Ott 202018
 

Una sera Emma sedeva accanto al davanzale della finestra aperta e guardava Lestiboudois, il sagrestano, che potava i bossi. Sentì a un tratto suonare l’Angelus.

Si era ai primi di aprile, quando spuntano le primule; un vento tiepido scorre sulle aiuole appena vangate, e i giardini come le donne, sembra si agghindino per la festa dell’estate. Fra i pali della pergola e oltre, tutto intorno, si vedeva il fiume che disegnava fra l’erba dei grandi prati le sue curve sinuose ed errabonde. La bruma della sera passava fra i pioppi ancora spogli, sfumandone i contorni con una tinta violetta più pallida e più trasparente di un velo sottile impigliatosi nei rami. Lontano le mandrie si spostavano senza che se ne sentissero lo scalpiccio o i muggiti. La campana suonava sempre, diffondendo nell’aria un tranquillo lamento.

Quello scampanio ripetuto induceva i pensieri di Emma a soffermarsi sui ricordi dell’adolescenza e del collegio. Rammentava i grandi candelabri dell’altare, più alti dei vasi ricolmi di fiori e del tabernacolo a colonnine. Le sarebbe piaciuto confondersi, come un tempo, nella lunga fila di veli bianchi punteggiata di nero, qua e là, dalle cuffie rigide delle suore chine sull’inginocchiatoio; la domenica, alla messa, quando alzava la testa, scorgeva attraverso le volute azzurrognole dell’incenso che salivano verso l’alto, il dolce viso della Vergine. Si sentì prendere dallo struggimento: l’assalirono una stanchezza, un abbandono tali che le parve di essere come una piuma di uccello trascinata dalla tempesta; quasi senza rendersene conto si incamminò verso la chiesa, ansiosa di piegare l’anima sua a una qualsiasi devozione purché l’intera sua esistenza potesse annientarvisi.

Incontrò sulla piazza Lestiboudois, di ritorno. Per non accorciare la giornata, preferiva interrompere il lavoro e riprenderlo poi dopo aver suonato l’Angelus, anche se, così facendo, non rispettava del tutto gli orari. D’altronde, lo scampanio anticipato avvertiva i ragazzi dell’ora del catechismo.

Qualcuno di quelli ch’erano già arrivati giocava alle biglie sulle pietre del cimitero. Qualcun altro, a cavalcioni del muro, agitava le gambe falciando con gli zoccoli le fitte ortiche cresciute fra la cinta e le tombe più vicine. Costituivano l’unico verde del luogo: tutto il resto era soltanto pietre coperte continuamente da una polvere sottile che la granata della sagrestia non riusciva a eliminare.

I ragazzi, con gli scarponi ai piedi, correvano là sopra come su un pavimento fatto apposta per loro; gli scoppi di voci infantili si facevano sentire attraverso il rombo delle campane. Lo scampanio diminuiva con le oscillazioni della grossa corda che, scendendo dall’alto del campanile, trascinava per terra una estremità. Le rondini sfrecciavano lanciando brevi strida, tagliavano l’aria con il loro rapido volo e rientravano svelte nei nidi gialli appesi sotto le tegole della grondaia. In fondo alla chiesa ardeva una lampada, o meglio un lucignolo, in un bicchiere che pendeva dall’alto. Da lontano la sua luce sembrava una macchia biancastra palpitante sull’olio. Un lungo raggio di sole attraversava tutta la navata centrale facendo apparire più buie quelle laterali e gli angoli.

«Dov’è il curato?» domandò la signora Bovary a un ragazzo che si divertiva a scuotere il cancello nel cardine troppo largo.

«Adesso viene» rispose lui.

In quel momento la porta del presbiterio cigolò e l’abate Bournisien apparve; i ragazzi si precipitarono in disordine dentro la chiesa.

«Quei monellacci!» mormorò il sacerdote «Sempre gli stessi!»

E, raccogliendo un catechismo assai mal ridotto che aveva urtato con il piede, esclamò:

«Non rispettano niente!»

In quel momento scorse la signora Bovary:

«Voglia scusarmi,» le disse «non l’avevo riconosciuta». Ficcò il catechismo in tasca e si fermò, facendo dondolare fra due dita la pesante chiave della sagrestia.

La luce del sole al tramonto gli batteva sul viso e faceva apparire sbiadita la stoffa della tonaca, lucida sui gomiti e sfilacciata all’orlo. Macchie d’unto e di tabacco accompagnavano sul largo torace, la linea dei bottoncini e diventavano più numerose a mano a mano che ci si allontanava dal colletto clericale sul quale riposavano pieghe abbondanti di pelle rossa disseminata di piccole macchie gialle che sparivano in mezzo ai peli ruvidi della barba brizzolata. Aveva appena mangiato e respirava rumorosamente.

«Come sta?» soggiunse.

«Male» rispose Emma. «Soffro molto.»

«Be’, anch’io» rispose il sacerdote. «Questi primi caldi abbattono in maniera sorprendente, non le pare? E del resto, siamo nati per soffrire, come dice San Paolo, cosa vuole! Ma il signor Bovary, cosa ne pensa?»

«Lui!» Emma fece un gesto di disprezzo.

«Come!» replicò il brav’uomo tutto stupito «Non le prescrive qualcosa?»

«Ah!» disse Emma «Non sono certo i rimedi materiali quelli di cui ho bisogno.»

Il curato, di tanto in tanto, sbirciava dentro la chiesa dove tutti quei monelli inginocchiati si davano spintoni e cascavano come fantocci.

«Vorrei sapere…;» cominciò Emma.

«Aspetta, aspetta, Riboudet» gridò incollerito il sacerdote. «Adesso vengo io a scaldarti gli orecchi, brutto discolo che non sei altro!»

Si rivolse di nuovo a Emma.

«È il figlio di Boudet, il carpentiere; i genitori sono agiati e gli lasciano fare quello che vuole. Eppure, se si mettesse di impegno, potrebbe riuscire bene, perché è intelligente. Qualche volta mi inquieto con lui, col Boudet, e mi vien fatto di dire Col Riboudet (ha presente la collina che si supera per andare a Maromme?) Mi è accaduto di dirlo anche con i ragazzi: “Va’ col Riboudet a farmi questa commissione!” Ah! Ah! L’altro giorno l’ho raccontato a monsignore, che ne ha riso… si è degnato di riderne. E adesso lo chiamo spesso così. E il signor Bovary, come sta?»

Sembrava che Emma non lo ascoltasse. Il curato continuò:

«Sempre molto occupato, non è vero? Lui e io, siamo senz’altro le persone più indaffarate di tutta la parrocchia. E mentre suo marito è il medico del corpo,» aggiunse con una grassa risata «io lo sono dell’anima».

Emma fissò sul sacerdote uno sguardo supplichevole:

«Sì…» disse «lei può alleviare tutte le miserie».

«Non me ne parli, signora Bovary! Proprio questa mattina sono dovuto andare nel Basso Diauville perché a una mucca si era gonfiato il ventre; credevano che fosse il malocchio. Tutte le loro vacche, non so come… Ma, mi scusi! Longuemarre e Boudet! Sacripante! La volete finire?»

E, con un balzo, si slanciò nella chiesa.

In quel momento i monelli si affollavano intorno al leggio, si arrampicavano sullo sgabello del cantore e aprivano il messale; altri, quatti quatti stavano per azzardarsi perfino a entrare nel confessionale. Ma il curato, senza perder tempo, distribuì su tutti una grandinata di scapaccioni. Li prendeva per il colletto, li sollevava da terra e li rimetteva giù, in ginocchio, sul pavimento del coro, con tanta energia che sembrava volesse piantarceli.

«Eh, sì,» disse dopo essere tornato accanto a Emma, mentre spiegava un grande fazzoletto di cotone e se ne metteva un angolo fra i denti «i contadini sono spesso da compiangere!»

«E non sono i soli» ribatté Emma.

«No di certo! Gli operai delle città, per esempio.»

«Non è di loro…»

«Mi perdoni, ma ho conosciuto povere madri di famiglia, laggiù, donne virtuose, glielo assicuro, vere sante, che non avevano nemmeno il pane.»

«Ma quelle,» rispose la signora Bovary (e gli angoli della bocca le guizzavano, mentre parlava) «quelle, signor curato, che hanno il pane, ma non hanno…»

«Il fuoco per scaldarsi, durante l’inverno» disse il prete.

«Ma che importa!»

«Come! Che importa? Mi sembra che, quando uno è ben nutrito, può starsene al calduccio… perché, insomma…»

«Mio Dio! Mio Dio!» sospirò Emma.

«Non si sente bene?» fece lui, avvicinandosi con aria preoccupata «Certo è la digestione! Sarà meglio che torni a casa, signora Bovary, a bere un po’ di tè, le darà forza; oppure un bicchiere d’acqua e zucchero.»

«Perché?»

Aveva l’aria di chi si svegli all’improvviso da un sogno.

«Ho visto che si passava una mano sulla fronte. Credevo stesse per svenire.»

Poi, cambiando argomento:

«Ma non mi aveva chiesto qualcosa? Di che si trattava? Non lo ricordo più».

«Io? Niente… niente…» ripeteva Emma.

E il suo sguardo, che finora aveva lasciato vagare intorno a sé, si volse lentamente sul vecchio che vestiva la tonaca. Si osservarono entrambi, uno di fronte all’altro, senza parlare.

«Bene, signora Bovary,» disse infine il sacerdote «mi deve scusare, ma il dovere innanzitutto, lei lo sa bene; è necessario che mi occupi dei miei monelli. Presto ci saranno le Prime Comunioni. Temo che anche questa volta ci coglieranno non ancora del tutto pronti! E così, a partire dall’Ascensione, tutti i mercoledì, puntualmente, li trattengo un’ora in più. Poveri bambini! Non è mai troppo presto per spingerli sulla via del Signore, come del resto ci ha raccomandato lui stesso, per bocca del Suo Divino Figlio… I miei doveri, signora, e molti rispetti al suo signor marito.»

Entrò in chiesa facendo dalla porta una genuflessione.

Emma lo vide sparire in mezzo alla duplice fila di banchi, camminava con un passo pesante e teneva le mani semiaperte e scostate dal corpo.

La signora Bovary girò sui talloni, rigida, come una statua su un perno, e riprese la via di casa. La voce grave del curato e quella limpida dei ragazzi giungeva ancora ai suoi orecchi e continuava a seguirla:

«Sei cristiano?»

«Sì, sono cristiano.»

«Cosa significa essere cristiano?»

«Cristiano significa essere battezzato… battezzato… battezzato.»

Salì i gradini della scala reggendosi alla ringhiera e, appena giunta in camera sua, si lasciò cadere su una poltrona. La luce lattiginosa della finestra si smorzava dolcemente e in modo non uniforme. I mobili, ai loro posti, sembravano fondersi con i muri e perdersi nell’ombra come in un oceano tenebroso. Il caminetto era spento, la pendola ticchettava senza interruzione ed Emma provava un senso di stupore per questa calma delle cose, mentre dentro di lei si agitava un tale tumulto. Ma fra la finestra e il tavolo da lavoro c’era la piccola Berthe, barcollante sulle scarpine di maglia, che cercava di avvicinarsi alla madre per afferrarle i nastri del grembiule.

«Lasciami!» disse Emma, allontanandola con la mano.

La bimba ritornò presto ancora più vicina, contro le sue ginocchia, vi appoggiò le braccia e alzò sulla madre i grandi occhi azzurri, mentre un limpido filo di saliva le colava dalle labbra fin sulla seta del grembiule.

«Lasciami!» ripeté Emma incollerita.

L’espressione del suo viso spaventò la bambina, che incominciò a strillare.

«Ma insomma! Lasciami!» esclamò lei ancora, respingendola con il gomito.

Berthe andò a cadere ai piedi del cassettone, contro la borchia d’ottone che le tagliò la gota facendola sanguinare. La signora Bovary si precipitò a rialzarla, diede uno strattone al cordone del campanello, chiamò la domestica a gran voce, ed era sul punto di maledire se stessa, quando arrivò Charles. Era l’ora di cena, ed egli rincasava.

«Guarda, caro,» disse Emma con voce tranquilla «la piccola, giocando, è caduta in terra, e si è ferita.»

Charles la rassicurò, non era niente di grave; e andò a prendere un unguento disinfettante.

La signora Bovary non scese in salotto; volle rimanere da sola a vegliare la bambina. Mentre la contemplava – ormai serenamente addormentata – l’inquietudine che ancora restava in lei, andò a poco a poco dissipandosi, ed ella si giudicò molto sciocca e molto buona per essersi agitata tanto, poco prima, a causa di un nonnulla. Berthe, infatti, non singhiozzava più. Il suo respiro sollevava in modo appena percettibile la coperta di cotone. Grosse lacrime rimanevano ferme nell’angolo delle palpebre semichiuse che lasciavano intravedere, fra le ciglia, le pupille chiare infossate; il cerotto applicato sulla guancia tirava in obliquo la pelle tesa

“È strano” pensava Emma “come sia brutta questa bambina.”

Quando Charles, alle undici, tornò dalla farmacia (dove era andato, dopo cena, a riportare quel che restava dell’unguento disinfettante), trovò sua moglie ancora alzata vicino alla culla.

«Ma se ti ho detto che non è nulla,» disse, baciandola sulla fronte «non ti devi tormentare più, povera cara, finirai coll’ammalarti!»

Si era trattenuto a lungo dallo speziale. Sebbene non si fosse dimostrato molto scosso, il signor Homais aveva cercato ugualmente di rincuorarlo, di rialzargli il morale. Avevano quindi parlato dei pericoli che minacciano l’infanzia e della sbadataggine dei domestici. La signora Homais ne sapeva qualcosa aveva ancora sul petto i segni della scottatura causata da una palettata di brace che la cuoca, una volta, le aveva lasciato cadere nel grembiulino. Per questo in casa sua adottavano innumerevoli precauzioni. I coltelli non venivano mai affilati, non si dava la cera ai pavimenti, le finestre erano munite di inferriate, gli stipiti di robuste sbarre. I piccoli Homais, a scapito della loro indipendenza, non potevano muoversi senza che qualcuno li seguisse per sorvegliarli; al più lieve raffreddore il padre li imbottiva di tisane, e fin dopo i quattro anni portavano tutti inesorabilmente il cercine. Questa era una mania della signora Homais; suo marito si preoccupava, dentro di sé perché temeva che gli organi dell’intelletto potessero venire compromessi da una simile compressione e ogni tanto gli scappava detto:

«Vuoi forse farne dei Caraibi o dei Botocudi?»

Charles aveva tentato più volte di interrompere la conversazione.

«Avrei bisogno di parlarle» aveva sussurrato all’orecchia del signor Léon che si era avviato davanti a lui sulla scala.

«Sospetterà qualcosa?» si domandava il giovane. Gli batteva il cuore e continuava a fare congetture.

Finalmente Charles, dopo aver chiuso la porta, lo pregò di domandare a Rouen quanto potesse costare un bel dagherrotipo; era una sorpresa romantica che voleva fare alla moglie, un pensiero delicato, il suo ritratto in abito nero. Ma voleva prima sapersi regolare per la spesa; sperava di non disturbare il signor Léon con quell’incarico, dato che egli andava in città quasi tutte le settimane.

A quale scopo? Homais supponeva che vi fosse sotto qualche faccenda di giovanotti, un intrigo amoroso. Ma si sbagliava; Léon non coltivava nessun idillio. Era più che mai triste e la signora Lefrançois se ne accorgeva dalla quantità di cibo ch’egli lasciava adesso nel piatto. Per saperne qualcosa, interrogò l’esattore. Binet le rispose con arroganza di non essere pagato per fare il poliziotto.

Eppure aveva notato anche lui qualcosa di strano nel suo compagno, perché; spesso Léon, arrovesciandosi sulla sedia, e allargando le braccia, si lamentava vagamente dell’esistenza.

«Il fatto è che non si prende nessuna distrazione» diceva

«Se fossi in lei, mi procurerei un tornio!»

«Ma io non so tornire» rispondeva l’impiegato.

«È vero!» diceva l’altro, accarezzandosi il mento con un’aria di spregio e di soddisfazione insieme.

Léon era stanco di questo amore senza risultato; incominciava a sentire quell’abbattimento causato da una vita sempre uguale, priva di interessi pressanti, senza speranze che la sostengano. Era così stufo di Yonville e dei suoi abitanti da sentirsi preso da un’irritazione incontenibile soltanto alla vista di talune persone o di certe case. Il farmacista, per quanto fosse quel dabben uomo che era, gli diventò del tutto insopportabile. Tuttavia, la prospettiva di una nuova situazione lo spaventava tanto quanto lo seduceva.

Ma l’apprensione si mutò ben presto in impazienza e allora Parigi fece baluginare in lontananza le fanfare dei balli mascherati e le risa delle sartine. Dal momento che avrebbe dovuto terminarvi gli studi, perché non ci andava? Che cosa glielo impediva? Cominciò a prepararsi dentro di sé; stabilì in anticipo le sue occupazioni, ammobiliò, con l’immaginazione, un appartamento. Vi avrebbe condotto una vita d’artista! Avrebbe preso lezioni di chitarra! Avrebbe portato una veste da camera, un berretto basco, pantofole di velluto blu. E già ammirava, perfino, sul caminetto, due fioretti incrociati sormontati da un teschio e da una chitarra.

La cosa più difficile era ottenere il consenso di sua madre; d’altro canto, niente sarebbe potuto sembrare più ragionevole. Il suo stesso principale lo incitava a far pratica in un altro studio, dove avrebbe potuto ampliare la sua esperienza. Scegliendo una via di mezzo, cercò un posto di secondo scrivano a Rouen. Non trovò nulla e scrisse allora a sua madre una lunga lettera particolareggiata nella quale esponeva le ragioni che lo spingevano ad andare subito ad abitare a Parigi. La madre acconsentì.

Léon se la prese calma. Ogni giorno, e per tutto un mese Hivert trasportò per lui da Yonville a Rouen e da Rouen a Yonville bauli, valigie e pacchi, e quando il nostro giovane ebbe rimesso in ordine il proprio guardaroba, fatto imbottire le sue tre poltrone, acquistato un assortimento di fazzoletti di seta, in una parola, preso un numero di disposizioni maggiore di quelle necessarie per un viaggio intorno al mondo, rimandò la partenza di settimana in settimana, finché non ricevette una seconda lettera dalla madre, la quale lo incitava a partire, dal momento che desiderava dare gli esami prima delle vacanze.

Al momento degli addii, la signora Homais pianse, Justin singhiozzò, il signor Homais, da uomo forte, dissimulò la commozione; volle portare lui stesso il cappotto dell’amico fino al cancello del notaio, che avrebbe condotto Léon a Rouen con la sua carrozza. Il giovane ebbe appena il tempo di andare a salutare il signor Bovary.

Arrivò in cima alla scala e si fermò senza fiato. Quando entrò, la signora Bovary si alzò d’impeto.

«Eccomi di nuovo qui» disse Léon

«Ne ero sicura!»

Emma si morse le labbra e un fiotto di sangue le corse sotto la pelle del viso colorandola di rosa dalla radice dei capelli fino al collettino. Rimase in piedi appoggiando le spalle al rivestimento di legno della parete.

«Suo marito non c’è?» continuò Léon

«È fuori.»

Emma ripeté:

«È fuori».

Vi fu un silenzio. Si guardarono: i loro pensieri, confusi nella medesima angoscia, sembravano stringersi in un abbraccio forte e palpitante.

«Vorrei tanto dare un bacio a Berthe» disse Léon.

Emma scese qualche gradino e chiamò Félicité.

Egli gettò un rapido sguardo intorno a sé, uno sguardo che abbracciò le pareti, le scansie, il caminetto, quasi per penetrare tutto, per portare tutto con sé.

Léon la baciò più volte sul collo.

«Addio, povera bambina! Addio, piccola cara, addio!»

E la riconsegnò a sua madre.

«Portala via» disse Emma alla domestica.

Rimasero soli.

La signora Bovary, voltando le spalle, teneva il viso appoggiato a un vetro della finestra. Léon batteva adagio contro una gamba il berretto che aveva in mano.

«Pioverà» disse Emma.

«Ho un soprabito» rispose lui.

«Ah!»

Emma si voltò, il viso basso e il capo in avanti. La luce le scivolava sulla fronte, come sul marmo, fino all’arco delle sopracciglia, e non sarebbe stato possibile dire cosa stesse guardando né cosa pensasse nel più profondo di sé.

«Addio, allora!» sospirò Léon.

Emma rialzò la testa con un movimento brusco.

«Sì, addio… vada!»

Si mossero uno verso l’altra: lui tese la mano, la signora Bovary esitò.

«Bene, salutiamoci come gli Inglesi» disse e gli abbandonò la sua, sforzandosi di ridere.

Léon non appena la sentì fra le dita, si rese conto che la sostanza stessa di tutto il suo essere sembrava concentrarsi in quel palmo umido.

Poi aprì la mano, i loro sguardi si incontrarono ancora una volta ed egli uscì.

Giunto sotto la tettoia del mercato, si fermò, si nascose dietro uno dei pali per contemplare un’ultima volta quella casa bianca e le sue quattro persiane verdi. Credette di vedere un’ombra dietro la finestra, nella camera, ma la tenda, staccandosi dal nappo come se nessuno l’avesse toccata, mosse lentamente le lunghe pieghe oblique, che si stesero di colpo tutte insieme rimanendo diritte e più immobili di un muro di pietra. Léon si mise a correre.

Vide da lontano, sulla strada la carrozza del suo principale; un uomo con un ruvido grembiule le stava di lato tenendo il cavallo. Homais e il signor Guillaumin discorrevano fra loro. Lo aspettavano.

«Mi dia un bacio» disse lo speziale, con le lacrime agli occhi. «Ecco il suo cappotto, mio buon amico, si riguardi dal freddo! Abbia cura di sé e non si strapazzi!»

«Andiamo Léon, in carrozza!» disse il notaio.

Homais si protese al di sopra del parafango e, con voce rotta dai singhiozzi, lasciò cadere queste due tristi parole:

«Buon viaggio!»

«Buonasera» rispose il signor Guillaumin. «Via!»

Partirono e Homais tornò sui suoi passi.

 

 

La signora Bovary aveva aperto la finestra che dava sul giardino ed era rimasta a guardare le nubi.

Si ammucchiavano a occidente, dalla parte di Rouen, turbinose, e, dietro le loro volute nere, i raggi del sole si disegnavano in grandi fasci dorati, simili alle frecce d’oro di un trofeo alla parete, mentre il resto del cielo che rimaneva sereno, aveva il colore bianco della porcellana. Ma una raffica di vento fece piegare i pioppi, e d’improvviso cadde la pioggia crepitante sulle foglie verdi. Di lì a non molto, riapparve il sole; le galline cantavano, i passeri battevano le ali nei cespugli bagnati, sulla sabbia i rivoletti d’acqua piovana trascinavano con sé i fiori rosei di un’acacia.

“Come dev’essere ormai lontano!” pensava Emma.

Il signor Homais venne, come al solito, alle sei e mezzo, mentre cenavano.

«Bene,» disse, sedendosi «abbiamo appena imbarcato il nostro giovanotto!»

«Sembrerebbe!» rispose il medico. Poi girandosi sulla sedia: «E da lei, che novità ci sono?»

«Non un gran che! Soltanto mia moglie, che si è commossa questo pomeriggio; sa come sono le donne, basta un niente per turbarle! La mia, poi! E non sarebbe giusto rimproverarle, perché il loro sistema nervoso è assai più sensibile del nostro.»

«Povero Léon!» diceva Charles «Come se la caverà a Parigi? Ci si abituerà?»

La signora Bovary sospirò.

«Andiamo,» disse il farmacista, facendo schioccare la lingua «le cenette in trattoria, i balli mascherati, lo champagne! Ne potrà avere a sazietà di divertimenti ve lo assicuro!»

«Non credo che si guasterà» obiettò il signor Bovary.

«Nemmeno io!» disse vivacemente il signor Homais «Anche se non gli sarà possibile non seguire gli altri; correrebbe il rischio di passare per un gesuita. E lei non immagina la vita che conducono quegli scapestrati, nel quartiere latino, con le attrici! Del resto gli studenti sono molto ben visti a Parigi. È sufficiente possedere soltanto qualcuna delle doti necessarie a far bella figura in società, per essere ricevuti negli ambienti migliori, e si è perfino verificato il caso che una delle dame del Faubourg Saint-Germain si sia innamorata di uno di loro, cosa che ha facilitato in seguito le occasioni di fare ottimi matrimoni.»

«Ma io temo» disse il medico «per lui… che laggiù..»

«Ha ragione,» lo interruppe lo speziale «c’è anche il rovescio della medaglia! Bisogna continuamente metter mano al borsellino. Così, supponiamo, lei è in un giardino pubblico; si presenta un tizio ben vestito, perfino decorato, tanto che si potrebbe scambiarlo per un diplomatico; le rivolge la parola, vi mettete a chiacchierare, quello comincia a insinuarsi, le offre una presa di tabacco o le raccatta il cappello. Poi la conoscenza si fa più stretta, inviti al caffè, inviti nella sua casa di campagna, presentazioni, fra un bicchiere e l’altro, a ogni sorta di persone, e, per tre quarti del tempo che le dedica, egli non pensa ad altro se non alla maniera migliore di sfruttarla o di trascinarla in qualche faccenda pericolosa.»

«È vero,» convenne Charles «ma io pensavo soprattutto alle malattie; alla febbre tifoide, per esempio, che contagia gli studenti di provincia.»

Emma trasalì.

«A causa del cambiamento di regime,» continuò il farmacista «e del turbamento che ne risulta all’equilibrio generale dell’organismo. E poi, l’acqua di Parigi, sapesse! Il vitto dei ristoranti, tutte quelle pietanze piene di spezie, finiscono col riscaldare il sangue, e non valgono, si ha un bel dire, un buon piatto di bollito. Io, per quanto mi riguarda, ho sempre preferito la cucina casalinga: è più sana! E infatti, quando studiavo farmacia a Rouen, mi ero messo in pensione in un convitto; mangiavo con i professori.»

E continuò a esporre le sue opinioni generiche e le sue simpatie personali, fino al momento in cui Justin venne a chiamarlo perché c’era da preparare un latte di gallina.

«Non c’è un momento di requie,» esclamò «sempre alla catena! Non mi posso allontanare un momento! Bisogna sudare sangue e acqua, sempre sotto le stanghe come un cavallo da tiro. Che giogo penoso!»

Poi, quando fu sulla porta

«Ha saputo la notizia?» disse.

«Quale?»

«È assai probabile» rispose Homais, alzando le sopracciglia e assumendo un’espressione solenne «che le Assemblee Agricole della Senna Inferiore si tengano quest’anno a Yonville-l’Abbaye. Almeno, così si dice in giro. Questa mattina, il giornale accennava qualcosa su questo argomento. Questo, per il nostro dipartimento, sarebbe della più grande importanza! Ma ne riparleremo. Ci vedo, grazie; Justin ha la lanterna.»

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