Set 082018
 

Spesso, quando Charles era fuori, Emma andava a prendere nell’armadio, fra le pieghe della biancheria dove lo aveva nascosto, il portasigari di seta verde.

Lo guardava, lo apriva e ne aspirava l’odore della fodera, un misto di verbena e di tabacco. Di chi era? Del Visconte. Un regalo della sua amante, forse. L’avevano ricamato su un telaio di palissandro, piccola suppellettile facilmente occultabile, e questo lavoro aveva tenuto occupata per lunghe ore una pensosa ricamatrice che su di esso aveva reclinato i morbidi riccioli. Un soffio d’amore era passato fra i fili del canovaccio: ogni punto aveva fermato una speranza o un ricordo, e tutti i fili di seta intersecantisi rappresentavano l’insieme di una stessa silenziosa passione. E poi, un mattino, il Visconte l’aveva portato con sé. Di che cosa avevano parlato, mentre esso era posato sulla larga mensola del caminetto fra i vasi di fiori e la pendola Pompadour? Emma in quel momento si trovava a Tostes. Il visconte a Parigi. Così lontano. Com’era Parigi? Che nome pieno di smisurate promesse! Le piaceva ripeterlo a mezza voce; le risonava negli orecchi come lo scampanio di una cattedrale, fiammeggiava ai suoi occhi perfino sulle etichette dei vasetti delle creme.

La notte, quando i pescivendoli, sui loro carretti, passavano sotto le sue finestre cantando la Marjolaine, Emma si svegliava, ascoltava lo strepito delle ruote cerchiate di ferro che si smorzava sulla terra battuta all’uscita del villaggio e si diceva:

“Domani saranno laggiù!”

Li seguiva con il pensiero, mentre salivano e scendevano nel superare le colline, mentre attraversavano i villaggi, mentre correvano sulla strada maestra al chiarore delle stelle. Al termine di una distanza imprecisata v’era sempre l’immagine confusa di una piazza ove il suo sogno aveva fine.

Comperò una piantina di Parigi: facendo scorrere la punta del dito sulla carta, immaginava di fare lunghe passeggiate nella capitale. Risaliva i boulevard, si fermava ad ogni angolo formato dalle linee delle strade, davanti ai quadratini bianchi che rappresentavano le case. Alla fine aveva gli occhi stanchi: chiudeva le palpebre e nel buio vedeva palpitare al vento le fiammelle dei lampioni a gas o immaginava i predellini delle carrozze che ricadevano con gran fracasso davanti ai colonnati dei teatri.

Si abbonò a un giornale femminile, il Cestino, e allo Spirito dei salotti. Divorava, senza lasciarsi sfuggire nulla, tutte le cronache delle prime, delle corse, delle serate, si interessava al debutto di una cantante o all’apertura di un negozio. Si teneva al corrente con la moda, conosceva gli indirizzi dei buoni sarti, i giorni in cui il bel mondo andava al Bois o all’Opéra. Studiò gli arredamenti descritti da Eugène Sue, lesse Balzac e George Sand, cercando in queste letture un immaginario soddisfacimento alle proprie brame. Portava i libri anche a tavola e li sfogliava mentre suo marito, mangiando, cercava di conversare. Il ricordo del Visconte veniva rinnovato di continuo dalle letture. Emma scopriva somiglianze tra lui e i personaggi inventati. Ma il cerchio del quale egli era il centro, a poco a poco si allargava e l’alone che lo circondava andava espandendosi intorno alla sua figura per illuminare altri sogni.

Parigi, più vasta di un oceano, scintillava dunque agli occhi di Emma, avvolta da un’atmosfera purpurea. I molteplici aspetti della vita che si agitava in quel tumulto erano però ben suddivisi e classificati in quadri distinti. Emma ne prendeva in considerazione soltanto due o tre, i quali finivano per cancellare tutti gli altri e per rappresentare da soli l’intera umanità. L’ambiente nel quale si movevano gli ambasciatori erano i saloni dai pavimenti lucidi, dalle pareti rivestite di specchi, in mezzo ai quali si trovavano tavole ovali ricoperte da tappeti di velluto con la frangia d’oro. Non mancavano gli abiti a strascico, i grandi misteri, le angosce dissimulate da un sorriso. Veniva poi il mondo delle duchesse: qui tutti erano pallidi, si alzavano alle quattro del pomeriggio, le donne, povere care!, portavano sottovesti dall’orlo ricamato a punto inglese, e gli uomini, dotati di insospettate capacità sotto un’apparenza frivola, sfiancavano i loro cavalli in gite di piacere, trascorrevano le estati a Baden, e, verso la quarantina, sposavano ricche ereditiere. Nei salottini dei ristoranti dove si cena dopo mezzanotte, si divertiva, al lume della candele, la folla eterogenea degli uomini di lettere e delle attrici. Creature prodighe come re, piene di ambizioni idealizzate e di deliri fantastici. Conducevano un’esistenza che si librava al di sopra di tutto fra cielo e terra, in mezzo alle tempeste, qualcosa di veramente sublime. Quanto al resto degli uomini, erano tutti nullità, senza una precisa ubicazione, quasi non esistessero affatto. D’altronde, quanto più le cose erano vicine, tanto più i pensieri di lei se ne allontanavano. Tutto ciò che le era prossimo in maniera immediata, la campagna noiosa, i piccoli borghesi imbecilli, la banalità della vita, le sembrava un’eccezione, un caso anormale in cui lei si trovava presa mentre, al di là di ciò, si stendeva a perdita d’occhio lo sterminato paese della felicità e delle passioni. Confondeva, nelle sue smanie, la sensualità del lusso con le gioie più intime, l’eleganza delle abitudini con le delicatezze del sentimento. Per l’amore, come per le piante esotiche, non era forse indispensabile un terreno adatto e una temperatura particolare? I sospiri al chiaro di luna, i lunghi abbracci, le lacrime che scorrono sulle mani abbandonate, gli ardori della carne e i languori della tenerezza non possono quindi andare separati dai balconi dei grandi castelli pieni di comodità, dai boudoir dalle tende di seta e dagli spessi tappeti, dalle giardiniere fiorite, dai letti troneggianti sopra un piedistallo né dallo scintillio delle pietre preziose e dai galloni delle livree.

Lo stalliere che ogni mattina veniva a strigliare la cavalla attraversava il corridoio con i piedi nudi entro grossi zoccoli e con indosso un lacero camiciotto. Era questo il valletto dai calzoni a coscia del quale ci si doveva accontentare! Quando aveva finito il suo lavoro, se ne andava e non tornava più per tutta la giornata; Charles infatti, appena rientrava, portava lui stesso la bestia nella scuderia, le toglieva la sella, le metteva la cavezza, mentre la domestica portava un fascio di fieno e lo gettava in qualche modo nella greppia.

Per sostituire Nastasie (era infatti andata via da Tostes versando fiumi di lacrime) Emma prese al suo servizio una ragazzetta di quattordici anni, orfana e dall’aria mite. Non le permise di portare cuffie di cotone, le insegnò a rivolgersi alla gente usando la terza persona, a portare un bicchiere d’acqua sul vassoio, a bussare alle porte prima di entrare, a stirare, inamidare e a vestirla, cercò di farne, insomma, la sua cameriera. La nuova domestica obbediva senza brontolare per non essere licenziata; e siccome la signora, di solito, non toglieva la chiave dalla credenza, Félicité, ogni sera, faceva una piccola provvista di zucchero e se lo mangiava tutta sola a letto dopo aver recitato le preghiere. Qualche volta, nel pomeriggio, andava dirimpetto a casa a chiacchierare con i postiglioni, mentre la signora era di sopra in camera sua.

Emma indossava una vestaglia molto aperta sul davanti, con il collo a scialle che lasciava scorgere una camicetta plissettata e con tre bottoni d’oro. Un cordone con grosse nappine le serviva da cintura e le pantofoline color granato avevano un ciuffo di nastro alto che si allargava fin sul collo del piede. Si era comperata un sottomano, un blocco di carta da lettere, un portapenne, e delle buste benché non avesse nessuno con cui corrispondere; spolverava il suo scaffale, si guardava nello specchio, prendeva un libro, poi lo lasciava cadere sulle ginocchia seguendo un sogno scaturito fra una riga e l’altra. Aveva voglia di viaggiare o di tornare in collegio. Desiderava al contempo morire e andare ad abitare a Parigi.

Con qualunque maltempo, con la pioggia o con la neve, Charles continuava a cavalcare per le strade di campagna. Mangiava la frittata insieme con i contadini, si trovava costretto a infilare il braccio in letti bagnati, a ricevere in viso il getto tiepido dei salassi, ad ascoltare i rantoli, a esaminare catini, a sollevare molta biancheria sporca, ma a casa, la sera, lo aspettavano il fuoco fiammeggiante, la tavola apparecchiata, mobili confortevoli, una moglie elegante, graziosa, che aveva un odore fresco, un profumo che non si sapeva bene da dove venisse, quasi fosse la pelle di lei a possederlo e a darlo anche ai suoi abiti.

Emma riusciva ad affascinarlo con innumerevoli raffinatezze: talvolta si trattava di un nuovo modo di confezionare i piattini di carta per i candelieri, oppure di una guarnizione diversa su un abito, o del nome esotico di una vivanda assai semplice, che la domestica non aveva saputo cucinare, ma che Charles ingoiava fino in fondo lo stesso, e con piacere.

Le capitò di vedere a Rouen alcune signore le quali portavano appeso all’orologio un mazzetto di ciondoli; subito comperò dei ciondoli. Volle mettere sul caminetto due grossi vasi di vetro azzurro e, qualche tempo dopo, una scatola da lavoro in avorio con un ditale dorato. Meno Charles capiva queste eleganze, più ne subiva il fascino. Esse aggiungevano qualcosa al piacere dei sensi e alla dolcezza del focolare. Cospargevano di una polvere d’oro tutto il modesto sentiero della sua vita.

Godeva buona salute, aveva un bel colorito, e la sua reputazione si era assai ben consolidata. I contadini gli volevano un gran bene perché non era altezzoso. Soleva accarezzare i bambini, non andava mai all’osteria e inoltre ispirava fiducia per la sua moralità. Otteneva particolari successi nella cura delle affezioni bronchiali e delle malattie di petto. Aveva una gran paura di mandare il suo prossimo al Creatore e di conseguenza si limitava a prescrivere pozioni calmanti, qualche emetico, un pediluvio o dei salassi. Non che la chirurgia gli facesse paura, anzi salassava la gente con facilità, come se si fosse trattato di cavalli e aveva una forza infernale nel cavare i denti.

Per tenersi al corrente, si abbonò all’Alveare medico, un giornale nuovo di cui gli erano pervenuti i prospetti; lo leggeva, in parte, dopo cena, ma il tepore della stanza, insieme con la fatica della digestione, facevano sì che in capo a cinque minuti, fosse addormentato; rimaneva là, con il mento appoggiato alle mani e i capelli arruffati come una criniera che arrivavano fino al piede della lampada. Emma lo guardava e alzava le spalle. Perché non aveva almeno per marito uno di quegli uomini accesi di taciturno fervore che lavorano di notte in mezzo ai libri e che, giunti ai sessant’anni, l’età dei reumatismi, portano finalmente una piccola spilla a forma di croce sull’abito nero di cattivo taglio?

Emma avrebbe desiderato che il nome di Bovary, ora il suo nome, fosse illustre, le sarebbe piaciuto vederlo nelle librerie, leggerlo nei giornali, noto in tutta la Francia. Ma Charles non aveva ambizioni! Un medico di Yvetot, con il quale si era trovato ultimamente per un consulto, lo aveva quasi mortificato addirittura al capezzale del paziente e davanti a tutti i parenti riuniti. Quando Charles, la sera, raccontò il fatto, Emma si accalorò molto contro il collega del marito. Quest’ultimo fu intenerito dall’atteggiamento di sua moglie: la baciò sulla fronte con gli occhi pieni di lacrime. Ma Emma era esasperata e piena di vergogna, lo avrebbe preso volentieri a schiaffi. Andò nel corridoio, aprì la finestra e rimase a respirare l’aria fresca per calmarsi.

«Che disgraziato! Povero disgraziato!» ripeteva, mordendosi le labbra.

Si sentiva sempre più irritata dal suo modo di comportarsi. Con il passare degli anni Charles prendeva abitudini grossolane; alla fine del pranzo era solito tagliuzzare i tappi delle bottiglie vuote; dopo aver mangiato si passava la lingua sui denti. Sorbiva il brodo producendo gorgoglii chioccianti a ogni cucchiaiata, e, poiché cominciava a ingrassare, gli occhi, già piccoli, sembravano spostarsi verso le tempie, spinti verso l’alto dalle gote gonfie di adipe.

A volte Emma gli ricacciava nel panciotto il bordo rosso delle maglie, gli raddrizzava la cravatta o buttava via i guanti consumati che egli stava per infilare. Ma non faceva questo per lui, bensì per se stessa, per una specie di estensione del suo egoismo, di irritazione nervosa. Altre volte gli parlava di ciò che aveva letto, un brano di un romanzo, una nuova commedia o l’ultimo aneddoto sul gran mondo riportato dal giornale; dopotutto, Charles era qualcuno, un orecchio sempre disposto ad ascoltare, un’approvazione sempre pronta. La cagnolina stessa riceveva le sue confidenze ed ella ne avrebbe fatte anche ai ceppi del caminetto e al bilanciere della pendola.

In fondo al cuore continuava a sperare che accadesse qualcosa di diverso. Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte. Non sapeva che cosa stava aspettando, quale vento avrebbe spinto verso di lei l’avvenimento desiderato, a quale lido l’avrebbe fatta approdare, se si sarebbe trattato di una scialuppa o di un vascello a tre ponti carico di angosce o pieno di felicità fino ai boccaporti. Ogni mattino, al risveglio, sperava che ciò avvenisse, proprio quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, e si stupiva che ancora non accadesse nulla; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere all’indomani.

Tornò la primavera. Emma provò a volte un senso di soffocamento, ai primi calori, quando fiorirono i peri.

Fin dai primi giorni di luglio, cominciò a contare sulle dita quante settimane mancavano per arrivare al mese di ottobre, nella speranza che il marchese di Andervilliers forse avrebbe dato ancora un ballo alla Vaubyessard. Ma tutto il mese di settembre trascorse senza che giungessero lettere o visite.

Dopo quella delusione, il suo cuore rimase vuoto ancora una volta, e la serie delle giornate tutte uguali ricominciò.

Ormai si sarebbero susseguite dunque, così, tutte in fila, monotone, anonime, e senza portare con sé proprio nulla? Le altre esistenze, per quanto piatte fossero, avevano almeno la probabilità di un avvenimento imprevisto, e gli avvenimenti imprevisti provocano talora peripezie senza fine, e tutto cambia. Soltanto per lei non succedeva mai niente, Dio aveva voluto così! L’avvenire si presentava come un corridoio nero in fondo al quale v’era una porta sprangata.

Non si interessò più di musica. Perché sonare? Chi l’avrebbe ascoltata? Dal momento che non avrebbe mai potuto esibirsi con un abito di velluto con le maniche corte, a un concerto, su un pianoforte Erard, facendo correre le dita leggere sui tasti d’avorio, e sentire intorno a sé, circondarla come una brezza, un mormorio estatico, non valeva la pena di annoiarsi a studiare. Lasciò in fondo a un cassetto anche i fogli da disegno e i ricami. A che serviva? A che serviva? E poi, cucire la innervosiva.

“Ho già letto tutto” si diceva.

E restava lì a far arroventare le molle nella brace del camino o a guardar cadere la pioggia.

Che tristezza, la domenica, quando sonava il vespro! Ascoltava con una concentrazione attonita battere a uno a uno i rintocchi sordi della campana. Sul tetto un gatto camminava lentamente facendo la gobba, sotto i raggi di un pallido sole. Il vento sollevava nugoli di polvere sulla strada maestra. Di tanto in tanto, un cane lontano ululava: e la campana, a intervalli regolari, continuava i suoi rintocchi monotoni che si perdevano nella campagna.

Intanto la gente usciva di chiesa. Le donne avevano gli zoccoli lucidati, i contadini le bluse nuove, i bambini piccoli, senza cappello, saltellavano davanti a loro; tutti si avviavano verso casa. E fino a notte cinque o sei uomini, sempre gli stessi, restavano a giocare al turacciolo, davanti alla porta dell’osteria.

Fu un inverno freddo. I vetri, la mattina, erano coperti da uno strato di gelo e la luce che filtrava attraverso essi, biancastra come quella dei vetri smerigliati, si manteneva talvolta uguale per tutta la giornata. Alle quattro del pomeriggio bisognava già accendere il lume.

Nelle belle giornate, Emma scendeva in giardino. La brina aveva posato sui cavoli merletti d’argento con lunghi fili chiari che andavano da un cespo all’altro. Gli uccelli tacevano, tutto sembrava addormentato, la spalliera coperta di paglia, e la vigna, simile a un grande serpente malato sotto la sporgenza del muro, dove, avvicinandosi, era possibile scorgere i centopiedi trascinarsi sulle innumerevoli gambe. In mezzo agli abeti nani, il curato con il tricorno, che leggeva il breviario, aveva perduto il piede destro e il gesso, sfaldandosi con il gelo, gli aveva coperto di croste bianche il viso.

Poi rientrava, chiudeva la porta, attizzava il fuoco e abbandonandosi al calore del caminetto sentiva ripiombare su di sé, ancora più pesante, la noia. Desiderava scendere in cucina a chiacchierare con la domestica, ma una specie di pudore la tratteneva.

Tutti i giorni alla stessa ora il maestro di scuola, la berretta nera di seta sul capo, apriva le imposte di casa sua e la guardia campestre passava con la sciabola sul camiciotto. La sera e la mattina, i cavalli della posta, a tre a tre, attraversavano la strada per andare a bere al fontanile. Di tanto in tanto la campanella della porta di un’osteria tintinnava e quando c’era vento si sentiva cigolare sui ganci che lo reggevano il catino d’ottone che serviva da insegna alla bottega del barbiere. Questa bottega era decorata da una vecchia illustrazione di un giornale di moda incollata contro un vetro e da una testa femminile di cera dai capelli gialli. Anche il parrucchiere si lamentava della sua vocazione soffocata, del suo avvenire rovinato, e sognava una bottega in qualche grande città, come Rouen, per esempio, sul porto, vicino al teatro, e intanto passeggiava su e giù tutto il giorno, fra la chiesa e il municipio, imbronciato e in attesa di clientela. Quando la signora Bovary alzava gli occhi, lo vedeva sempre là, come una sentinella, di guardia con la papalina di traverso e una giacca di raso.

Nel pomeriggio, talvolta, dietro i vetri della sala, nella via, compariva una testa d’uomo, dai favoriti neri e dal volto abbronzato, sul quale si stendeva lentamente un largo sorriso dolce che scopriva i denti bianchi. Subito si facevano sentire le note di un valzer e sopra l’organino, in una minuscola sala da ballo, ballerini alti un dito, dame in turbante rosa, tirolesi in giacchettino, scimmie in marsina nera, cavalieri in pantaloni a coscia giravano e giravano fra le poltrone, i divani, le mensole, moltiplicandosi nei pezzetti di specchio tenuti insieme da una carta d’oro. L’uomo girava la manovella guardando a destra e a sinistra e verso le finestre. Di tanto in tanto lanciava contro un paracarro un lungo getto di saliva scura e appoggiava su un ginocchio il suo strumento, la cui cinghia dura gli stancava la spalla; ora triste e lenta, ora gioiosa e veloce, la musica dell’organino si diffondeva attraverso una tendina di taffetà rosa o una grata di ottone ad arabeschi. Erano motivi in voga nei teatri, motivi che venivano cantati nei saloni, che accompagnavano, la sera, le danze sotto i lampadari splendenti, echi del mondo dai quali Emma veniva raggiunta. E allora sarabande senza fine si srotolavano nella sua mente: come una baiadera su un tappeto a fiori il suo pensiero saltellava con le note, ondeggiava di sogno in sogno, di malinconia in malinconia. L’uomo, dopo aver ricevuto l’elemosina che gli veniva gettata nel berretto, copriva l’organino con una vecchia coperta turchina, se lo passava sulla schiena e si allontanava con passo pesante. Emma lo guardava andar via.

Soprattutto all’ora dei pasti sentiva di non poterne più: in quella stanzetta al pianterreno, dove la stufa faceva fumo, la porta cigolava, i muri trasudavano e i pavimenti erano sempre umidi, le sembrava che tutta l’amarezza della sua esistenza le venisse servita nel piatto e, come il fumo del bollito, salivano dal fondo dell’anima sua altrettante zaffate di tedio insulso. Charles mangiava con lentezza, Emma sgranocchiava qualche nocciolina o si divertiva, appoggiata a un gomito, a disegnare linee con la punta del coltello, sulla tela cerata.

Adesso trascurava del tutto l’andamento della casa e la suocera, quando andò a Tostes a trascorrere una parte della quaresima, si stupì molto di questo cambiamento. Infatti, la nuora, un tempo tanto diligente e scrupolosa, trascorreva ora intere giornate senza vestirsi, portava calze di cotone grigio e si faceva lume con la candela. Ripeteva che bisognava fare economia, perché non erano ricchi, dichiarava di essere del tutto soddisfatta e felicissima, diceva che Tostes le piaceva molto e continuava con nuovi argomenti che tappavano la bocca alla suocera. Inoltre Emma non sembrava più disposta a seguire i suoi consigli. Una volta, essendosi la vecchia Bovary azzardata a dire che i padroni devono sorvegliare la religiosità dei domestici, Emma le aveva rivolto uno sguardo così irato e un sorriso tanto gelido, che la buona donna non aveva più fiatato.

Emma divenne capricciosa e difficile. Ordinava per sé pietanze che poi non toccava nemmeno, un giorno beveva soltanto latte e il giorno dopo dozzine di tazze di tè. Spesso si ostinava a non voler uscire di casa e subito dopo si sentiva soffocare, apriva le finestre e indossava abiti leggeri. Dopo aver strapazzato duramente la domestica, le faceva dei regali o la mandava a passeggio dalle vicine, e talvolta perfino gettava ai poveri tutte le monete d’argento che aveva nel borsellino, benché non fosse di animo tenero né si lasciasse commuovere facilmente dalle pene altrui, come del resto la maggior parte di coloro che discendono da una stirpe contadina e conservano nell’anima qualcosa che ricorda la callosità delle mani dei padri.

Verso la fine di febbraio, papà Rouault, memore della sua guarigione, portò di persona al genero una superba tacchina e si fermò tre giorni a Tostes. Fu Emma a tenergli compagnia, perché Charles era occupato con i malati. Papà Rouault fumò in camera, sputò sugli alari, parlò di colture, di vitelli, di mucche, di pollame e di consigli municipali; tanto che Emma, quando gli chiuse la porta alle spalle, fu presa da un senso di soddisfazione tale da lasciare stupita lei stessa. D’altro canto non nascondeva più il suo disprezzo per cose e persone; a volte manifestava opinioni bizzarre, biasimava ciò che otteneva l’approvazione di tutti e giudicava benevolmente perversità e immoralità da tutti riprovate: questi atteggiamenti facevano spalancare tanto d’occhi a suo marito.

Quella miserevole esistenza sarebbe durata per sempre? Non le sarebbe mai stato possibile uscirne? Era convinta di non valere meno di tutte le altre che vivevano felici. Alla Vaubyessard aveva visto duchesse più grasse di lei e dalle maniere più volgari delle sue ed esecrava l’ingiustizia del Cielo; appoggiava il capo al muro e piangeva; invidiava le vite tumultuose, i balli mascherati, i piaceri sfacciati con tutti quegli smarrimenti che lei ancora non conosceva, ma che certo dovevano causare.

Impallidiva e soffriva di palpitazioni. Charles le somministrò valeriana e le faceva fare bagni alla canfora. Qualsiasi cosa si tentasse, serviva soltanto ad aumentare il suo nervosismo.

V’erano giorni in cui parlava con un’irruenza febbrile; a tali esaltazioni facevano seguito d’improvviso torpori duranti i quali rimaneva muta e immobile. Allora soltanto in un modo riusciva a rianimarsi, versandosi sulle braccia il contenuto di un flacone di acqua di Colonia.

Quel continuo lagnarsi di Tostes indusse Charles a supporre che la causa dei suoi malori dipendesse da qualche influsso dei luoghi, e, convinto di essere nel giusto, egli cominciò a prendere seriamente in esame la possibilità di andare a stabilirsi altrove.

Da allora Emma si mise a bere aceto, per dimagrire, si buscò una tossettina secca e perse del tutto l’appetito.

A Charles dispiaceva non poco lasciare, dopo quattro anni, Tostes, e proprio nel momento in cui la sua posizione cominciava a consolidarsi. Ma se era indispensabile!… La condusse a Rouen, per farla visitare dal suo ex maestro, il quale diagnosticò una forma nervosa e consigliò un cambiamento d’aria.

Dopo numerose ricerche, in diversi luoghi, Charles venne a sapere che nel dipartimento di Neufchâtel v’era una grossa borgata chiamata Yonville-l’Abbaye il cui medico, un esule polacco, se ne era andato da una settimana. Allora scrisse al farmacista del luogo per sapere il numero degli abitanti, a quale distanza si trovasse il più vicino collega, quanto guadagnasse in un anno il suo predecessore, eccetera. Le risposte furono soddisfacenti e venne così deciso di traslocare, verso la primavera, se nel frattempo la salute di Emma non fosse migliorata.

Un giorno, mentre in previsione del trasloco, Emma stava riordinando un cassetto, qualcosa le punse un dito. Era un filo di ferro del suo bouquet di nozze. I fiori d’arancio erano gialli di polvere e i nastri di raso orlati d’argento si sfilacciavano ai bordi. Emma lo gettò nel caminetto. Prese fuoco più in fretta della paglia secca, e rimase sulla cenere come un cespuglio che si consumava a poco a poco. Rimase a guardarlo mentre bruciava. Le piccole bacche di cartone scoppiettavano, il filo di ottone si contorceva, il gallone d’argento si fondeva e le corolle di carta, raggrinzite, si dondolavano lungo la piastra del camino, come farfalle nere, per sparire poi su per la cappa.

Quando partirono da Tostes, nel mese di marzo, la signora Bovary era incinta.

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