un mazzo di fiori. Il signore si preoccupava molto di non arrivare in tempo per lo spettacolo; e, senza aver potuto nemmeno ingoiare un brodo, giunsero alle porte del teatro quando erano ancora chiuse.

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.