Ott 102018
 

Trascorsero sei settimane senza che Rodolphe si facesse vivo. Egli comparve infine, una sera.

Si era detto:

“Non facciamoci vedere troppo presto, sarebbe un errore”.

E, alla fine della settimana, era partito per la caccia.

Trascorso questo periodo, aveva pensato che fosse ormai troppo tardi, ma si era consolato con questo ragionamento:

“Se è vero che mi ha amato fin dal primo giorno, la smania di rivedermi farà sì che mi ami ancora di più! E allora andiamo avanti così”.

Si rese conto di non avere sbagliato i calcoli quando, entrando nel salotto, vide Emma impallidire. Era sola. il giorno declinava. Le tendine di mussola, lungo i vetri, rendevano più fitto il crepuscolo, e la doratura del barometro, sul quale andava a cadere un raggio di sole, accendeva fiammelle nello specchio, fra le ramificazioni della madrepora.

Rodolphe rimase in piedi. Emma riuscì a rispondere a stento alle sue frasi di cortesia.

«Sono stato molto occupato» disse Rodolphe «e anche indisposto.»

«Gravemente?» domandò Emma con vivacità.

«Ebbene, no» fece Rodolphe, sedendole accanto su uno sgabello. «La vera ragione è che non sono voluto ritornare.»

«Perché?»

«Non lo indovina?»

La guardò di nuovo con tanta intensità da costringerla ad abbassare la testa arrossendo. Disse:

«Emma…»

«Signore!» fece lei, scostandosi un poco.

«Ah, vede?» egli disse con voce melanconica «Avevo ragione di non tornare, lei non mi consente neppure di pronunciare questo nome, questo nome che riempie tutta l’anima mia e che mi è sfuggito. Signora Bovary!… Tutti si rivolgono a lei in questo modo!… E non è neppure il suo nome, è il nome di un altro!»

E ripeté:

«Di un altro!»

Nascose il viso fra le mani.

«Si, penso a lei senza posa… Il suo ricordo mi fa impazzire! Ah, mi perdoni!… È meglio che me ne vada… Addio!… Andrò lontano… così lontano che non sentirà più parlare di me!… Eppure, ancora adesso, non so quale forza mi abbia spinto verso di lei. Non si può lottare contro il Cielo, non si può resistere al sorriso degli angeli! Ci si lascia trascinare perché è bello, affascinante, adorabile!»

Era la prima volta che Emma si sentiva rivolgere frasi simili e il suo orgoglio, come chi si rilassi in un bagno turco, si crogiolava tutto al calore di quelle parole.

«Ma anche se non sono venuto da lei, se non ho potuto vederla, ho almeno contemplato tutto ciò che la circonda. La notte, tutte le notti, mi alzavo, arrivavo fin qui, guardavo la sua casa, il tetto che brillava sotto la luna, gli alberi del giardino che si dondolavano sotto la sua finestra, e una lampada fioca, un bagliore che splendeva al di là dei vetri, nell’ombra. Ah! Lei non sospettava neppure che, così vicino, e al contempo così lontano, vi fosse un povero infelice…»

Emma si voltò verso di lui con un singhiozzo.

«Oh! Com’è buono lei!» disse.

«No, io l’amo, ecco tutto! E lei lo sa bene! Mi dica una sola parola, una parola soltanto!»

E Rodolphe, a poco a poco, si lasciò scivolare dallo sgabello fino a terra; in quel momento si sentì un rumore di zoccoli, in cucina, ed egli si accorse che la porta del salotto non era chiusa.

«Sia tanto buona da soddisfare almeno un mio capriccio» soggiunse rialzandosi.

Desiderava visitare la casa, gli avrebbe fatto piacere sapere com’era, e siccome la signora Bovary non trovava in ciò niente di riprovevole, stavano alzandosi entrambi, quando Charles entrò.

«Buongiorno dottore» gli disse Rodolphe.

Il medico, colpito dal titolo inconsueto, si profuse in ossequi, e l’altro ne approfittò per ricomporsi un poco.

«La signora mi parlava della sua salute…» disse.

Charles l’interruppe: era molto preoccupato, infatti; i malori di Emma erano ricominciati. Rodolphe domandò allora se l’equitazione avrebbe potuto giovarle.

«Certo, sarebbe eccellente, perfetto! Ecco un’idea! Dovresti seguire questo consiglio.»

E siccome Emma obiettava di non avere un cavallo, il signor Rodolphe gliene offrì uno; Emma rifiutò l’offerta e lui non insistette. Poi, per giustificare la propria visita, si mise a parlare del suo carrettiere, l’uomo che era stato salassato e soffriva ancora di stordimenti.

«Passerò a vederlo» disse Bovary.

«No, no, glielo manderò; lo accompagnerò io, sarà più comodo per lei.»

«Molto bene, la ringrazio.»

E, quando fu solo con Emma, Charles le domandò:

«Perché non accetti l’offerta del signor Boulanger? È stato molto gentile».

Emma assunse un’aria imbronciata, trovò mille scuse, e dichiarò infine che la cosa poteva sembrare strana.

«Ah! Me ne infischio!» disse Charles con un gesto di noncuranza «La salute innanzitutto. E poi credo che tu abbia torto.»

«Già, ma come posso montare a cavallo se non ho un costume da amazzone?»

«Ne ordineremo uno!» rispose lui.

L’abito da amazzone la convinse.

Quando fu pronto, Charles scrisse al signor Boulanger che sua moglie era disposta ad accettare la proposta e che entrambi contavano sulla sua gentilezza.

L’indomani a mezzogiorno Rodolphe giunse davanti alla porta della casa di Charles con due cavalli da sella. Uno di essi aveva sui finimenti, accanto agli orecchi, due pompon rosa; in quanto alla sella da donna, era in pelle di daino.

Rodolphe calzava alti stivali morbidi e se li era messi dicendosi che certo Emma non ne aveva mai veduti di simili; infatti ella restò incantata dal suo aspetto, quando lui apparve sul pianerottolo, con l’ampia giacca di velluto e i pantaloni di tessuto di maglia, bianchi. Era pronta e lo aspettava.

Justin uscì dalla farmacia per vederla e anche lo speziale si scomodò per fare al signor Boulanger alcune raccomandazioni.

«Le disgrazie sono sempre pronte! State attenti! Forse i suoi cavalli sono focosi.»

Emma sentì un rumore proveniente dall’alto: era Félicité che tamburellava sul vetro per divertire la piccola Berthe. La bimba mandò un bacio alla madre da lontano; Emma rispose agitando l’impugnatura del frustino.

«Buona passeggiata!» gridò Homais «Siate prudenti, soprattutto, siate prudenti!»

E agitava il giornale, guardandoli allontanarsi.

Non appena sentì sotto gli zoccoli il terreno soffice, il cavallo di Emma si mise al galoppo e Rodolphe le si affiancò. Di tanto in tanto scambiavano qualche parola. Il viso un po’ chino, la mano alzata e il braccio disteso, Emma si abbandonava alla cadenza del movimento che la cullava sulla sella.

Ai piedi del colle, Rodolphe allentò le redini, i cavalli partirono entrambi con uno scatto improvviso e, giunti più in alto, si fermarono con altrettanta subitaneità, il velo azzurro di Emma ricadde.

Si era ai primi di ottobre e sulla campagna si stendeva la nebbia. All’orizzonte, contro i profili delle colline, si alzavano le brume, sfilacciandosi, salendo per poi dissolversi. Di quando in quando, attraverso uno squarcio delle nubi, penetrava un raggio di sole e lontano si scorgevano i tetti di Yonville, i giardini sulle rive del fiume, i cortili, l’edificio e il campanile della chiesa. Emma socchiuse gli occhi per meglio individuare la sua casa, e mai come ora il povero villaggio in cui viveva le era sembrato tanto piccolo. Dall’altezza alla quale si trovavano, la valle appariva come un immenso lago incolore, dal quale si levassero vapori nell’aria. I gruppi di alberi emergevano qua e là come rocce nere e le alte file di pioppi spuntavano sopra la bruma, simili a greti sabbiosi che il vento smuovesse.

Sul pascolo, in mezzo ai pini, l’aria aveva un colore cupo La terra, rossiccia come polvere di tabacco, smorzava il suono dei passi e i cavalli spingevano davanti a sé camminando, con i ferri degli zoccoli, le pigne cadute.

Rodolphe ed Emma seguirono così il limitare del bosco. Per evitare lo sguardo del compagno, di tanto in tanto la signora Bovary voltava la testa e allora scorgeva soltanto i tronchi allineati dei pini, e l’uniforme susseguirsi degli alberi le dava una specie di lieve capogiro. I cavalli stronfiavano. Il cuoio delle selle gemeva.

Nell’istante in cui si addentrarono nel bosco, apparve il sole.

«Dio ci protegge!» disse Rodolphe.

«Crede?» domandò Emma.

«Andiamo avanti ancora, andiamo più avanti!» riprese lui.

Fece schioccare la lingua. Le due bestie partirono al galoppo.

Ai margini del sentiero, lunghe felci si impigliarono nella staffa di Emma. Rodolphe, continuando a procedere, si chinava e di mano in mano le toglieva. Altre volte per evitare i rami bassi, le passava vicino ed Emma sentiva il ginocchio di lui sfiorarle la gamba. Il cielo si era fatto azzurro. Le foglie rimanevano immobili. Incontrarono radure coperte di erica in fiore e sul terreno fra gli alberi, si alternavano tappeti di violette con distese di foglie cadute, grigie fulve o dorate, a seconda della specie. Spesso, nel folto dei cespugli, si sentiva un fruscio d’ali, o il grido rauco e malinconico dei corvi che si alzavano a volo fra le querce.

Smontarono e Rodolphe legò i cavalli. Emma lo precedette sul musco, fra i solchi lasciati dai carri.

Ma l’abito troppo lungo la impacciava, sebbene tenesse alzato lo strascico. Rodolphe, seguendola, contemplava, fra il panno nero della gonna e lo stivaletto anch’esso nero, l’eleganza della calza bianca e gli sembrava di avere dinanzi agli occhi qualcosa della sua nudità.

Emma si fermò.

«Sono stanca» disse.

«Andiamo avanti ancora soltanto un poco. Coraggio» rispose lui.

Cento passi più avanti Emma si fermò di nuovo e, attraverso la trasparenza bluastra del velo che le scendeva obliquo dal cappello di foggia maschile fino al fianco si intravedeva il suo viso, come se ella stesse nuotando sotto la superficie di acque azzurrine.

«Ma dove andiamo?»

Rodolphe non rispose. Emma respirava affannosamente. Egli scrutava attorno a sé, mordicchiandosi i baffi.

Giunsero in una radura ove erano state abbattute alcune giovani querce. Sedettero su un tronco d’albero caduto e Rodolphe ricominciò a parlarle del suo amore per lei

Dapprima cercò di non impaurirla con complimenti audaci. Si mantenne calmo, serio, malinconico.

Emma l’ascoltava a capo chino, smuovendo con la punta del piede le schegge di legno, per terra

«I nostri destini son forse ormai uniti?»

Quando Rodolphe pronunciò queste parole Emma si alzò per andarsene e rispose:

«Eh!, no! E lo sa benissimo. È una cosa impossibile!»

Rodolphe l’afferrò per il polso. Emma si fermò. Poi, dopo averlo fissato per un lungo istante con uno sguardo affettuoso e commosso, disse con vivacità:

«Ah! Senta, non ne parliamo più. Dove sono i cavalli? Torniamo».

Rodolphe fece un gesto di noia e di rabbia. Emma ripeté:

«Dove sono i cavalli? Dove sono i cavalli?»

Sorridente e con una strana espressione sul viso, gli occhi fissi e i denti serrati, Rodolphe avanzò verso di lei allargando le braccia. Emma indietreggiò tremando e balbettò:

«Oh! Mi fa paura Mi vuol fare del male? Andiamocene!»

«Se proprio è indispensabile» rispose lui cambiando atteggiamento.

Ridivenne di colpo rispettoso, carezzevole, timido. Le diede il braccio e si incamminarono sulla via del ritorno.

«Che cos’ha?» domandò Rodolphe «E perché? Non l’ho capito. Sono sicuro che lei si sbaglia. Non vuole convincersi che vive nella mia anima come una madonna, su un piedistallo ben alto, solido e immacolato. Ma ho bisogno di lei per vivere. Ho bisogno di guardare i suoi occhi, di ascoltare la sua voce, di sapere che qualche volta pensa a me. Perché non vuole essere mia amica, mia sorella, il mio angelo?»

E le circondò la vita con il braccio. Emma tentò di liberarsi ma senza energia. Rodolphe la sostenne così, mentre camminavano.

Sentirono i cavalli che pascolavano fra il fogliame.

«Restiamo ancora un poco!» disse Rodolphe «Non andiamo già via! Rimanga!»

La condusse più lontano, aggirando un piccolo stagno sulla cui superficie verdeggiavano le lenticchie d’acqua. Fra i giunchi stavano immobili le ninfee, ormai appassite. Al rumore dei passi, i ranocchi saltarono per cercare un nascondiglio.

«Faccio male, faccio male!» diceva Emma «Sono pazza a darle retta.»

«Perché? Emma!… Emma!»

«Oh, Rodolphe!» sussurrò lentamente la giovane signora, abbandonandoglisi sulla spalla.

Il panno dell’abito di lei aderì al velluto della sua giacca. Ella arrovesciò il collo candido, che un sospiro faceva palpitare, disfatta, in lacrime, con un lungo fremito, nascondendo il viso, e si abbandonò.

Scendevano le prime ombre della sera. Il sole basso all’orizzonte, penetrando con i suoi raggi orizzontalmente fra i rami l’abbagliava. Qua e là, intorno a lei, fra le foglie e sul terreno, tremolavano chiazze luminose, simili a penne di colibrì che questi uccelletti avessero perduto in volo. Il silenzio avvolgeva tutto, dagli alberi sembrava sprigionarsi una sorta di dolcezza nuova. Emma ascoltava il proprio cuore mentre ricominciava a battere e il sangue, che le scorreva nelle vene come un fiume di latte. In quel momento udì lontanissimo, al di là del bosco, sulle colline, un grido indefinibile e prolungato, un suono strascicato, e l’ascoltò in silenzio mescolarsi come una musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi eccitati. Rodolphe un sigaro fra i denti, aggiustava con il temperino una delle briglie che si era rotta.

Tornarono a Yonville per la stessa strada. Riconobbero sul fango le tracce affiancate dei cavalli, gli stessi cespugli, le stesse pietre in mezzo all’erba. Nulla era mutato intorno a loro; eppure per Emma era accaduto qualcosa di più importante di un cataclisma. Rodolphe, di tanto in tanto, si protendeva a prenderle la mano per baciarla.

Emma cavalcava in modo affascinante. Si teneva diritta sulla vita sottile, le ginocchia piegate sulla criniera della cavalcatura, le gote ravvivate dal contatto con l’aria aperta, tutta avvolta dal rosseggiante crepuscolo.

Entrarono a Yonville caracollando sul selciato.

Dalle finestre la stavano spiando.

A cena, il marito trovò che aveva una bella cera. Emma fece finta di non sentire quando le domandò notizie della passeggiata; rimase con il gomito appoggiato accanto al piatto, fra i due candelieri accesi.

«Emma!» disse Charles.

«Dimmi.»

«Ecco, oggi nel pomeriggio, sono passato dal signor Alexandre; ha una puledra non più tanto giovane ma ancora molto bella, soltanto con i ginocchi un po’ gonfi. Si potrebbe averla ne sono certo, per un centinaio di scudi…»

Soggiunse:

«Pensando di farti piacere, l’ho fermata… l’ho comprata… Ho fatto bene? Dimmi.» Emma mosse il capo in segno di assenso; dopo un quarto d’ora domandò:

«Esci, stasera?»

«Sì, perché?»

«Oh! Nulla, nulla caro.»

E, non appena si fu sbarazzata di Charles, salì a chiudersi in camera sua.

Dapprima provò una specie di stordimento, vedeva gli alberi, i sentieri, i fossati, Rodolphe, sentiva le sue braccia intorno a sé, mentre le foglie fremevano e il vento sibilava fra i giunchi.

Guardandosi nello specchio, si stupì dell’aspetto del proprio viso. Non aveva mai avuto gli occhi tanto grandi, così neri e profondi. Qualcosa di impalpabile, diffuso su tutta la sua persona, la trasfigurava.

Andava ripetendosi: «Ho un amante! Ho un amante!» e questa idea la deliziava come se le avessero promesso una seconda adolescenza. Finalmente avrebbe posseduto quelle famose gioie che dà l’amore, quella febbre di felicità che non sperava più di provare. Stava per entrare in quel mondo meraviglioso ove tutto è passione, estasi, delizia; un roseo universo la circondava, i più alti sentimenti splendevano sfiorati dal suo pensiero, l’esistenza di ogni giorno era confinata lontano, laggiù in fondo, nell’ombra, nei vuoti che si trovavano fra quelle straordinarie altezze.

Rammentò le eroine dei libri che aveva letto e la lirica legione di quelle donne infedeli che Emma sentiva sorelle, fece coro nella sua memoria con voci che la incantavano. Divenne ella stessa parte integrante di queste invenzioni. Vedeva avverarsi il lungo sogno della sua giovinezza, e si immedesimava in quel ruolo di donna passionale che aveva tanto desiderato. Oltre a ciò, assaporava la gioia della vendetta. Non aveva forse sofferto abbastanza? Ma ora sentiva di essere la trionfatrice e l’amore, così a lungo conculcato, sgorgava con impeto e con gioiosa turbolenza. Emma lo assaporava senza rimorsi, senza inquietudine, senza turbamento.

Il giorno dopo trascorse in una rinnovata dolcezza. I due amanti si fecero reciproci giuramenti, Emma gli narrò le sue malinconie. Rodolphe l’interrompeva baciandola e lei gli domandava, contemplando le palpebre di lui a metà chiuse, di chiamarla ancora per nome e di ripeterle che l’amava. Si trovavano nel bosco, come il giorno prima, in una capanna di zoccolai, con le pareti di paglia e il tetto tanto basso che bisognava tenersi curvi. Erano seduti l’uno contro l’altra su un letto di foglie secche.

A partire da quel giorno, si scrissero con regolarità tutte le sere. Emma metteva le proprie lettere in una fessura fra le pietre della terrazza in fondo al giardino, vicino al fiume. Rodolphe veniva a prenderle e ne lasciava una delle sue, alle quali Emma rimproverava sempre l’eccessiva brevità.

Un mattino che Charles era uscito prima dell’alba, Emma fu presa dal capriccio di rivedere subito Rodolphe. Le sarebbe stato possibile andare alla Huchette, restarvi un’ora e tornare a Yonville mentre ancora tutti dormivano. Questo pensiero la faceva ansimare di desiderio; si trovò in un attimo in mezzo ai prati e procedette a passi rapidi senza voltarsi indietro.

Faceva appena giorno. Emma riconobbe da lontano la casa del suo amante, con le due banderuole a coda di rondine che si stagliavano nere contro il pallido chiarore dell’alba.

Dopo il cortile della fattoria, v’era un edificio che doveva essere il castello. Emma vi entrò, quasi che i muri al suo passaggio si fossero aperti da soli. Uno scalone diritto saliva verso un corridoio. Emma tentò la maniglia di una porta e d’improvviso, in fondo alla camera scorse un uomo che dormiva. Era Rodolphe. Ella lanciò un grido.

«Tu qui! Tu qui!» ripeteva lui «Come hai fatto a venire?… Hai l’abito bagnato!»

«Ti amo» rispose lei gettandogli le braccia al collo.

Questa prima audacia le riuscì perfettamente e da allora ogni volta che Charles usciva di buon mattino, Emma si vestiva in fretta e scendeva a passi felpati la scala che conduceva in riva al fiume.

Ma, quando la passerella per il bestiame non si trovava al suo posto, bisognava seguire i muri che costeggiavano il corso d’acqua; l’argine era scivoloso ed Emma si aggrappava con le mani, per non cadere, ai ciuffi di violacciocche appassite. Poi attraversava i campi coltivati ove affondava, inciampava, rimaneva invischiata con i suoi stivaletti leggeri. Il fazzoletto di seta, annodato sul capo, svolazzava nel vento in mezzo alle alte erbe; Emma aveva una gran paura dei buoi e si metteva spesso a correre. Arrivava affannata, con le gote accese, fragrante in tutta la persona di un fresco profumo di linfa, di erba e di aria libera. Rodolphe a quell’ora dormiva ancora. Era come se una mattinata di primavera entrasse nella sua camera.

Le tendine gialle alle finestre lasciavano entrare un dolce e greve chiarore dorato. Emma avanzava a tastoni, strizzando gli occhi, mentre le gocce di rugiada dorata sui suoi capelli si trasformavano in una specie d diadema di topazi intorno al viso. Rodolphe, ridendo, l’attirava a sé e la stringeva sul cuore.

In seguito Emma osservava la stanza, apriva i cassetti dei mobili, si pettinava con il pettine di lui, si guardava nello specchio da barba. Qualche volta, perfino, si metteva fra i denti il cannello di una grossa pipa che Rodolphe teneva sul comodino da notte, in mezzo a limoni, zollette di zucchero, accanto a una bottiglia d’acqua.

Occorreva un buon quarto d’ora prima che avessero terminato di dirsi addio. Emma piangeva, non avrebbe mai voluto dover lasciare Rodolphe. Qualcosa di più forte di lei la spingeva nelle sue braccia. Un giorno, però, vedendola giungere all’improvviso, Rodolphe si rabbuiò in volto, come chi abbia una contrarietà.

«Cos’è che ti turba?» domandò Emma «Dimmelo.»

E infine Rodolphe, con un’aria molto seria, le fece osservare che queste visite stavano diventando imprudenti e che lei avrebbe finito con il compromettersi.

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