Set 012018
 

Il castello, una costruzione moderna, all’italiana, con due ale che si protendevano in avanti e tre scaloni, si ergeva in fondo a un immenso prato nel quale pascolavano alcune mucche fra gruppi di grandi alberi distanziati fra loro. Arbusti a cespuglio, rododendri, siringhe, palle di neve, gonfiavano i loro irregolari ciuffi di vegetazione sulla linea curva del sentiero cosparso di sabbia. Un fiumicello scorreva sotto un ponte; in mezzo alla bruma si intravedevano alcune capanne dal tetto di paglia sparse qua e là sulla distesa erbosa che saliva sui due fianchi in dolci pendii coperti di boschi. Dietro, nel fitto, v’erano, su due file parallele, le rimesse e le scuderie, ultimi resti dell’antico castello demolito.

Il carrozzino di Charles si fermò davanti allo scalone centrale: comparvero alcuni domestici e il marchese si fece avanti offrendo il braccio alla moglie del medico ed entrò con lei nel vestibolo.

Questo locale era pavimentato con lastre di marmo e aveva un altissimo soffitto, tanto che i passi e le voci vi risonavano come in chiesa. Di fronte saliva uno scalone diritto, a sinistra una galleria, che dava sul giardino, conduceva alla sala da biliardo, dalla porta aperta della quale proveniva il suono prodotto dal cozzare delle biglie d’avorio. Quando Emma l’attraversò per andare nel salone, vide, intenti al gioco, uomini dal viso grave, con il mento affondato nelle alte cravatte, tutti con i segni delle onorificenze ricevute, i quali sorridevano silenziosamente usando le stecche. Sul rivestimento di legno scuro delle pareti, grandi quadri ostentavano nella parte bassa delle cornici dorate nomi scritti in caratteri neri. Vi lesse: Jean-Antoine d’Andervilliers d’Yvervonville, conte di Vaubyessard e barone della Fresnay, caduto nella battaglia di Coutras il 20 ottobre 1587. E, su un altro: Jean-Antoine Henry-Guy d’Andervilliers della Vaubyessard, ammiraglio di Francia e cavaliere dell’Ordine di San Michele, ferito nel combattimento della Hougue-Saint-Vaast il 29 maggio 1692, morto alla Vaubyessard il 23 gennaio 1693. Riuscì a distinguere a malapena gli altri perché la luce delle lampade, concentrata sul tappeto verde del biliardo, lasciava in ombra il resto della stanza. Le tele orizzontali ne restavano oscurate e su di esse l’ombra veniva spezzata da sottili aghi luminosi lungo le screpolature della vernice. E in tutti quei grandi rettangoli neri incorniciati d’oro, spiccavano, qua e là, soltanto le parti più chiare della pittura, una fronte pallida, due occhi che fissavano la sala, parrucche fluenti su spalle incipriate, abiti rossi, o la fibbia di una giarrettiera sopra un polpaccio grassoccio.

Il marchese aprì la porta del salone; una delle signore si alzò (la marchesa in persona), andò incontro a Emma, la fece sedere accanto a sé su un divanetto a esse, e si mise a chiacchierare amichevolmente come se la conoscesse da lunghissimo tempo.

Era una donna sulla quarantina, aveva belle spalle, un naso aquilino e la voce strascicata; quella sera portava sui capelli castani una semplice acconciatura di pizzo che ricadeva all’indietro in forma triangolare. Una giovane donna bionda sedeva accanto a lei su una sedia dall’alta spalliera, accanto al caminetto, alcuni uomini, tutti con un fiore all’occhiello, chiacchieravano con delle signore.

La cena fu servita alle sette. Gli uomini, più numerosi, sedettero alla prima tavola preparata nel vestibolo, le signore alla seconda, nella sala da pranzo, con il marchese e la marchesa.

Entrando, Emma si sentì investita da una folata calda, nella quale si mescolavano i profumi dei fiori, della bella biancheria, delle carni cucinate e dei tartufi. Le candele dei candelabri si specchiavano come fiammelle allungate nelle campane d’argento, i cristalli sfaccettati, velati da un vapore opaco, si rimandavano pallidi raggi di luce lungo la tavola per tutta la lunghezza della quale erano disposti in linea diritta mazzolini di fiori, e, nei piatti decorati con una larga bordura, i tovaglioli piegati a forma di mitra avevano fra le due pieghe un panino ovale. Le zampe rosse dei gamberi sporgevano dall’orlo dei piatti; sul musco posto dentro cestini traforati grossi frutti erano disposti in bell’ordine: dalle quaglie ancora sotto le loro piume si levavano volute di fumo. Il maggiordomo, con le calze di seta, i pantaloni a coscia, la cravatta bianca a fiocco, grave come un giudice, passava fra le spalle dei convitati i piatti con le carni già tagliate in pezzi che, quando venivano scelti, egli faceva cadere con un solo colpo di cucchiaio nel piatto del commensale. Una statua di donna, avvolta fino al mento in drappeggi, guardava immobile la sala piena di gente, dall’alto di una grossa stufa di maiolica orlata di ottone.

La signora Bovary notò che molte delle signore non avevano messo i guanti nel bicchiere.

Seduto a capotavola, solo in mezzo alle signore, curvo sul piatto e con il tovagliolo annodato al collo come un bambino, un vecchio mangiava sbrodolandosi con i sughi delle vivande. Aveva gli occhi infiammati e portava il codino annodato con un sottile nastro nero. Era il suocero del marchese, il vecchio duca di Laverdère, il quale, si diceva, aveva goduto i favori del conte d’Artois più d’ogni altro, al tempo delle partite di caccia al Vaudreil, presso il marchese di Conflans, ed era stato l’amante della regina Maria Antonietta fra de Coigny e de Lauzun. Aveva condotto una vita clamorosa e debosciata, piena di duelli, di scommesse, di donne rapite, dilapidando la sua fortuna e gettando nella costernazione l’intera famiglia. Un domestico, in piedi dietro la seggiola, gli nominava ad alta voce nell’orecchio i piatti che lui gli indicava con il dito, balbettando qualcosa. Lo sguardo di Emma era irresistibilmente attratto da questo vegliardo dalle labbra cascanti, come da qualcosa di straordinario e di augusto: egli aveva vissuto a corte e si era coricato in letti di regine.

Venne servito lo champagne ghiacciato. A Emma corse un fremito sulla pelle quando ne sentì il gelo sulle labbra. Non aveva mai visto le melagrane né assaggiato l’ananasso. Anche lo zucchero le sembrò più fine e più bianco di com’era abituata a vederlo.

Terminata la cena, le signore salirono nelle loro stanze per prepararsi al ballo. Emma si agghindò con la scrupolosa attenzione di un’attrice al suo debutto. Pettinò i capelli come le era stato consigliato dal parrucchiere, poi indossò una veste di lana leggera che aveva disteso sul letto. I pantaloni di Charles avevano la cintura troppo stretta.

«Le staffe mi daranno fastidio, per ballare» egli disse.

«Ballare?» domandò Emma.

«Sì!»

«Ma hai perso la testa? Vuoi renderti ridicolo? Rimani a sedere. È più dignitoso per un medico» soggiunse.

Charles tacque. Camminava su e giù, aspettando che Emma fosse pronta.

Standole alle spalle la vedeva nello specchio, fra due candelabri. Gli occhi neri parevano più fondi ancora. I capelli, dolcemente rigonfi sugli orecchi, splendevano di riflessi azzurri. Sui petali di una rosa dal gambo sottile, infilata nello chignon, tremolavano gocce di rugiada spruzzatevi ad arte. Indossava un abito di un color zafferano chiaro, drappeggiato da tre mazzi di roselline circondate di foglie verdi.

Charles fece per baciarla su una spalla.

«Lasciami,» disse Emma «mi sciupi il vestito».

Un ritornello eseguito da un violino giunse fino a loro insieme con il suono di un corno. Emma discese lo scalone facendo uno sforzo per non correre.

Le danze erano cominciate con una quadriglia. Stava arrivando gente. C’era ressa. Ella sedette su una panchetta vicino alla porta.

Quando la contraddanza ebbe termine, il centro della sala rimase vuoto per i gruppi di uomini che chiacchieravano in piedi e per i domestici in livrea che giravano con grandi vassoi. Le signore, sedute in fila, agitavano i ventagli dipinti, nascondevano a metà i sorrisi dietro i loro bouquet e facevano circolare con gesti graziosi i flaconcini dal tappo d’oro fra le mani strette nei guanti bianchi che rivelavano la forma delle unghie e serravano i polsi. Le guarnizioni di pizzo fremevano sui corsetti, le spille di diamanti scintillavano sui petti, i braccialetti a ciondoli tintinnavano sulle braccia nude. Le pettinature aderenti sulla fronte e raccolte in chignon sulla nuca, erano ornate da coroncine, grappoli o ramoscelli di non ti scordar di me, di gelsomini, di fiori di melograno, spighe e fiordalisi. Tranquille, al proprio posto, madri dal viso arcigno sfoggiavano turbanti rossi.

Emma aveva un po’ di batticuore quando, mentre il suo cavaliere la teneva per la punta delle dita, si allineò con gli altri in attesa del colpo di archetto che dava inizio alla danza. Ben presto l’emozione svanì. Ondeggiando al ritmo dell’orchestra scivolò in avanti movendo lievemente il capo. Mentre ascoltava i virtuosismi del violino che di tanto in tanto sonava un a solo quando gli altri strumenti tacevano, un sorriso le salì alle labbra; in questi istanti era possibile udire il suono prodotto dai luigi d’oro che si rovesciavano sul tappeto verde della vicina sala da gioco. Poi, con uno squillo sonoro della cornetta, tutta l’orchestra riprendeva a suonare. I piedi segnavano ancora una volta il ritmo, le gonne si gonfiavano e frusciavano, le mani si stringevano e si lasciavano, gli occhi, che un momento prima si erano abbassati, si rialzavano e fissavano altri occhi.

Alcuni uomini, una quindicina, di un’età che andava dai venticinque ai quarant’anni, sparsi fra i cavalieri o fra coloro che chiacchieravano sulla soglia delle porte, si facevano notare nella folla, per una certa qual aria di famiglia, evidente a prescindere dall’età, dall’abbigliamento o dalla fisionomia.

Gli abiti di queste persone, di ottimo taglio, sembravano fatti di un panno più morbido; i capelli, ondulati sulle tempie, trattati con lozioni più fini. Avevano il colorito della ricchezza, quella carnagione bianca che prende risalto dal colore delle porcellane, dalla lucentezza delle sete, dalle vernici dei mobili di pregio, e che si mantiene tale attraverso un regime moderato, ma fatto di cibi squisiti. Le cravatte basse indossate da queste persone consentivano loro di muovere il capo a proprio agio. I lunghi favoriti ricadevano su colletti rovesciati e questi gentiluomini solevano asciugarsi le labbra usando fazzoletti ricamati con grandi cifre e profumati con essenze soavi. Quelli di loro che cominciavano a invecchiare mantenevano un aspetto giovanile, mentre un’aria matura traspariva dalle fattezze dei giovani. Nei loro sguardi indifferenti aleggiava la tranquillità delle passioni sempre soddisfatte, e attraverso le maniere piacevoli traspariva quella particolare durezza che deriva dal dominio delle cose non del tutto facili, in cui la forza si esercita o la vanità si diverte: la doma dei cavalli di razza o l’amicizia delle donne perdute.

A pochi passi da Emma, un gentiluomo in abito blu parlava dell’Italia con una giovane fanciulla pallida ingioiellata di perle. Magnificavano l’imponenza del colonnato di San Pietro, Tivoli, il Vesuvio, Castellamare e le Cascine, le rose di Genova e il Colosseo al chiaro di luna. Con l’altro orecchio, Emma ascoltava una conversazione piena di parole per lei incomprensibili. C’era ressa intorno a un giovanotto che aveva battuto, la settimana precedente, Miss Arabelle e Romulus, e aveva guadagnato duemila luigi saltando un fosso in Inghilterra. Uno si lamentava dei suoi cavalli da corsa che ingrassavano, un altro degli errori di stampa che avevano snaturato il nome del suo puledro.

L’aria nella sala da ballo era divenuta greve; la luce dei lampadari si affievoliva. Molti invitati andavano ad affollare la sala del biliardo. Un domestico salì su una sedia e ruppe due vetri; il rumore del cristallo in frantumi fece volgere il capo alla signora Bovary che vide, attraverso le vetrate, i volti curiosi dei contadini. Questo le ricordò i Bertaux. Rivide la fattoria, lo stagno melmoso, suo padre con il camiciotto nel frutteto, e lei stessa nell’atto di scremare, come faceva un tempo, con un dito, le ciotole di latte nella latteria. Ma nello sfolgorio dell’attuale realtà, la vita di un tempo, così nitida nel ricordo fino a un attimo prima, si dissolveva senza lasciar tracce, tanto da farle dubitare di averla davvero vissuta. Era qui: oltre i confini della sala da ballo non esistevano che le tenebre, avvolgenti tutto il resto. Stava gustando un gelato al maraschino; lo reggeva con la mano sinistra in una conchiglia dorata e lo assaporava con gli occhi socchiusi.

Vicino a lei, una signora lasciò cadere il ventaglio, mentre passava uno dei ballerini.

«Sarebbe così gentile, signore,» disse la dama «da volermi raccogliere il ventaglio? Mi è caduto dietro il divano.»

Il giovanotto si chinò e, mentre faceva il gesto di tendere il braccio, Emma vide la mano della giovane signora gettargli nel cappello qualcosa di bianco, piegato a triangolo. Egli raccolse il ventaglio, lo porse rispettosamente alla dama che ringraziò con un cenno del capo e prese ad aspirare il profumo del suo bouquet.

Dopo la cena, nel corso della quale erano stati serviti molti vini spagnoli e del Reno, zuppe di frutti di mare e di latte di mandorle, pudding alla Trafalgar e ogni sorta di carni fredde circondate da gelatine tremolanti nei piatti, le carrozze, una dopo l’altra, cominciarono ad andarsene. Scostando un angolo delle tende di mussolina si vedevano le luci delle loro lanterne scivolare nel buio. I divani restarono vuoti; soltanto qualche giocatore si tratteneva ancora intorno ai tavoli. I musicisti si rinfrescavano la punta delle dita umettandole di saliva; Charles era mezzo addormentato, con la schiena appoggiata contro una porta.

Alle tre del mattino incominciò il cotillon. Emma non sapeva ballare il valzer. Tutte le altre signore lo ballavano, anche la signorina d’Andervilliers e la marchesa; erano rimasti soltanto gli ospiti che dormivano al castello, una dozzina di persone circa.

Ciò nonostante uno dei ballerini, che tutti chiamavano familiarmente Visconte e che indossava un panciotto molto aperto e assai ben tagliato, invitò per la seconda volta la signora Bovary, assicurandole che avrebbe pensato lui a guidarla e che lei se la sarebbe cavata benissimo.

Cominciarono a ballare, adagio, e poi sempre più in fretta, giravano e tutto girava intorno a loro, le lampade, i mobili, le pareti, il pavimento, come un disco su un perno. Quando passavano vicino alle porte, l’orlo della gonna di Emma si avvolgeva intorno ai pantaloni del suo cavaliere, le loro gambe si incrociavano; egli abbassava lo sguardo su di lei, e incontrava i suoi occhi; una improvvisa stanchezza la prese e la costrinse a fermarsi. Ricominciarono a ballare; trascinandola con un ritmo sempre più rapido, il visconte disparve con lei in fondo alla galleria, ove Emma, ansimante, si sentì cadere e per un attimo appoggiò il capo alla spalla di lui. Poi sempre girando, ma più lentamente, egli la condusse al suo posto; Emma si abbandonò contro la parete e si coprì gli occhi con una mano.

Quando li riaprì, al centro del salone, seduta su uno sgabello, si trovava una dama e ai suoi piedi erano inginocchiati tre cavalieri. Ella scelse il Visconte e il violino riprese a suonare.

Tutti li guardavano. Passavano e ripassavano, lei con il busto diritto e fermo, il capo reclinato, lui sempre nella stessa posa, la figura inarcata, il braccio ben incurvato, il mento proteso. Quella sì, era una brava ballerina! Continuarono a lungo e stancarono tutti gli altri.

Vi fu ancora qualche breve conversazione, poi, dopo i saluti, o meglio, il buongiorno, gli ospiti del castello andarono a dormire.

Charles si trascinò per le scale, affermando di sentirsi le gambe che rientravano nel corpo. Aveva passato cinque ore di seguito sempre in piedi accanto a un tavolo, a osservare i giocatori di whist, senza capirci niente. Tirò un gran sospiro di sollievo quando poté togliersi le scarpe.

Emma si gettò uno scialle sulle spalle, aprì la finestra e si affacciò.

La notte era buia. Cadeva qualche goccia di pioggia. Aspirò il vento umido che le rinfrescava le palpebre. Negli orecchie le risonava ancora la musica del ballo ed ella faceva uno sforzo per tenersi sveglia e prolungare in questo modo l’illusione di quella vita lussuosa che avrebbe dovuto abbandonare così presto.

Albeggiava. Emma guardò a lungo le finestre del castello, cercando di indovinare dietro quali di esse si trovassero le camere di coloro che più l’avevano colpita durante la festa. Avrebbe voluto conoscere le loro vite, farne parte, confondervisi.

Rabbrividiva di freddo. Si spogliò e si rannicchiò sotto le coperte contro Charles che dormiva.

A colazione v’era molta gente. Il pasto durò dieci minuti, e non vennero serviti liquori, cosa che stupì il medico. Poi la signorina d’Andervilliers raccolse in un panierino i pezzetti di ciambella per portarli ai cigni del laghetto e tutti andarono a passeggiare nelle serre, ove le piante più strane, irte di peli, erano disposte in piramidi sotto i vasi appesi simili a nidi di serpenti troppo gremiti, e dai quali traboccavano lunghi cordoni verdi attorcigliati. In fondo, la serra degli aranci conduceva fino ai locali di servizio del castello. Il marchese, per divertire la giovane ospite, l’accompagnò a visitare le scuderie. Sopra le mangiatoie a forme di cesta, su piccole targhe di porcellana, stava scritto in nero il nome dei cavalli. Ogni animale si agitava nel suo stallo quando qualcuno gli passava vicino facendo schioccare la lingua. Il pavimento della selleria era lucido come quello di un salone. Nel mezzo, su due colonne girevoli, erano appesi i finimenti per le carrozze, mentre sulle pareti si trovavano disposti in bell’ordine i morsi, gli speroni, le fruste, i barbazzali.

Charles aveva intanto pregato un domestico di preparargli un carrozzino. Glielo portarono davanti allo scalone e, non appena tutti i pacchi furono sistemati, i Bovary presentarono i loro omaggi al marchese e alla marchesa e ripartirono per Tostes.

Emma, silenziosa, guardava girare le ruote. Charles, seduto a un’estremità del sedile, guidava con le braccia in fuori il piccolo cavallo che trottava all’ambio fra le stanghe troppo larghe per lui. Le redini lente gli battevano sulla groppa e si inzuppavano di sudore e il baule, sistemato dietro, batteva contro il carrozzino colpi violenti a intervalli regolari.

Erano arrivati alle colline di Thibourville, quando incrociarono alcuni cavalieri che ridevano e fumavano sigari. Emma credette di riconoscere il Visconte; si voltò, ma non le riuscì di scorgere altro se non, lontano all’orizzonte, l’altalenare delle teste al ritmo ineguale del trotto o del galoppo.

Un quarto di miglio più avanti furono costretti a fermarsi per aggiustare con un po’ di corda l’imbracatura che si era rotta.

Charles diede un’ultima occhiata ai finimenti, e vide qualcosa in terra, fra le gambe del cavallo; lo raccolse: si trattava di un portasigari ricamato, di seta verde, con uno stemma al centro, come la portiera di una carrozza.

«Ci sono anche due sigari dentro» disse. «Andranno bene per questa sera, dopo cena.»

«Ma tu fumi?» domandò Emma.

«Qualche volta, quando mi capita.»

Si mise in tasca l’oggetto e frustò il cavallino.

Quando giunsero a casa, il pranzo non era ancora pronto. La signora andò in collera. Nastasie rispose con insolenza.

«Se ne vada! Questo è prendere in giro, lei è licenziata!»

Il pranzo consistette in una zuppa di cipolle e in un pezzo di vitello all’acetosella. Charles, seduto di fronte a Emma, fregandosi le mani con aria soddisfatta, disse:

«Com’è piacevole ritrovarsi a casa propria!»

Dalla cucina giungevano i singhiozzi di Nastasie. Charles era affezionato a questa povera donna, che si era occupata di lui e gli aveva tenuto compagnia per tante sere nell’inerzia della sua vedovanza. Era la sua prima paziente, la prima persona che aveva conosciuto a Tostes.

«Ma l’hai licenziata sul serio?» domandò infine.

«Sì, chi me lo impedisce?» rispose Emma.

Poi, mentre veniva preparata la camera da letto, andarono a scaldarsi in cucina. Charles si mise a fumare. Fumava sporgendo le labbra, sputando ogni minuto e allontanando il fumo a ogni boccata con la mano.

«Ti farà male» disse Emma sdegnosamente.

Charles posò il sigaro e corse a bere un bicchiere d’acqua fredda alla pompa. Emma afferrò il portasigari e lo gettò in fretta in fondo a un cassetto.

L’indomani fu una giornata interminabile. Emma passeggiò nel giardino, su e giù sempre per gli stessi vialetti, fermandosi davanti alle aiuole, alle spalliere, al curato di gesso, guardando sbalordita tutte queste vecchie cose che conosceva tanto bene. Come le sembrava lontana la festa al castello! Che cos’era a far sembrare tanto distanti il mattino dell’altro ieri e la sera di oggi? La gita alla Vaubyessard aveva aperto una voragine nella sua vita, un crepaccio come quelli che in una sola notte gli uragani riescono a scavare nei fianchi delle montagne. Ma era rassegnata: chiuse religiosamente nel cassettone il suo bell’abito da sera e le scarpine di raso alle quali la cera che rendeva lustro il pavimento del salone aveva ingiallito le suole. Anche al suo cuore era accaduto qualcosa di simile: sfiorato dal lusso si era velato di un non so che d’impalpabile e d’indelebile.

Ricordare il ballo fu una delle occupazioni di Emma: ogni mercoledì, svegliandosi si diceva: “Ah! Otto giorni fa… quindici giorni fa… tre settimane fa ero laggiù!” A poco a poco le fisionomie le si confusero nella memoria; dimenticò i motivi delle danze, non ricordò più con tanta chiarezza le livree o i saloni, i particolari svanirono, ma il rimpianto non l’abbandonò.

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