Ott 132018
 

Accadde una domenica di febbraio, un pomeriggio, e nevicava. Il signore e la signora Bovary, Homais e Léon avevano deciso di andare tutti a vedere, a una mezza lega da Yonville, nella vallata, una filatura di lino in costruzione. Lo speziale aveva portato con sé Napoleone e Athalie per farli camminare un po’, e Justin li seguiva portando in spalla i parapioggia.

Non vi sarebbe potuto essere niente di meno interessante di questa gita. Un grande spazio di terreno nudo, ove si trovavano, sparsi qua e là alla rinfusa, mucchi di sabbia e di ciottoli e alcune ruote di ingranaggi già arrugginite, circondava una lunga costruzione rettangolare forata da un gran numero di piccole finestre. Non era ancora ultimata, e si vedeva il cielo attraverso le assicelle del tetto. Attaccato alla trave più alta del tetto stesso, un mannello di paglia e spighe faceva schioccare al vento i nastri tricolore con i quali era legato.

Homais parlava, spiegando alla comitiva la futura importanza di questo stabilimento; valutava la resistenza dei plafoni, lo spessore dei muri e si rammaricava di non possedere un metro pieghevole come quello che il signor Binet adoperava per suo uso personale.

Emma gli dava il braccio appoggiandosi un po’ e guardava il disco del sole il cui splendore, smorzato dalla nebbia, irraggiava debolmente; poi voltò il capo: Charles era là, aveva il berretto calcato fin sulle sopracciglia, e le grosse labbra tremanti aggiungevano una nota di stupidità al suo viso; perfino la schiena, quella sua schiena tranquilla, riusciva a irritarla quando la guardava: le sembrava di vedervi spiegata sopra la finanziera tutta l’insulsaggine che lo caratterizzava. Mentre lei lo considerava in tal modo, provando, nella sua stessa irritazione, una sorta di depravata voluttà, Léon fece un passo avanti. Il freddo lo faceva impallidire e sembrava stendere sul suo viso un languore più dolce: fra la cravatta e il collo, il colletto della camicia, un po’ largo, lasciava intravedere la pelle; una ciocca di capelli rivelava la punta di un orecchio e i grandi occhi azzurri, alzati a guardare le nubi, parvero a Emma più belli e più limpidi di quei laghi di montagna in cui si specchia il cielo.

«Disgraziato!» gridò a un tratto lo speziale.

E corse dal figlio che si era precipitato su un mucchio di calce per tingersi di bianco le scarpe. Sommerso dai rimproveri, Napoleone si mise a urlare, mentre Justin cercava di ripulirgli i piedi con una manciata di paglia. Ma ci sarebbe voluto un coltello: Charles offrì il suo.

“Ah!” pensò subito Emma “porta il coltello in tasca come un contadino!”

Cadeva una guazza gelata, e tornarono tutti a Yonville

Quella sera, la signora Bovary non andò dai vicini e quando Charles fu uscito e lei incominciò a sentirsi sola, nella sua mente si ripresentò il confronto fra suo marito e Léon, ma con la nitidezza di una sensazione immediata e con l’ampliamento di prospettiva che il ricordo dà alle cose. Distesa nel letto, mentre guardava il fuoco che ardeva luminoso, vedeva ancora, come laggiù, Léon in piedi, che con una mano piegava, appoggiandovisi, una bacchetta, e con l’altra teneva Athalie la quale succhiava tranquilla un pezzetto di ghiaccio. Lo trovava attraente e non riusciva ad allontanare da lui i propri pensieri; ne ricordava gli atteggiamenti in altre occasioni, le frasi che aveva detto, il suono della voce e la figura; e ripeteva, protendendo le labbra come per un bacio:

«Sì, affascinante! Affascinante!… Amerà una donna?» si domandò «E chi?… Può amare soltanto me!»

In un lampo, tutte le prove di ciò si spiegarono davanti a lei e il cuore le balzò nel petto. La fiamma del camino faceva danzare sul soffitto una luce gaia; si voltò sulla schiena stirandosi le braccia.

A questo punto cominciò la solita lamentela: «Oh! Se il Cielo lo avesse voluto! Perché non è successo? Chi lo ha impedito?…»

Quando Charles, a mezzanotte, rientrò, Emma ebbe l’aria di svegliarsi in quel momento, e siccome lui, nello spogliarsi, fece rumore, si lagnò di avere l’emicrania, poi domandò con indifferenza notizie della serata.

«Il signor Léon» disse Charles «se n’è andato presto.»

Emma non seppe trattenere un sorriso, e si addormentò con l’anima piena di una nuova delizia.

L’indomani verso sera, ricevette la visita del signor Lheureux, il negoziante di stoffe, uomo assai abile.

Nato guascone, ma divenuto normanno, univa alla facondia meridionale la cautela delle genti di Caux. Il suo viso sbarbato, grasso e molle, sembrava tinto con un decotto leggero di liquerizia e i capelli bianchi rendevano ancora più vivo il lampo di durezza dei piccoli occhi neri. Nessuno sapeva che cosa fosse stato prima d’ora: merciaio ambulante, diceva taluno, banchiere a Routot, dicevano altri. Una cosa era certa: sapeva fare a mente calcoli così complicati da spaventare lo stesso Binet. Cortese fino a divenire ossequioso, stava sempre con la schiena curva, nella posizione di chi saluta o invita.

Dopo aver lasciato alla porta il cappello ornato da un crespo, posò sulla tavola una scatola verde e cominciò con molta deferenza a lamentarsi di non essere ancora riuscito a ottenere la fiducia della signora.

Una bottega modesta come la sua non era certo adatta ad attirare una signora elegante; e sottolineò la parola. Ciò nonostante lei non aveva che da comandare ed egli si sarebbe incaricato di procurarle tutto quanto potesse desiderare, articoli di merceria, biancheria, cappellini e ogni novità, dal momento che andava in città quattro volte al mese, regolarmente. Aveva rapporti con le case più importanti, si poteva chiedere di lui ai Tre Fratelli, alla Barba d’Oro o al Gran Selvaggio, dappertutto era conosciutissimo. Oggi, trovandosi a passare di lì, era venuto a far vedere alla signora diversi articoli che, grazie a una combinazione veramente rara, era riuscito ad assicurarsi. E tolse dalla scatola una mezza dozzina di colletti ricamati.

La signora Bovary li esaminò.

«Non ho bisogno di niente» disse.

Allora il signor Lheureux tirò fuori con delicatezza tre sciarpe algerine, numerosi pacchetti d’aghi inglesi, un paio di pantofole di rafia e, per ultimi, quattro portauova di cocco, intagliati a trafori dai carcerati. Appoggiò le mani alla tavola, e, con il collo teso, e il corpo chinato in avanti, seguì a bocca aperta lo sguardo di Emma che vagava indeciso sulle mercanzie. Ogni tanto, come per togliere la polvere, dava con l’unghia un colpetto alla seta delle sciarpe spiegate in tutta la loro lunghezza; la stoffa fremeva, con un fruscio lieve, e, alla luce verdastra del crepuscolo, le pagliuzze d’oro del tessuto scintillavano come minuscole stelle.

«Quanto costano?»

«Una miseria,» rispose il merciaio «proprio una miseria; ma non c’è fretta; quando vorrà; non siamo ebrei!»

Ella rifletté per qualche istante, e finì col ringraziare ancora il signor Lheureux, il quale replicò senza scomporsi:

«Benissimo, ci metteremo d’accordo un’altra volta; con le signore finisco sempre per intendermi; salvo che con la mia però».

Emma sorrise.

«Questo per dirle» riprese con aria bonacciona, dopo quella facezia «che non è certo il denaro a preoccuparmi… Gliene darei, se le occorresse.»

La signora Bovary ebbe un gesto di sorpresa.

«Ah!» fece lui a voce bassa e con vivacità «non avrei bisogno di andar lontano per procurargliene, creda pure!»

E continuò chiedendo notizie di papà Tellier, il padrone del Caffè Francese, che il signor Bovary aveva in cura in quei giorni.

«Che cos’ha, insomma, il vecchio Tellier?… Tossisce tanto da svegliare tutta la casa e temo che presto gli sia più necessario un cappotto d’abete di una camiciola di flanella! Da giovane ha sempre fatto bisboccia! Quella è gente, signora, che non ha mai avuto regola, nella vita. Si è bruciato con l’acquavite! Ma in ogni caso è doloroso vedere andarsene una persona che si conosce.»

E, mentre richiudeva la scatola, continuava a discorrere parlando della clientela del medico.

«Sarà il cattivo tempo, certo,» disse, e guardò accigliato fuori della finestra «la causa di queste malattie. Anch’io non mi sento del tutto a posto; bisognerà anzi che venga uno di questi giorni a farmi visitare da suo marito, per un dolore alla schiena. Bene, arrivederla, signora Bovary; resto a sua disposizione, servitore umilissimo!»

E richiuse, adagio, la porta.

Emma si fece servire la cena in camera sua, vicino al fuoco, sopra un vassoio. Ci mise molto a mangiare, tutto le sembrava buono.

«Come sono stata accorta!» si diceva, pensando alle sciarpe.

Udì dei passi sulle scale: era Léon. Si alzò allora e prese sul cassettone da un mucchio di strofinacci ai quali si doveva fare l’orlo il primo che le capitò sottomano. Quando egli entrò, sembrava molto occupata.

La conversazione si trascinava, la signora Bovary taceva spesso e Léon sembrava molto imbarazzato. Seduto su una sedia bassa, vicino al caminetto, rigirava fra le dita l’astuccio da lavoro d’avorio. Emma cuciva e di tanto in tanto piegava con l’unghia l’orlo della tela. Non diceva nulla; Léon taceva, soggiogato dal suo silenzio come lo sarebbe stato dalle sue parole.

“Povero ragazzo!” pensava lei.

“In che cosa le dispiaccio?” egli si domandava.

A un certo punto Léon finì col dire che, uno di quei giorni, si sarebbe recato a Rouen per un affare riguardante lo studio.

«Il suo abbonamento agli spartiti musicali è scaduto, glielo devo rinnovare?»

«No» disse Emma.

«Perché?»

«Perché…»

E, stringendo le labbra, tirò lentamente una lunga gugliata di filo grigio.

Quel lavoro irritava Léon. Emma pareva volesse spellarcisi la punta delle dita; gli salì alle labbra una frase galante, ma non trovò il coraggio di pronunciarla.

«Vuole proprio rinunciarvi?» riprese.

«A che cosa?» disse Emma con vivacità «Alla musica? Mio Dio, sì. Ho già la casa a cui badare, devo occuparmi di mio marito, e di mille altre cose insomma, di tanti doveri più impellenti.»

Guardò la pendola. Charles era in ritardo. Si atteggiò allora alla moglie in ansia. Ripeté due o tre volte:

«È tanto buono!»

Il giovane impiegato era affezionato al signor Bovary. Ma quella tenerezza nei suoi confronti lo stupì in maniera spiacevole; e ciò nonostante ne continuò l’elogio, che, a suo dire tutti ripetevano; e in modo particolare il farmacista.

«Ah! È un gran brav’uomo» ricominciò Emma.

«Certo» convenne Léon.

E prese a parlare della signora Homais che si prestava ai loro frizzi, di solito, per via del modo di vestire incredibilmente sciatto.

«Che importanza ha?» lo interruppe Emma «Una buona madre di famiglia non attribuisce troppa importanza al proprio abbigliamento.»

Poi ricadde nel silenzio.

Mantenne lo stesso atteggiamento nei giorni che seguirono: cambiò i discorsi, le maniere, tutto. Prese di nuovo a occuparsi del buon andamento della casa, a frequentare con regolarità la chiesa, e a trattare con maggior severità la servetta.

Tolse Berthe alla balia. Félicité gliela portava quando venivano visite e la signora Bovary la spogliava per mostrarne il corpicino. Dichiarava di adorare i bambini, la bambina era la sua consolazione, la sua gioia, la sua mania, ed ella accompagnava le proprie carezze con espansioni liriche tali da ricordare a chi non fosse di Yonville, la Sachette di Notre-Dame di Parigi.

Quando Charles rientrava, trovava le pantofole accanto alla cenere per tenerle calde. I panciotti non avevano più la fodera scucita né mancavano i bottoni alle camicie e inoltre egli aveva il piacere di vedere i berretti da notte ordinati in pile uguali nell’armadio. Sua moglie non era più riluttante come un tempo a fare qualche passeggiatina in giardino; quello ch’egli proponeva veniva sempre accettato e, sebbene i suoi desideri non venissero prevenuti, Emma vi si sottometteva senza fiatare. Léon, quando vedeva il signor Bovary, accanto al fuoco dopo cena, con le mani incrociate sul ventre, i piedi sugli alari, le gote arrossate dalla digestione, gli occhi umidi di felicità, mentre la bimba si trascinava sul tappeto e questa donna dalla vita sottile, da sopra la spalliera della poltrona, si chinava per baciarlo in fronte, finiva col dirsi:

“Che pazzia! Come potevo illudermi di arrivare fino a lei?”

Emma gli appariva così virtuosa e inaccessibile che abbandonò ogni speranza, anche la più vaga.

Ma, grazie a questa rinuncia, la poneva in una posizione straordinaria. Ai suoi occhi Emma si liberava delle qualità materiali dalle quali non gli sarebbe mai stato possibile ottenere nulla, per salire sempre più in alto nel suo cuore, fino a staccarsene come una magnifica apoteosi che ascenda. Si trattava di uno di quei sentimenti puri che non intralciano il corso della vita, che si coltivano perché sono rari, e la cui perdita fa soffrire più di quanto possa far gioire il possederli.

Emma dimagrì, diventò pallida, il viso le si affilò. I capelli neri, i grandi occhi, il naso diritto, il modo di camminare a passettini, il fatto che fosse quasi sempre silenziosa, adesso, davano l’impressione che ella attraversasse l’esistenza sfiorandola appena e recando sulla fronte il segno indistinto di una qualche sublime predestinazione. Era così triste e così calma, al contempo tanto dolce e riservata che accanto a lei ci si sentiva presi da un fascino glaciale, capace di far rabbrividire come capita nelle chiese, ove il profumo dei fiori si unisce al gelo del marmo. Nemmeno gli estranei sfuggivano a questa seduzione. Il farmacista diceva:

«È una donna di grandi qualità, che non sfigurerebbe in una sottoprefettura»

Le borghesi ammiravano in lei il senso dell’economia, i clienti la cortesia, i poveri la carità.

Ma Emma era piena di bramosia, di rabbia, di odio. Quell’abito dalle pieghe diritte nascondeva un cuore sconvolto e le labbra pudiche tacevano le tempeste. Era innamorata di Léon e cercava la solitudine per poter a suo agio dilettarsi con l’immagine di lui. Vederlo di persona significava turbare la voluttà di tale meditazione. Il suono dei suoi passi faceva palpitare il cuore: poi, la sua presenza faceva svanire ogni emozione e in seguito in lei restava soltanto un immenso sbigottimento che si trasformava in tristezza.

Léon non sapeva, quando usciva disperato dalla casa di lei che la signora Bovary correva alla finestra per seguirlo con lo sguardo nella via. Emma si preoccupava per lui, spiava il suo viso, e addirittura inventò tutta una storia per avere il pretesto di vedere la sua camera. Considerava la moglie del farmacista la più felice delle donne perché poteva dormire sotto lo stesso tetto del giovane di studio e i suoi pensieri tornavano sempre a quella casa, come i piccioni del Leon d’Oro che andavano là a bagnarsi nelle grondaie le zampette rosa e le ali bianche. Ma quanto più Emma si rendeva conto di essere innamorata, tanto più cercava di respingere questo amore, di diminuirlo, perché nessuno potesse accorgersene. Soltanto Léon avrebbe dovuto indovinarlo e, affinché ciò fosse possibile, sognava il verificarsi di eventi e catastrofi che avrebbero facilitato le cose. A trattenerla, certo, era la pigrizia, o la paura e anche il pudore. Pensava di averlo respinto ormai troppo lontano, di non essere più in tempo, di aver rovinato tutto. Poi, l’orgoglio, la gioia di poter dire: “Sono una donna onesta” e di guardarsi nello specchio assumendo un’aria rassegnata, la consolavano un po’ del sacrificio che credeva di fare.

A questo punto gli appetiti della carne, la bramosia della ricchezza e le malinconie della passione, si confondevano in un’unica sofferenza; la sua mente, invece di distogliersi da questi pensieri, vi si soffermava sempre più, eccitandosi al dolore e cercandone dappertutto le occasioni. Bastavano, per mandarla in collera, una vivanda mal riuscita, una porta socchiusa, il desiderio non realizzabile di possedere un velluto; soffriva per la mancata felicità, perché i suoi sogni erano troppo alti e la sua casa troppo angusta.

A esasperarla più d’ogni altra cosa era il fatto che Charles sembrava non sospettare il suo tormento. La convinzione che egli aveva di renderla felice le sembrava un insulto idiota e la sicurezza che gliene derivava una vera ingratitudine. Per chi, dunque, si manteneva virtuosa? Non era forse lui l’ostacolo a tutte le felicità, la causa di tutti gli affanni, il fermaglio aguzzo alla fibbia di quella cinghia complicata che la serrava da ogni parte?

Concentrò allora unicamente su di lui i molteplici aspetti dell’odio che nasceva dalle sue sofferenze; ogni sforzo per diminuirlo serviva soltanto a farlo crescere sempre più, e questa pena inutile si aggiunse agli altri motivi di disperazione, contribuendo ad allontanare irrimediabilmente Emma dal marito. La stessa mitezza di lui nei suoi confronti la spingeva alla ribellione. La mediocrità domestica le suggeriva capricci lussuosi, l’affetto coniugale desideri di adulterio. Avrebbe voluto che Charles la percuotesse per avere una ragione di detestarlo, per vendicarsene. Si stupiva a volte degli atroci pensieri che le attraversavano la mente: e doveva continuare a sorridere, sentendosi dire quanto era felice, fingere di esserlo e lasciarlo credere.

Eppure quella ipocrisia la disgustava. La prendeva la tentazione di fuggire con Léon in qualche posto, ben lontano di lì, per incominciare una nuova vita; ma vedeva, nell’anima sua, aprirsi davanti a lei un baratro oscuro, dai contorni vaghi.

“Tanto non mi ama più” pensava. “Che cosa potrebbe succedermi, quale aiuto posso aspettarmi, quale consolazione, quale sollievo?”

Rimaneva affranta, ansimante, inerte, singhiozzando sommessamente e versando fiumi di lacrime.

«Perché non dirlo al dottore?» domandava la domestica quando la sorprendeva durante queste crisi.

«Sono i nervi» rispondeva Emma. «Non gliene parlare, gli daresti un dispiacere.»

«Ah, sì» riprendeva Félicité «lei è proprio come la Guérine, la figlia di papà Guérin, il pescatore di Pollet, li ho conosciuti a Dieppe, prima di venire da lei. Era così triste, così triste, che, a vederla in piedi sulla soglia di casa, faceva l’effetto di un lenzuolo funebre steso davanti alla porta. La sua malattia, a quanto pareva, era una specie di nebbia che aveva dentro la testa. I medici non potevano farle niente, e il curato nemmeno. Quando la prendeva più forte il male, andava sulla spiaggia, tutta sola, e il tenente della dogana, facendo il suo giro, la trovava là, distesa bocconi sulla ghiaia, a piangere. Poi, dopo sposata, le è passato, dicono.»

«Per me, invece,» diceva Emma «è cominciato dopo il matrimonio.»

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