Ott 272018
 

L’indomani fu per Emma una giornata tristissima. Tutto le sembrava avvolto da una nera atmosfera che galleggiasse confusamente sulla superficie delle cose e il dolore si ingolfava nella sua anima con fiochi ululati come fa il vento d’inverno in un castello abbandonato. Era il dolore causato dal fantasticare su qualcosa che sapeva di sicuro non sarebbe più tornato, dalla stanchezza che prende di fronte al fatto compiuto, quello stesso dolore che si può provare all’interruzione di ogni moto abituale, al brusco arresto di una vibrazione prolungata.

Come al ritorno dalla Vaubyessard, quando le quadriglie le turbinavano nella mente, anche questa volta fu presa da una malinconia cupa, da una sorda disperazione. Léon aveva acquistato ai suoi occhi una nuova dimensione, era più bello più dolce, e nello stesso tempo meno ben definito; benché si trovasse lontano da lei, non l’aveva lasciata, era là e le pareti della casa sembravano custodire la sua ombra. Non riusciva a distogliere gli occhi dal tappeto ch’egli aveva calpestato, da quelle poltrone vuote sulle quali si era seduto. Il fiume continuava a scorrere e a lambire con piccole onde l’argine scivoloso. Quante volte avevano passeggiato lungo la riva, ascoltando questo stesso mormorio delle acque sui sassi coperti di musco! Quante giornate di sole avevano goduto insieme! Quanti pomeriggi, soli, all’ombra, in fondo al giardino! Léon leggeva a voce alta, il capo scoperto, seduto su un rustico sgabello, e il vento fresco che giungeva dai grandi prati faceva tremare le pagine del libro e i nasturzi della pergola. Ah! Se n’era andato e rappresentava per lei la sola attrattiva della vita, la sola speranza di una possibile felicità! Come aveva potuto lasciarsi sfuggire una simile fortuna quando si era presentata? Perché non l’aveva trattenuto con tutte le sue forze, in ginocchio, quando aveva voluto andarsene? Si maledisse per non aver amato Léon, ed ebbe sete delle sue labbra. Si sentì presa dal desiderio di precipitarsi a raggiungerlo, di gettarsi nelle sue braccia dicendogli: «Eccomi, sono tua!» Ma Emma si sgomentava in anticipo, davanti alle difficoltà dell’impresa e i suoi desideri, accresciuti dal rimpianto, diventavano sempre più pressanti.

Da quel momento il ricordo di Léon fu come un centro intorno al quale gravitava tutta la sua noia; risplendeva più di un fuoco abbandonato dai viaggiatori, in mezzo alla neve, in una steppa russa. Emma se ne sentiva attratta, vi si rannicchiava contro, attizzava delicatamente questo focolare ormai vicino a spegnersi, cercando intorno a sé quello che avrebbe potuto ancora ravvivarlo. Le reminiscenze più lontane come gli avvenimenti più prossimi, quello che provava e quello che immaginava, le sue brame di voluttà che si dissolvevano, i progetti di felicità che si spezzavano come rami morti al vento, la sua sterile virtù, le speranze cadute, lo strame ch’era la vita domestica, tutto raccoglieva, tutto prendeva e utilizzava per tenere in caldo la propria tristezza.

A poco a poco le fiamme si placarono, forse perché il combustibile si andava esaurendo, oppure per un accumulo eccessivo dello stesso. L’assenza dell’oggetto amato fece sì che l’amore si estinguesse, un po’ alla volta; il rimpianto fu soffocato dall’abitudine e quella luce d’incendio che imporporava il suo pallido cielo si coprì sempre più d’ombra e gradatamente scomparve. Nel torpore della sua coscienza scambiò la ripugnanza per il marito per una bramosia nei confronti dell’amato, le fiamme dell’odio per l’ardore della tenerezza; ma poiché l’uragano infuriava sempre, senza che il sole apparisse neppure per un istante, e la passione continuava a consumarle l’anima fino alle ceneri, senza che vi fosse per lei alcun soccorso possibile, le scese intorno la notte più fonda. Si sentì immersa in un gelo che la penetrava tutta.

I tristi giorni di Tostes ricominciarono. Si sentiva ora assai più disgraziata, aveva vissuto l’esperienza del dolore ed era convinta che tale dolore non avrebbe più avuto fine.

Una donna capace di tali sacrifici poteva anche consentirsi qualche capriccio. Acquistò un inginocchiatoio gotico, sperperò in un mese quattordici franchi in limoni per rendere candide le proprie mani e scrisse a Rouen perché le mandassero un abito di cachemire azzurro; scelse, fra quelle che Lheureux le aveva mostrato, la più bella sciarpa; l’adoperava per annodarla alla vita, sopra la vestaglia, e, così camuffata, rimaneva distesa, leggendo un libro, sul divano, nella stanza dalle persiane sempre accostate.

Spesso cambiava pettinatura: si acconciava i capelli alla cinese, in morbidi riccioli, in trecce avvolte a chiocciola sugli orecchi, e si fece la scriminatura da una parte, piegandoli in sotto come gli uomini.

Volle imparare l’italiano: comperò dizionari, una grammatica, una provvista di fogli bianchi. Provò a leggere libri di storia e di filosofia. A volte, la notte, Charles si svegliava di soprassalto credendo che lo stessero chiamando per una visita.

«Vado» balbettava.

E poi si accorgeva che era soltanto il rumore del fiammifero strofinato da Emma per accendere la lampada. Ma accadde per le letture quello che già era accaduto ai lavori di ricamo i quali ingombravano l’armadio, tutti cominciati ma nessuno terminato. Emma ne prendeva uno per lasciarlo ben presto da parte e iniziarne uno nuovo.

Aveva crisi durante le quali sarebbe stato facile spingerla a commettere stravaganze. Un giorno sostenne con il marito che sarebbe stata capace di bere un bicchiere pieno a metà di acquavite e siccome Charles commise la sciocchezza di sfidarla, Emma lo vuotò fino all’ultima goccia.

A dispetto della sua aria svaporata (come dicevano i cittadini di Yonville), Emma non aveva un aspetto allegro: gli angoli della bocca erano segnati da quelle pieghe amare che caratterizzano il viso delle anziane zitelle e degli ambiziosi decaduti.

Era sempre molto pallida, bianca come un cencio, con i lineamenti tesi e gli occhi che guardavano tutto con uno sguardo vacuo. Dopo essersi scoperta tre capelli grigi sulle tempie, cominciò a parlare di vecchiaia.

Spesso sveniva; un giorno ebbe perfino uno sbocco di sangue. Charles si spaventò e lasciò trasparire la sua inquietudine.

«Ah!» disse Emma «che importanza ha?»

Charles andò a chiudersi nello studio e pianse con i gomiti appoggiati sullo scrittoio, seduto sulla poltrona da ufficio, sotto la testa per gli studi di frenologia. Scrisse alla madre, pregandola di venire, e le loro lunghe conversazioni ebbero Emma come costante argomento. Quali decisioni prendere? Che cosa potevano fare, dal momento che ella rifiutava ogni cura?

«Sai cosa ci vorrebbe per tua moglie?» diceva la signora Bovary madre «Dovrebbe avere delle incombenze che fosse obbligata a svolgere, delle occupazioni materiali! Se fosse costretta a guadagnarsi il pane, non avrebbe tempo per tutte quelle fantasie suggerite dalle innumerevoli idee che le frullano per la testa e dall’inattività in cui vive.»

«Eppure è molto occupata» ribatteva Charles.

«Occupata a far cosa? A leggere romanzi, cattivi libri, opere contro la religione, nelle quali ci si burla dei preti con idee prese da Voltaire. Tutto questo porta lontano, ragazzo mio, e chi non ha religione finisce sempre per imboccare una cattiva strada.»

Venne deciso allora di impedire a Emma di leggere romanzi. L’impresa non sembrava facile. Se ne incaricò la buona signora. La prima volta che fosse passata da Rouen, doveva andare personalmente dal bibliotecario e comunicargli che la nuora intendeva disdire gli abbonamenti. Non era, del resto, loro diritto rivolgersi alla polizia se questo signore avesse continuato ugualmente nella sua opera corruttrice?

I saluti fra suocera e nuora furono gelidi. Durante le tre settimane in cui erano state insieme, non avevano scambiato quattro parole, escluso qualche ragguaglio e i convenevoli quando si incontravano a tavola o la sera prima di andare a dormire.

L’anziana signora Bovary se ne andò un mercoledì, giorno di mercato a Yonville.

La piazza, fin dal mattino, era ingombra di carretti con le stanghe in aria che formavano file lungo le case, dalla chiesa fino all’albergo. Dall’altro lato c’erano banchetti coperti di teloni, ove si vendevano cotonine, coperte, calze di lana, cavezze per cavalli, e nastri azzurri avvolti su se stessi, ma con un’estremità svolazzante al vento. Ammucchiati per terra si trovavano oggetti metallici d’uso casalingo, fra le piramidi di uova e i panieri del formaggio dai quali sbucavano fili di paglia attaccaticci; accanto alle trebbiatrici starnazzavano le galline, chiuse in gabbie basse fra le sbarre delle quali facevano passare la testa. La folla si accalcava in un punto solo senza accennare a spostarsi, minacciando a volte di sfondare la vetrina della farmacia. Questa, il mercoledì, era sempre gremita, non tanto perché la gente comperasse medicinali, quanto perché tutti chiedevano consigli di carattere medico al signor Homais, la cui fama era grandissima nei villaggi del circondario. La sua incrollabile sicumera aveva affascinato i villici. Vedevano in lui un medico ineguagliabile, il più bravo di tutti.

Emma era affacciata alla finestra (ci si metteva spesso: le finestre, nei paesi, sostituiscono la passeggiata e il teatro), e si divertiva a osservare la ressa dei contadini, quando scorse un signore che indossava una finanziera di velluto verde. Portava guanti gialli, benché calzasse grosse uose, e si dirigeva verso l’abitazione del medico, seguito da un contadino che camminava a testa bassa con aria molto assorta.

«Potrei vedere il medico?» domandò a Justin, che chiacchierava sulla soglia con Félicité, scambiandolo per il domestico «Ditegli che c’è il signor Rodolphe Boulanger de la Huchette.»

Non per campanilismo il nuovo arrivato aveva aggiunto al proprio nome il ‘de la Huchette’, ma soltanto per farsi meglio riconoscere. La Huchette era infatti una tenuta nei dintorni di Yonville, ed egli ne aveva acquistato il castello e due fattorie delle quali si occupava personalmente, senza però darsi troppo da fare. Era scapolo e si diceva che avesse una rendita di quindicimila franchi!

Charles entrò nello studio. Il signor Boulanger gli presentò il proprio famiglio che desiderava essere salassato poiché soffriva di formicolii in tutto il corpo.

«Mi servirà da depurativo» ribatteva a ogni obiezione.

Bovary cominciò col preparare una benda e una bacinella, e pregò Justin di reggerla. Poi si avvicinò al contadino che era già impallidito:

«Non abbia paura, giovanotto».

«No, no,» rispose l’altro «faccia pure!»

E, con aria spavalda, tese il braccio muscoloso. Il sangue sprizzò quando la lancetta incise la pelle e andò a imbrattare lo specchio.

«Avvicina la bacinella!» esclamò Charles.

«Ma guarda!» disse il contadino «sembra proprio una fontanella! Che sangue rosso ho! Dovrebbe esser buon segno, no?»

«A volte non sentono niente a tutta prima,» commentò l’ufficiale sanitario «poi è facile che si manifesti una sincope, e di solito in individui robusti come costui.»

A queste parole il contadino lasciò cadere l’astuccio che rigirava fra le dita. Con un sussulto delle spalle fece scricchiolare lo schienale della sedia e gli cadde il cappello.

«Me lo aspettavo» disse Bovary premendo un dito sulla vena.

La bacinella incominciò a tremare nelle mani di Justin; gli si piegarono sotto le ginocchia e diventò sempre più pallido.

«Emma! Emma!» chiamò Charles.

Emma scese le scale d’un balzo.

«Dell’aceto!» gridò il marito «Santo Cielo, due alla volta.»

E, per l’agitazione, non riusciva a bendare il braccio.

«Non è nulla» disse tranquillamente il signor Boulanger, prendendo Justin fra le braccia.

Lo mise seduto sul tavolo, con le spalle appoggiate alla parete.

La signora Bovary gli slacciò la cravatta. Si formò un nodo nei cordoncini della camicia: ella dovette armeggiare per qualche istante con dita leggere sul collo del ragazzo, poi versò un po’ di aceto sul fazzoletto di batista e con esso gli tamponò leggermente le tempie, soffiandoci sopra con delicatezza.

Il contadino tornò in sé, ma lo svenimento di Justin durava ancora e le pupille non si vedevano più, restava visibile soltanto la cornea, scialba come fiori azzurri nel latte.

«Sarebbe bene non fargli vedere questa roba» disse Charles.

La signora Bovary prese la bacinella per metterla sotto il tavolo; chinandosi fece un movimento che le allargò la veste tutto intorno, sulle piastrelle dello studio (indossava un abito estivo a quattro balze, giallo, con la vita lunga e la gonna ampia); e mentre, chinata, vacillava un poco allargando le braccia, l’arricciatura della stoffa si apriva di qua e di là, secondo l’inclinazione del busto. La signora Bovary andò poi a prendere una bottiglietta d’acqua, e stava facendovi sciogliere alcune zollette di zucchero, quando arrivò il farmacista. La domestica, durante il trambusto, era andata a chiamarlo; vedendo l’allievo in queste condizioni, ma con gli occhi aperti, Homais tirò un fiato. Poi, girandogli intorno, lo guardò dall’alto in basso.

«Stupidone,» gli diceva «grosso sciocco, sciocco a lettere maiuscole! Gran cosa una flebotomia! Un bravaccio che non ha paura di niente, una specie di scoiattolo, come tutti sanno, che sale ad altezze vertiginose per bacchiare le noci. Ah! Sì! Chiacchiera, vantati! Bella dimostrazione di quanto sei adatto a esercitare a suo tempo la farmacia; potrà capitarti di essere chiamato per gravi circostanze, in tribunale, allo scopo di illuminare la coscienza dei magistrati, e in quei casi sarà necessario conservare il sangue freddo, ragionare, essere uomini, oppure passare per imbecilli!»

Justin non rispondeva. Lo speziale continuò:

«Chi ti ha pregato di venire? Importuni sempre i signori Bovary! Oltre tutto, il mercoledì la tua presenza mi è più necessaria che mai. Ci sono adesso in bottega almeno venti persone. Ho abbandonato ogni cosa perché ti sono affezionato. Avanti, vattene di corsa! Aspettami e bada ai boccali!»

Quando Justin ebbe terminato di rivestirsi e se ne fu andato, gli altri rimasero un poco a parlare di svenimenti. La signora Bovary non ne aveva mai sofferto.

«È una cosa straordinaria, per una signora!» disse il signor Boulanger «E del resto, vi sono persone molto sensibili. Ho visto io stesso, in un duello, un padrino svenire soltanto al rumore delle pistole che venivano caricate.»

«Per quanto mi riguarda,» disse lo speziale «la vista del sangue altrui mi lascia del tutto indifferente; ma la sola idea che anche il mio possa scorrere sarebbe sufficiente, se vi pensassi con intensità, a farmi svenire.»

Intanto il signor Boulanger aveva congedato il proprio famiglio incoraggiandolo a tranquillizzarsi, visto che il malore era passato.

«Mi ha procurato inoltre il piacere di fare la sua conoscenza» soggiunse, e così dicendo, guardava Emma

Mise poi tre franchi sull’angolo della tavola, salutò in fretta e se ne andò.

Ben presto raggiunse l’altra riva del fiume (era la strada che doveva percorrere per giungere alla Huchette), ed Emma lo scorse in mezzo ai prati che camminava sotto i filari dei pioppi, rallentando di tanto in tanto come chi sia immerso in profonde riflessioni.

“È molto carina!” si diceva “È molto carina la moglie del medico! Ha bei denti occhi neri, piedi minuscoli e una figuretta da parigina. Da dove diavolo è uscita, costei? E dove mai l’avrà trovata quel pezzo di malanno?”

Il signor Rodolphe Boulanger, un uomo di trentaquattro anni, aveva un carattere duro e un’intelligenza acuta; inoltre, avendole frequentate molto, conosceva bene le donne. Questa gli era sembrata graziosa: ci pensava e pensava a suo marito.

“Mi ha fatto l’impressione di essere uno scemo. E lei ne è certo stufa. Quell’uomo ha le unghie sporche e la barba di tre giorni. Mentre corre da un malato all’altro, la moglie se ne sta in casa a rammendare le calze. E si annoia! Vorrebbe abitare in città e ballare la polka tutte le sere. Povera piccola! Anela all’amore come una carpa su un tavolo di cucina anela all’acqua. Basterebbero tre frasi galanti, per farsi adorare da lei, ne sono certo. Sarebbe qualcosa di dolce, di delizioso!… Già, ma come sbarazzarsene, in seguito?”

Gli inconvenienti del piacere, visti in prospettiva, gli fecero ricordare per contralto la sua attuale amante. Era, costei, una attrice di Rouen che egli manteneva; Rodolphe indugiò con il pensiero su questa immagine il cui solo ricordo gli procurava un senso di sazietà e si disse:

“Ah! La signora Bovary è molto più graziosa di lei, più fresca, soprattutto. Decisamente, Virginie sta ingrassando troppo. Ed è così noiosa, con le sue amenità. E poi, quella sua mania per i gamberetti!”

La campagna era deserta e Rodolphe non udiva altro che il fruscio ritmico delle erbe che gli battevano contro le scarpe, il frinire dei grilli nascosti lontano, nei campi d’avena; rivedeva Emma, là nello studio, vestita con l’abito giallo, e la spogliava.

“Oh! L’avrò!” e, con un colpo di bastone, frantumò una zolla di terra dinanzi a sé.

Poi incominciò a studiare l’aspetto strategico dell’impresa. Si domandava:

“Dove potrei incontrarla? E per quale motivo? Avremo sempre fra i piedi la marmocchia e la domestica, i vicini, il marito e ogni sorta di rompiscatole. Ah,” si disse “no, c’è da perderci troppo tempo!”

Ma continuò subito:

“Resta il fatto che ha occhi capaci di penetrare nel cuore come succhielli. E quella carnagione chiara! Io adoro le donne con la pelle chiara! ”

In cima al colle d’Argueil la decisione era ormai presa.

“Non mi resta che procurarmi le occasioni. Mi capiterà bene di passare di là qualche volta, manderò loro della selvaggina, del pollame, mi farò salassare, se sarà necessario; diventeremo amici, li inviterò a casa mia… Ah, perbacco,” soggiunse “fra non molto si terranno le Assemblee; ci andrà anche lei, la rivedrò. Ci daremo da fare, e decisamente, perché è il sistema più efficace.”

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