Ago 252018
 

A volte si diceva che questi sarebbero dovuti essere i giorni più felici della sua vita, la cosiddetta luna di miele. Per poterne gustare davvero la dolcezza, senza dubbio, bisognava partire per quei paesi dai nomi altisonanti, dove i primi giorni di matrimonio hanno più soavi pigrizie. In diligenza, all’ombra di tendine di seta azzurra, si sale per ripide strade ascoltando la canzone del postiglione che echeggia fra le montagne insieme con le campanelle delle capre e il rombo sordo delle cascate. Al tramonto, sulla riva dei golfi marini, ci si può inebriare con la fragranza dei limoni; la sera, sulla terrazza di una villa, soli, le mani dell’uno intrecciate con le mani dell’altra, si possono fare progetti guardando le stelle. Secondo lei, taluni luoghi sulla terra possedevano la peculiarità di produrre la felicità, quasi essa fosse stata una pianta alla quale è necessario un particolare terreno, una pianta che cresce male in qualunque altro luogo. Come avrebbe voluto potersi affacciare al balcone di uno chalet svizzero, o chiudere la sua malinconia in un cottage scozzese, insieme con un marito che indossasse un abito a giacca lunga di velluto nero, calzasse morbidi stivali e portasse un cappello a punta e i polsini. Forse avrebbe desiderato confidar a qualcuno queste sue idee. Ma in qual modo avrebbe potuto descrivere quel malessere vago che mutava aspetto come le nuvole o che turbinava come il vento? Le mancavano le parole, l’occasione, il coraggio.

Eppure, se Charles avesse voluto, se lo avesse sospettato, se una sola volta lo sguardo di lui avesse indovinato i suoi pensieri, un’improvvisa piena di sentimenti sarebbe scaturita da lei, così come i frutti maturi si staccano da una spalliera soltanto sfiorandoli con la mano. Ma a mano a mano che cresceva l’intimità della loro vita, veniva a determinarsi un distacco spirituale che la allontanava sempre più da lui.

La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede e le idee più comuni vi sfilavano nel loro abito di tutti i giorni, senza suscitare emozione o risate o fantasticherie. Quando abitava a Rouen, diceva, non aveva mai provato la curiosità di andare a vedere gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare né tirare di scherma o con la pistola, e una volta non seppe spiegarle un termine di equitazione che lei aveva letto in un romanzo.

Un uomo, non avrebbe dovuto, invece, conoscere tutto, eccellere in molteplici attività, saper iniziare una donna al fuoco della passione, alle raffinatezze della vita, a tutti i misteri? Ma costui non insegnava niente, non sapeva niente, non desiderava niente… La credeva felice e lei gliene voleva per quella tranquillità tanto saldamente stabilitasi, per quella pesante serenità, per il piacere stesso che gli dava.

Qualche volta si metteva a disegnare e per Charles era una grande gioia restare lì in piedi a guardarla, china sul foglio, mentre socchiudeva gli occhi per vedere meglio la propria opera, o mentre arrotondava sul pollice palline di mollica di pane. In quanto al pianoforte, più le dita di lei correvano veloci, più Charles si meravigliava. Emma suonava con disinvoltura e percorreva tutta la tastiera da cima a fondo senza interrompersi. Il vecchio strumento, le cui corde minacciavano di spezzarsi, così scosso da lei, si sentiva, se le finestre erano aperte, fino in fondo al villaggio e spesso il galoppino del messo comunale che passava sulla via maestra senza cappello e in pantofole si fermava con le scartoffie in mano ad ascoltare.

Emma, d’altronde, sapeva dirigere bene la casa. Mandava ai malati il conto delle visite con lettere ben compilate che non avevano l’aspetto di fatture. Quando, la domenica, avevano qualche vicino a pranzo, riusciva sempre a offrire piatti presentati con garbo, le piaceva disporre piramidi di prugne regina Claudia su foglie di vite, serviva la marmellata già rovesciata dai vasetti nel piatto, e parlava addirittura di comperare degli sciacquabocca per il dessert. Tutto questo contribuiva a procurare a Bovary una maggiore considerazione.

Charles si sentiva ora più importante perché possedeva una donna simile. Mostrava con orgoglio due schizzi a matita disegnati da sua moglie; li aveva fatti montare con una larga cornice e appesi in salotto a lunghi cordoni verdi contro la tappezzeria. All’uscita dalla messa lo si poteva vedere sulla porta di casa con belle pantofole ricamate. Rientrava tardi, la sera; alle dieci, talvolta a mezzanotte. Non aveva ancora cenato, e siccome la governante era già andato a letto a quell’ora, lo serviva Emma. Charles, per mangiare più comodo, si toglieva la giacca. Elencava, una dopo l’altra, tutte le persone che aveva incontrato, i paesi dove si era recato, le ricette che aveva prescritto, soddisfatto di sé; mangiava la carne con le cipolle avanzata, toglieva la crosta al formaggio, sgranocchiava una mela, vuotava la bottiglia, poi se ne andava a letto e, supino, cominciava a russare.

Aveva sempre portato una berretta da notte di cotone e adesso il fazzoletto di seta gli scivolava via dagli orecchi; si svegliava al mattino con i capelli che gli spiovevano sulla faccia, imbiancati dai piumini sfuggiti dal guanciale slacciatosi durante la notte. Portava sempre robusti stivali, con due grosse pieghe al collo del piede che scendevano oblique lungo le caviglie mentre il resto della tomaia era diritto e teso come se fosse sostenuto da una forma di legno. Asseriva che andavano benissimo per la campagna.

La madre approvava le sue economie. Veniva infatti a trovarlo, come sempre, allorché in casa sua era scoppiata qualche burrasca più violenta del solito. Nutriva una certa prevenzione contro la nuora. La trovava troppo raffinata per la loro posizione finanziaria; la legna, lo zucchero e le candele si consumavano come in un palazzo e la quantità di carbonella che si bruciava in cucina sarebbe bastata per cucinare venticinque piatti. Le insegnava a riporre la biancheria negli armadi e a sorvegliare il macellaio quando portava la carne. Emma accettava queste lezioni e la suocera le prodigava senza risparmio. Gli appellativi ‘figlia mia’ e ‘mamma’ si incrociavano per tutto il giorno, accompagnati da piccoli fremiti delle labbra che pronunciavano parole dolci con voce tremante di collera. Ai tempi della signora Dubuc, la vecchia Bovary si sentiva la preferita nel cuore del figlio; ma ora l’amore di Charles per Emma le sembrava un tradimento alla sua tenerezza, un’invasione di ciò che le apparteneva. Considerava la felicità di suo figlio con un silenzio triste, come chi, caduto in rovina, si trovi a guardare, attraverso i vetri, estranei a tavola nella sua antica dimora. Rammentava a Charles, quando era in vena di rievocazioni, le proprie pene e i sacrifici sopportati, paragonandoli alla negligenza di Emma, perveniva alla conclusione che non era davvero il caso di adorarla in modo così esclusivo.

Charles non sapeva che cosa rispondere; rispettava la madre e amava profondamente la moglie. Considerava infallibile il giudizio dell’una e irreprensibile il comportamento dell’altra.

Quando la madre non era più con loro, azzardava timidamente, e negli stessi termini, qualcuna delle più innocenti osservazioni che le aveva sentito fare. A Emma bastava una parola per dimostrargli che si sbagliava e per rispedirlo ai suoi malati.

Intanto, seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l’amore. In giardino, al chiaro di luna, recitava tutte le rime amorose che sapeva a memoria e sospirava romanze malinconiche, ma non sentiva agitarsi dentro di sé nessuna passione, e Charles non sembrava né scosso né più innamorato.

Dopo aver tentato invano di far sprizzare la divina scintilla stuzzicando l’acciarino del suo cuore, e, del resto, del tutto incapace di comprendere quanto non provava come di credere a quanto non si manifestasse nelle forme tradizionali, non faticò a convincersi che la passione di Charles non era affatto qualcosa di grande.

Le sue espansioni avevano preso un ritmo regolare; la baciava a orari fissi. Era un’abitudine come le altre. Era come un dessert già previsto dopo un monotono pranzo.

Un guardacaccia guarito da una pleurite le aveva regalato una cuccioletta di levriero italiana; Emma la portava con sé, nelle sue passeggiate, poiché talvolta usciva, per avere qualche momento di solitudine e per togliersi di davanti agli occhi l’eterno giardino o la strada polverosa.

Arrivava di solito fino al boschetto di faggi, e raggiungeva la casetta abbandonata che si trovava nell’angolo del muro di cinta, dalla parte della campagna. Nel fossato di confine, fra l’erba, crescevano lunghe canne dalle foglie taglienti.

Cominciava con il guardarsi intorno per vedere se qualcosa fosse cambiato dall’ultima volta che era venuta. Ritrovava allo stesso posto le digitali, i radicchi, i ciuffi di ortiche intorno ai grossi ciottoli, e le macchie dei licheni sulle persiane delle tre finestre, sempre chiuse, che marcivano infradicite sopra le sbarre di ferro coperte di ruggine. I pensieri di Emma, dapprima imprecisi, vagabondavano a caso, come la cagnolina, che percorreva cerchi nei campi abbaiando alle farfalle gialline e dava la caccia ai topiragno addentando i papaveri al limitare di un campo di grano. A poco a poco le idee si delineavano, e, seduta sull’erba, frugandola piano con il puntale dell’ombrellino, Emma si domandava ripetutamente:

“Perché, buon Dio, mi sono sposata?”

Diceva a se stessa che se le cose fossero andate diversamente avrebbe forse avuto modo di incontrare un altro uomo; e cercava di immaginare come sarebbero potuti essere questi avvenimenti non verificatisi, come sarebbe stata questa esistenza diversa, questo marito che non aveva conosciuto. Non tutti gli uomini, infatti, erano uguali a quello che aveva sposato. Sarebbe potuto essere bello, intelligente, distinto, attraente, proprio come dovevano esserlo i mariti delle sue ex compagne di collegio. Che cosa facevano loro, in questo momento? Nelle città ove le strade sono piene di rumore, con il chiasso dei teatri, gli splendori dei balli, potevano condurre un’esistenza nella quale il cuore si rallegra e i sensi si aprono. E invece la sua vita era fredda come un granaio con la finestra esposta a nord e in essa la noia, simile a un ragno silenzioso, filava ragnatele nell’ombra in tutti gli angoli del suo cuore. Rammentava i giorni in cui venivano distribuiti i premi, quando saliva sul palco per ricevere le piccole corone. Era assai graziosa, con i capelli raccolti in una treccia, l’abito bianco e le scarpette scollate di stoffa bruna; e, quando ritornava al suo posto, gli uomini si chinavano verso di lei per farle complimenti. Il cortile era pieno di carrozze, dai finestrini le facevano cenni di saluto, il maestro di musica, passando con la custodia del violino sotto il braccio, si chinava salutandola. Come tutto ciò era lontano, come era lontano!

Chiamava Djali, le faceva posare il muso sulle ginocchia, e, carezzandole la lunga testa affusolata, le diceva:

«Avanti, da’ un bacetto alla padrona, tu che non hai dispiaceri».

Poi, osservando l’aria malinconica dell’agile bestiola che sbadigliava pigramente, si inteneriva e, paragonandola a se stessa, le parlava a voce alta, come con una persona bisognosa di consolazione.

A volte si alzava un vento a raffiche, brezze marine che, superando d’un balzo tutta la pianura della regione di Caux, portavano molto addentro nelle campagne una frescura salmastra. Raso terra fischiavano fra i giunchi, rumoreggiavano con un rapido fruscio fra le foglie dei faggi, mentre le cime di questi alberi continuavano il loro maestoso mormorio dondolandosi senza posa. Emma si stringeva addosso lo scialle e si alzava.

Nel viale, una luce verde, attenuata dal fogliame, illuminava il musco rasato che scricchiolava dolcemente sotto i suoi passi. Il sole era al tramonto, il cielo rosseggiava fra i rami, e i tronchi tutti eguali e ben allineati somigliavano a un colonnato scuro contro un fondale d’oro; Emma si sentiva presa da un vago sgomento, chiamava Djali, e tornava svelta a Tostes, seguendo la via maestra. A casa, sprofondava in una poltrona e per tutta la sera non apriva più bocca.

Ma, verso la fine di settembre, nella sua vita accadde qualcosa di straordinario: fu invitata alla Vaubyessard, dal marchese di Andervilliers.

Segretario di Stato sotto la Restaurazione, il marchese cercava di tornare all’attività politica e si preparava da molto tempo a presentare la propria candidatura alla Camera dei deputati. D’inverno faceva molte distribuzioni di legna e, al Consiglio Generale, reclamava con gran foga nuove strade per il suo distretto.

Nel periodo più caldo dell’estate, aveva sofferto di un ascesso in bocca, dal quale Charles l’aveva liberato, come per miracolo, con un preciso colpo di bisturi. L’amministratore del marchese, mandato a Tostes per pagare l’operazione, raccontò al suo ritorno, la sera, di avere visto ciliegie magnifiche nel giardino del medico. Ora, poiché i ciliegi della Vaubyessard crescevano stenti, il marchese fece chiedere a Bovary qualche ramoscello per innestarli e in seguito si fece un dovere di andare di persona a ringraziarlo. Vide Emma e ne trovò l’aspetto assai grazioso, i modi tutt’altro che provinciali; tanto che al castello non si ritenne di eccedere in condiscendenza né di fare uno sgarbo a nessuno invitando la giovane coppia.

Un mercoledì alle tre, il signore e la signora Bovary salirono sul loro carrozzino, e si partirono per la Vaubyessard. Dietro la vettura era stato sistemato un grande baule, davanti, sul grembialino, v’era una cappelliera, e Charles teneva fra le gambe una scatola di cartone.

Giunsero a destinazione al calar della notte, mentre incominciavano ad accendere i lampioni del parco per illuminare la via alle carrozze.

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