Ott 172018
 

Poco alla volta, i timori di Rodolphe la contagiarono. Dapprima l’amore l’aveva talmente inebriata che nella sua mente non era rimasto più posto per nessun altro pensiero. Ma ora che senza Rodolphe non avrebbe più saputo vivere, era spaventata al pensiero di perderlo o soltanto di essere la causa di qualcosa che avrebbe potuto turbarlo. Tornando a casa dopo essere state da lui, scoccava sguardi allarmati intorno a sé, spiando ogni sagoma che si profilasse all’orizzonte e ogni finestra d’abbaino dalla quale avrebbero potuto scorgerla. Ascoltava i passi, le grida, i rumori dei carretti, e si fermava, più pallida e tremante delle foglie di pioppo che si dondolavano sul suo capo.

Un mattino, mentre tornava a casa, credette di scorgere a un tratto la canna di una carabina che sembrava la stesse prendendo di mira. Spuntava obliqua da una botte a metà nascosta fra le erbe al margine di un fossato. Emma, sul punto di svenire per lo spavento, continuò a farsi avanti; un uomo sbucò dalla botte, simile a quei diavoletti con la molla che saltano fuori dalle scatole a sorpresa. Portava uose alte fino al ginocchio, il berretto calcato sugli occhi, e aveva le labbra tremanti dal freddo e il naso rosso. Era il capitano Binet alla posta delle anitre selvatiche.

«Doveva parlare, prima di avvicinarsi!» gridò «Quando si vede un fucile, bisogna sempre avvertire della propria presenza!»

L’esattore cercava in questo modo di dissimulare la paura che si era presa; un decreto prefettizio, infatti, aveva permesso la caccia alle anitre soltanto da un’imbarcazione. Il signor Binet, malgrado tutto il rispetto per la legge, era in contravvenzione. E così temeva a ogni istante di sentirsi capitare addosso la guardia campestre. Questa inquietudine aumentava il suo divertimento, e, tutto solo nella botte, si compiaceva della propria felicità e della propria furberia.

La vista di Emma parve sollevarlo da un gran peso, e subito intavolò una conversazione:

«Non fa per niente caldo, pizzica, stamane».

Emma non rispose. Binet continuò:

«È uscita molto presto, questa mattina».

«Sì,» disse lei balbettando «vengo dalla balia alla quale è affidata la mia bambina.»

«Ah! Benissimo, benissimo. In quanto a me, sono qui dall’alba, ma il tempo è così nebbioso che, a meno di avere le penne dell’anitra a un palmo dalla canna del fucile…»

«Buongiorno, signor Binet» lo interruppe la signora Bovary girando sui tacchi.

«Servo suo, signora» rispose lui seccamente.

E rientrò nella botte.

Emma si pentì di aver piantato in asso in modo così brusco l’esattore. Certo avrebbe fatto delle congetture poco simpatiche. La storia della balia era la scusa peggiore che avesse potuto scegliere, tutti sapevano infatti a Yonville che la piccola Bovary era tornata a casa già da un anno. E inoltre nessuno abitava nei dintorni, quel sentiero non conduceva che alla Huchette; Binet, quindi, aveva indovinato da dove veniva, e non sarebbe stato certo zitto, anzi avrebbe di sicuro propalato la notizia. Rimase tutto il giorno a torturarsi, architettando ogni possibile bugia, avendo sempre davanti agli occhi quell’imbecille con il carniere.

Charles, dopo cena vedendola preoccupata, volle portarla con sé dal farmacista: la prima persona che Emma vide in farmacia fu di nuovo lui, l’esattore! Era in piedi, davanti al banco, illuminato dal riflesso di un boccale rosso e stava dicendo:

«Vorrei, per piacere, una mezza oncia di vetriolo».

«Justin,» chiamò lo speziale «portami l’acido solforico.» Poi si rivolse a Emma, che avrebbe voluto salire dalla signora Homais.

«No, rimanga, non ne vale la pena, fra poco scenderà. Si scaldi vicino alla stufa, intanto. Mi scusi… Buonasera, dottore (il farmacista si beava tutto nel pronunciare questa parola dottore, come se, pur indirizzata a un altro, riverberasse su di lui qualcosa della solennità che egli le attribuiva)… Ma sta’ attento a non rovesciare i mortai e va’ piuttosto a prendere le sedie del tinello, sai bene che non devi spostare le poltrone del salotto.»

E, per rimettere a posto la propria poltrona, Homais si precipitò fuori da dietro il banco, proprio mentre Binet gli stava chiedendo una mezza oncia di acido di zucchero.

«Acido di zucchero?» fece con sdegno il signor Homais «Non lo conosco. Non so che cosa sia. Forse lei vuole dell’acido ossalico. È acido ossalico, vero?»

Binet gli spiegò allora che gli serviva da mordente per preparare un liquido in grado di togliere la ruggine dalla sua attrezzatura da caccia. Emma trasalì. Il farmacista cominciò a dire:

«Il fatto è che il tempo non è molto propizio, a causa dell’umidità».

«Eppure,» osservò l’esattore con aria furba «c’è chi si arrangia.»

A Emma pareva di soffocare.

«Mi dia anche…»

“Ma non se ne vuole più andare?” pensava lei

«Una mezza oncia di colofonia e di trementina, quattro once di cera gialla e tre once di carbone animale, per piacere, per pulire il cuoio verniciato.»

Il farmacista aveva cominciato a tagliare la cera quando comparve la signora Homais con Irma in braccio, Napoleone al fianco e Athalie che la seguiva. Andò a sedersi sulla panchetta di velluto sotto la finestra, il ragazzino si accoccolò su uno sgabello, mentre la sorella maggiore faceva la ronda intorno alla scatola delle giuggiole vicino al paparino. Questi versava liquidi negli imbuti, tappava flaconi, incollava etichette, confezionava pacchetti, indaffaratissimo. Tutti tacevano. Si sentivano soltanto, di quando in quando, tintinnare i pesi sulla bilancia e le parole che il farmacista mormorava al suo allievo per dargli dei consigli.

«Come sta la sua piccolina?» domandò la signora Homais all’improvviso.

«Silenzio!» disse il marito che stava scrivendo cifre su un quaderno di minute.

«Perché non ce l’ha portata?» riprese la signora Homais a bassa voce.

«Zitta! Zitta!» fece Emma indicando lo speziale.

Ma Binet, tutto assorto nella lettura del conto, molto probabilmente non aveva sentito nulla. Infine uscì. Allora Emma provò un senso di liberazione e tirò un gran sospiro di sollievo.

«Come respira forte!» disse la signora Homais.

«È per il caldo» rispose Emma.

L’indomani i due innamorati si preoccuparono di organizzare meglio i loro convegni. Emma voleva corrompere con un regalo la domestica, ma Rodolphe avrebbe preferito trovare, a Yonville, una sistemazione discreta. Promise di cercarla.

Durante tutto l’inverno, tre o quattro volte la settimana, a notte fonda, Rodolphe entrava nel giardino. Emma aveva nascosto la chiave del cancello e Charles credeva che si fosse perduta.

Per avvertirla della sua presenza, Rodolphe lanciava una manciata di sabbia contro la persiana. A questo suono Emma si alzava di scatto, ma qualche volta doveva aspettare perché Charles aveva la mania di chiacchierare accanto al fuoco e non la finiva più.

Emma era divorata dall’impazienza: se avesse potuto, lo avrebbe gettato dalla finestra. Si preparava per andare a dormire, poi prendeva un libro e continuava a leggere tranquilla, come se la lettura la divertisse molto. Charles, allora, che l’aveva preceduta di sopra ed era già a letto, la chiamava perché andasse a coricarsi.

«Vieni, insomma, Emma?» diceva «È tardi!»

«Sì, vengo» rispondeva lei.

Nel frattempo Charles, poiché gli dava fastidio la luce della candela, si girava verso il muro e si addormentava. Allora Emma scappava in giardino, trattenendo il respiro affrettato, sorridente, palpitante e discinta.

Rodolphe aveva un gran mantello, l’avvolgeva tutta e, passandole un braccio intorno alla vita, la trascinava in silenzio fino in fondo al giardino.

Si fermavano sotto la pergola, sulla stessa panca di tronchi sottili e fradici, ove poco tempo prima, Léon l’aveva contemplata con tanto amore nelle sere d’estate. Emma però non pensava certo a lui in queste occasioni

Le stelle brillavano attraverso i rami senza foglie del gelsomino. Sentivano dietro di sé il fiume scorrere e, di tanto in tanto, il crepitare delle canne secche. Cumuli d’ombre, qua e là, si gonfiavano nel buio, e a volte sembravano fremere con un unico moto, si alzavano e si abbassavano come immense once nere che avanzassero per sommergerli.

Il freddo della notte faceva sì che si tenessero stretti l’uno all’altra; il suono dei sospiri sembrava loro più forte, gli occhi riuscivano appena a intravedersi, più grandi; e, in tanto silenzio, v’erano parole pronunciate sottovoce che cadevano sulle loro anime con sonorità cristallina e con vibrazioni che si ripercuotevano all’infinito.

Quando la notte era piovosa, andavano a rifugiarsi nello studio medico, fra la tettoia e la scuderia. Accendevano un candeliere di cucina che Emma teneva nascosto dietro i libri. Rodolphe si comportava come se fosse stato in casa sua. La vista della libreria, dello scrittoio, di tutta la stanza insomma, lo metteva di buon umore e non riusciva a trattenersi dal dire una quantità di spiritosaggini alle spalle di Charles, che lasciavano Emma interdetta. Avrebbe voluto vederlo più serio, addirittura drammatico, a volte, come quella sera in cui le era parso di sentire un rumore di passi avvicinarsi sul viale.

«Viene qualcuno» aveva sussurrato.

Rodolphe spense la luce.

«Hai la pistola?»

«Per farne che?»

«Ma… per difenderti!» rispose Emma

«Da tuo marito? Ah!, pover’uomo!»

E Rodolphe accompagnò la frase con un gesto che significava “lo schiaccerei con un buffetto”.

Emma rimase sbalordita dal suo coraggio, sebbene vi percepisse un’indelicatezza e una grossolanità ingenue, che la scandalizzarono.

Rodolphe ripensò molto a questa storia di pistole. Se ella aveva parlato seriamente, la cosa era molto comica, pensava, e forse addirittura odiosa perché lui non aveva nessuna ragione di detestare il buon Charles, dal momento che non si sentiva affatto divorato dalla gelosia; a questo proposito Emma gli aveva fatto fare un giuramento solenne che Rodolphe aveva trovato, come minimo, di dubbio gusto.

Da quel momento Emma era diventata eccessivamente sentimentale. Si erano scambiati ritratti, si erano tagliati ciocche di capelli e adesso voleva un anello, una vera matrimoniale, in segno di eterna fedeltà. Spesso gli parlava delle campane della sera, o della voce della natura, poi gli raccontava di sua madre e voleva sapere della madre di lui. Rodolphe l’aveva perduta da più di vent’anni, eppure Emma lo consolava con le frasi più leziose, come se avesse avuto a che fare con un marmocchio abbandonato, e talora, guardando la luna, gli diceva:

«Sono sicura che di lassù, insieme, approvano il nostro amore».

Ma era così carina! Ne aveva conosciute poche di un simile candore! Questo amore, non contaminato dal vizio, rappresentava per lui qualcosa di nuovo che, discostandosi dalle facili avventure cui era abituato, solleticava tanto il suo orgoglio quanto la sua sensualità. L’esaltazione di Emma, disprezzata dal suo buon senso borghese, in fondo al cuore gli sembrava incantevole perché era rivolta alla sua persona. Per cui, sicuro di essere amato, non si diede più la pena di controllarsi e a poco a poco i suoi modi cambiarono.

Non le diceva più, come un tempo, quelle parole dolci che la facevano piangere, né aveva per lei quelle travolgenti carezze che la facevano impazzire di passione. E tutto questo diede l’impressione a Emma che il loro grande amore, nel quale viveva immersa, stesse diminuendo sotto di lei come l’acqua di un fiume assorbita dal letto in cui scorre, ed ella cominciò a scorgere il fango. Non riusciva a credere una cosa simile; raddoppiò la sua tenerezza e Rodolphe nascose sempre meno la propria indifferenza.

Non sapeva più se si rammaricasse di avergli ceduto o se, al contrario, desiderasse amarlo sempre più. L’umiliazione di sentirsi debole si trasformava in un rancore mitigato soltanto dalla voluttà. Non era affetto, si trattava di una continua seduzione. Rodolphe la soggiogava. Ed Emma aveva quasi paura.

Ciò nonostante, in apparenza tutto andava nel migliore dei modi. Rodolphe era riuscito a condurre l’adulterio secondo il proprio capriccio e, in capo a sei mesi, all’arrivo della primavera, gli amanti si trovavano l’uno di fronte all’altra come due coniugi che alimentino un tranquillo focolare domestico.

Era il periodo in cui papà Rouault mandava il tacchino in dono a ricordo della guarigione della gamba. Il regalo arrivava sempre accompagnato da una lettera. Emma tagliò lo spago che legava il paniere e lesse quanto segue:

Miei cari figlioli,

spero che la presente vi trovi in buona salute e che il tacchino sia buono come gli altri, e forse migliore, perché mi sembra più tenero, se posso dirlo, e più carnoso. La prossima volta, tanto per cambiare vi manderò un gallo, o se preferite dei pollastrini, e rimandatemi la cesta per piacere insieme con le altre due. È successo un guaio alla rimessa: il tetto in una notte di vento forte è volato in mezzo agli alberi. Anche il raccolto non è stato dei migliori. Non so quando potrò rivedervi. Mi è così difficile lasciare la fattoria da che sono rimasto solo, mia cara Emma.

 

 

A questo punto c’era fra le righe un intervallo come se il brav’uomo avesse lasciato cadere la penna per soffermarsi un poco a riflettere.

 

 

Quanto a me, sto bene, a parte un raffreddore che mi sono buscato l’altro giorno alla fiera di Yvetot, dove mi ero recato per assumere un nuovo pastore, dopo aver licenziato l’altro perché era un ghiottone di prima forza. Siamo proprio da compiangere per tutti i briganti con i quali siamo costretti ad avere a che fare. Oltretutto, poi, era anche un disonesto.

Ho saputo da un merciaio ambulante, il quale, viaggiando quest’inverno dalle vostre parti, ha dovuto farsi strappare un dente, che Bovary lavora sempre molto. Questo non mi stupisce. Mi ha fatto vedere il dente e abbiamo preso un caffè insieme. Gli ho chiesto se ti aveva vista; mi ha detto di no ma ha visto due cavalli nella scuderia e da ciò concludo che gli affari vi vanno bene. Ne sono contento, miei cari figlioli, e che il Signore vi mandi tutta la felicità immaginabile.

Mi dispiace molto di non conoscere ancora la mia nipotina Berthe Bovary. Ho piantato per lei in giardino, sotto la finestra della tua camera, un albero di prugne gialle e non voglio che nessuno le tocchi, se non per preparare a suo tempo la marmellata che terrò nella dispensa per lei quando verrà a trovarmi.

Arrivederci, cari figlioli, ti bacio, figlia mia e con te mio genero e la piccola su tutt’e due le guance.

Sono con affetto il vostro tenero padre

 

 

Théodore Rouault

 

 

Tenne per qualche tempo fra le dita quel foglio di carta grossolana. Gli errori d’ortografia vi si accavallavano, ma Emma percepiva la tenerezza che si celava dietro di essi, facendosi sentire come una chioccia che faccia il suo verso seminascosta in una siepe di spine. Papà Rouault aveva asciugato l’inchiostro con la cenere del camino, e un poco di polvere grigia le scivolò dalla carta sull’abito. A Emma parve quasi di vedere suo padre nell’atto di chinarsi sul focolare per prendere le molle. Quanto tempo era trascorso da quando stava con lui seduta sullo sgabello, nel caminetto, mentre faceva bruciare la punta di un bastone alla fiamma alta e scoppiettante delle canne raccolte vicino al mare!… Ricordava gli assolati meriggi estivi. I puledri passavano nitrendo e galoppavano senza posa… v’era sotto la sua finestra, un’arnia e qualche volta le api nel loro volo a spirale nella luce accecante, battevano contro i vetri della finestra come palline d’oro che rimbalzassero. Che tempi felici! Com’era libera! Quante speranze! E quante illusioni! Adesso non ne era rimasta più nessuna! Le aveva sperperate in tutti gli struggimenti del suo animo, nelle successive esperienze, nella verginità, nel matrimonio e nell’amore – perdendole così nel corso della vita, come un viaggiatore che dimentichi qualcosa di quanto gli appartiene in ogni albergo sulla sua via.

Ma che cos’era a renderla tanto triste? Qual era la catastrofe spaventosa che l’aveva travolta? Ed Emma alzò il capo, guardandosi intorno, come per cercare la causa di ciò che la faceva soffrire.

Un raggio del sole d’aprile traeva riflessi iridescenti dalle porcellane sullo scaffale; il fuoco era acceso, sentiva sotto le pantofole la morbidezza del tappeto, la luce era chiara e l’aria tiepida, e udiva gli scoppi di risa della sua bambina.

La bimbetta, infatti, si rotolava sul prato in mezzo all’erba falciata. Era sdraiata bocconi su un mucchio di fieno. La domestica la tratteneva per il grembiulino. Poco lontano Lestiboudois stava rastrellando, e, ogni volta che si avvicinava, la bimba si protendeva battendo l’aria con le braccine.

«Me la porti qui!» disse Emma, precipitandosi ad abbracciarla «Sei il mio amore, cara piccola, sei il mio amore!»

Poi si accorse che aveva gli orecchi un po’ sporchi e allora chiamò perché le portassero l’acqua calda per lavarla, le cambiò la biancheria, le calze, le scarpe, fece mille domande sulla sua salute, come fosse tornata da un viaggio, e infine, baciandola ancora e commuovendosi, la affidò di nuovo alla domestica che era rimasta stupefatta davanti a un tale sfogo di tenerezza.

Rodolphe, quella sera, la trovò più pensierosa del solito.

“Passerà,” si disse “non è che un capriccio.”

E non venne a tre appuntamenti di fila. Quando tornò, Emma si mostrò fredda e quasi sdegnosa.

“Ah! Stai perdendo il tuo tempo, piccola!”

E finse di non notare i sospiri malinconici di lei né il fazzoletto che Emma ostentava.

La signora Bovary cominciò allora a pentirsi.

Si domandò addirittura perché mai detestasse tanto Charles e se non sarebbe stata la soluzione migliore poter amare suo marito. Purtroppo egli non offriva grandi esche a questo ritorno di fiamma, e mentre lei si dibatteva molto incerta in tali velleità di sacrificio, venne il farmacista, che giungeva a proposito per offrirle una soluzione.

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