Set 152018
 

Yonville-l’Abbaye (così chiamata per via di un’antica abbazia di Cappuccini, le cui rovine non esistevano neanche più) è un borgo situato a otto leghe da Rouen, fra la strada di Abbeville e quella di Beauvais, in fondo a una valle bagnata dal Rieule, un fiumiciattolo che si getta nell’Andelle, dopo aver fatto girare le ruote di tre mulini poco prima del suo sbocco e nelle cui acque vive qualche trota che la domenica i ragazzi si divertono a pescare con le canne.

Si lascia la strada maestra alla Boissière e si procede in pianura fino alla sommità della salita di Leux, dalla quale si domina tutta la vallata. Il fiume che l’attraversa dà origine a due regioni dalla diversa fisionomia: a sinistra prati e pascoli, a destra terreni coltivati. I prati si stendono ai piedi di un semicerchio di basse colline per poi congiungersi ai pascoli della regione di Bray mentre, verso est, la pianura sale dolcemente e, allargandosi, dispiega a perdita d’occhio i biondi campi di grano. L’acqua che scorre in mezzo all’erba divide con una riga bianca il colore dei prati da quello dei solchi, e fa rassomigliare la campagna a un grande mantello spiegato con il collo di velluto orlato da un gallone d’argento. Quando si arriva, all’estremo orizzonte si profilano le querce della foresta d’Argueil contro i dirupi del colle Saint-Jean, segnato dall’alto in basso da strisce rosse irregolari, create dall’acqua piovana; i toni color mattone che risaltano in linee sottili sul grigiore della montagna sono dovuti al gran numero di sorgenti ferruginose che scorrono nella regione circostante.

Ci troviamo sui confini della Normandia, della Piccardia e dell’Ile-de-France, in una regione ibrida, ove la parlata è senza accento come è senza caratteristiche il paesaggio. Qui si producono i peggiori formaggi di tutta la zona di Neufchâtel, qui le colture sono dispendiose in quanto si rende necessaria una gran quantità di concime per rendere fertili queste terre friabili, piene di sabbia e di pietre.

Fino al 1835 non esisteva alcuna strada carrozzabile per arrivare a Yonville ma verso quest’epoca venne costruita una strada vicinale che congiunge la via maestra di Abbeville con quella di Amiens e viene percorsa, talvolta, dai carrettieri, i quali da Rouen vanno nelle Fiandre. Ciò nonostante, Yonville-l’Abbaye, rimane stazionaria a dispetto dei nuovi sbocchi. Invece di migliorare le colture, la gente del luogo, si ostina a produrre foraggi, per quanto, siano disprezzati e la pigra borgata ha continuato, a espandersi con un processo naturale, evitando la pianura verso il fiume. La si vede da lontano, adagiata lungo la riva, come un vaccaro che faccia la siesta vicino all’acqua.

Ai piedi del colle, dopo il ponte, comincia un argine fiancheggiato da giovani pioppi che conduce in linea retta fino alle prime case del paese. Queste ultime sono circondate da siepi, in mezzo a cortili in cui sorgono varie costruzioni, frantoi, rimesse o distillerie, disseminate sotto alberi fronzuti, ai cui rami sono appesi attrezzi vari, quali scale, pertiche o falci. I tetti di paglia, simili a berretti di pelo calcati sugli occhi, scendono, fino a coprire circa un terzo delle basse finestre, i cui grossi vetri convessi sono guarniti da un nodo al centro come quello dei fondi di bottiglia. Contro i muri di gesso, attraversati in diagonale da travicelli neri, cercano sostegno, talvolta, stenti alberelli di pero e le porte al pianterreno sono munite di un cancelletto girevole utile per tener fuori i pulcini che vengono a beccare le briciole di pane ben imbevute di sidro. A mano a mano che si procede, i cortili si fanno più stretti, le case più vicine le une alle altre, le siepi scompaiono; un fascio di felci dondola sotto una finestra, appeso in cima a un manico di scopa; qui c’è la fucina di un maniscalco, più avanti la bottega di un carradore e dinanzi a essa due o tre carretti nuovi ingombrano la strada. Poi attraverso un cancello, appare una casa bianca, al di là di un praticello rotondo in mezzo al quale un Amorino tiene un dito sulle labbra; in fondo a una scalinata, si trovano due vasi di ghisa e sulla porta brilla un’insegna: è la casa del notaio, la più bella del paese.

La chiesa si trova all’altro lato della strada, venti passi più avanti, proprio all’ingresso della piazza. Il piccolo cimitero che la circonda, chiuso da un muretto basso, è così zeppo di tombe che le vecchie lapidi, ormai a livello del terreno, formano un lastricato continuo interrotto soltanto dai riquadri verdi disegnati dall’erba cresciuta spontaneamente. La chiesa è stata ricostruita negli ultimi anni del regno di Carlo X. La volta in legno comincia a imputridire in alto e presenta qua e là buchi neri nel colore azzurro che la riveste. Sopra il portale dove dovrebbe trovarsi l’organo, c’è una galleria per gli uomini alla quale si accede per mezzo di una scala a chiocciola che risuona sotto gli zoccoli.

La luce entra da grandi vetrate a lastra unica e illumina, con i suoi raggi obliqui, i banchi disposti perpendicolarmente alle pareti; qualcuno di essi è reso più confortevole da una stuoia inchiodatavi sopra, che reca scritte a grandi lettere queste parole: Banco del signor Tal dei Tali. Più avanti, nel punto in cui la navata si restringe, sono posti da un lato un confessionale e di fronte, dall’altro, una statuetta della Vergine, vestita di raso con un velo di tulle disseminato di stelle d’argento, sul capo, e dalle gote così colorite da somigliare a quelle di un idolo delle isole Sandwich. Sopra l’altar maggiore, in fondo alla navata una copia della Sacra Famiglia, dono del Ministro degli Interni, fra quattro candelieri, chiude la prospettiva. Gli stalli del coro, in legno d’abete, sono rimasti grezzi, non verniciati.

Il mercato, e cioè una tettoia di tegole sostenuta da una ventina di pali, occupa da solo circa la metà della piazza principale di Yonville. Il municipio, ‘costruito su disegno di un architetto di Parigi’, è una specie di tempio greco, situato su un angolo, di fianco alla casa del farmacista. Ostenta al pianterreno tre colonne ioniche e al primo piano una galleria a tutto sesto, mentre il timpano che la sovrasta è occupato da un gallo francese il quale appoggia una zampa sulla Costituzione e con l’altra regge la bilancia della giustizia.

Ma ciò che attira di più lo sguardo è la farmacia del signor Homais, di fronte all’albergo del Leon d’Oro. La sera soprattutto, quando la lampada è accesa e i boccali rossi e verdi che adornano la vetrina allungano lontano sul terreno i loro riflessi colorati, si intravede, come in mezzo a fuochi d’artificio, la sagoma del farmacista appoggiato al banco. La sua casa è coperta da cima a fondo da scritte in corsivo, in tondo, in stampatello: Acqua di Vichy, di Seltz e di Barèges, sciroppi depurativi, rimedio Raspail, fecola araba, pastiglie Darcet, pasta Regnault, bende, sali da bagno, cioccolatini purgativi ecc. E l’insegna, che occupa l’intera larghezza della bottega, reca la scritta in lettere d’oro Farmacia Homais. Poi, in fondo alla bottega, dietro le grandi bilance fissate al banco, la parola laboratorio si sciorina sopra una porta a vetri che, a metà altezza, ripete ancora una volta Homais in lettere d’oro su fondo nero.

Non rimane altro da vedere a Yonville. La via (l’unica), lunga non più di un tiro di schioppo e fiancheggiata da qualche bottega, termina bruscamente alla curva della strada maestra. Lasciandola sulla destra e proseguendo ai piedi del colle Saint Jean, ben presto si giunge al cimitero.

Al tempo dell’epidemia di colera, per ingrandirlo, fu abbattuto un tratto di muro e furono acquistati tre acri dei terreni confinanti; ma la parte nuova è quasi del tutto inutilizzata e le tombe continuano come sempre ad ammucchiarsi vicino all’ingresso. Il guardiano, che nello stesso tempo fa il becchino e il sagrestano (ricavando così un duplice utile dai defunti della parrocchia), ha approfittato del terreno libero per coltivarci le patate. Di anno in anno, però, il suo campicello si restringe e, quando sopravviene un’epidemia, egli non sa più se rallegrarsi per i decessi o affliggersi per le sepolture.

«Si nutre di cadaveri, Lestiboudois!» gli disse un giorno il curato.

Queste severe parole lo fecero riflettere e lo trattennero per qualche tempo, ma ancora oggi il guardiano continua a coltivare i tuberi e sostiene perfino, con impudenza, che nascono spontaneamente.

Dopo gli avvenimenti che narreremo, in realtà nulla è cambiato a Yonville. La bandiera tricolore di latta gira sempre in cima al campanile della chiesa; le banderuole di tela stampata della bottega del merciaio si agitano ancora nel vento, i feti del farmacista, simili a fagotti di esca bianca per il fuoco, imputridiscono sempre più nel loro alcool melmoso, e sul portone dell’albergo il vecchio leone d’oro, stinto dalle piogge, continua a mostrare ai passanti la criniera da can barbone.

La sera dell’arrivo dei signori Bovary a Yonville, la vedova Lefrançois, la padrona di questo albergo, era tanto indaffarata da sudare a goccioloni, mentre rimescolava le casseruole. L’indomani era giorno di mercato, per il borgo. Bisognava tagliare in anticipo le carni, preparare i polli, fare la minestra e il caffè. In più doveva pensare ai pasti dei pensionanti, del medico, di sua moglie, e della loro domestica. La sala del biliardo sonava di risate, nella saletta tre mugnai chiamavano per far portare dell’acquavite; il fuoco fiammeggiava, le braci scoppiettavano, e sulla lunga tavola della cucina, fra i quarti di montone crudo, si elevavano pile di piatti che tremolavano alle scosse del tagliere sul quale venivano tritati gli spinaci. Nel pollaio si sentivano gridare i polli che la serva inseguiva per tirar loro il collo.

Un uomo in pantofole di pelle verde, lievemente butterato dal vaiolo, e con in capo una berretta di velluto dalla nappina d’oro, si scaldava la schiena contro il caminetto. Il suo viso esprimeva la più assoluta soddisfazione ed egli aveva l’aria di vivere placido e tranquillo come il cardellino nella gabbia appesa sopra la sua testa: era il farmacista.

«Artémise!» gridava la padrona dell’albergo «spezza un po’ di fascine, riempi le bottiglie, servi l’acquavite, sbrigati! Sapessi almeno quale dessert offrire agli ospiti che sta aspettando! Bontà divina! I facchini del trasloco ricominciano la sarabanda nel biliardo! Hanno lasciato il carro sotto il portone! Se arriva la Rondine è capace di sfondarlo! Chiama Polyte perché lo porti nella rimessa!… Da questa mattina avranno fatto una quindicina di partite, signor Homais, e bevuto otto bottiglie di sidro!… Finiranno per strapparmi il feltro…» continuava, guardandoli di lontano, con in mano la schiumarola.

«Non sarebbe poi un gran male,» rispose il signor Homais «ne comprerebbe un altro…»

«Un altro biliardo!» esclamò la vedova.

«Dal momento che quello non regge più, signora Lefrançois, le ripeto, lei sbaglia, sbaglia di grosso! E poi gli appassionati adesso vogliono buche strette e stecche pesanti. Non si gioca più alle boccette; è tutto cambiato! Bisogna essere all’altezza dei tempi! Guardi Tellier, piuttosto…»

L’ostessa arrossì di dispetto. Il farmacista soggiunse:

«Lei ha un bel dire, il suo biliardo è più bello di questo; e se a qualcuno venisse l’idea di organizzare una gara patriottica a favore della Polonia o degli alluvionati di Lione…»

«Non sono certo i pitocchi come lui a farci paura!» lo interruppe l’ostessa alzando le larghe spalle «Andiamo! Andiamo! Signor Homais, finché ci sarà il Leon d’Oro la gente ci verrà. A noi non mancano i mezzi! E invece, una di queste mattine potrebbe capitarci di vedere il Caffè Francese chiuso e con un bell’affisso sulle imposte!… Cambiare il mio biliardo!» continuò fra sé e sé «Mi fa così comodo per piegare il bucato, e al tempo della caccia ci ho potuto mettere a dormire fino a sei persone!… Ma quel posapiano di Hivert, che non arriva!»

«L’aspettava per la cena dei suoi ospiti?» domandò il farmacista.

«Aspettarlo? Si figuri il signor Binet! Alle sei in punto lo vedrà entrare, un pignolo uguale a lui non esiste sulla faccia della terra. Bisogna che abbia sempre il suo solito posto nella saletta! Si farebbe ammazzare piuttosto che mangiare altrove! E quanto è schifiltoso! E com’è difficile per il sidro! Non è certo come il signor Léon; quello arriva a qualunque ora, alle sette, le sette e mezzo, e non si accorge nemmeno di quel che mangia. Che bravo giovane! Mai una parola più forte di un’altra!»

«C’è una bella differenza, creda pure, fra chi ha ricevuto una educazione e un ex carabiniere divenuto esattore delle tasse.»

Sonarono le sei mentre Binet entrava.

Indossava una finanziera blu che gli cadeva diritta intorno al corpo magro; il berretto di cuoio con i copriorecchi annodati in cima alla testa da un cordoncino lasciava vedere, sotto la visiera rialzata, una fronte calva sulla quale l’elmo aveva impresso il suo segno. Portava un panciotto di panno nero, un colletto rigido, un paio di pantaloni grigi e, in qualsiasi stagione, scarpe ben lucidate, ma deformate da due rigonfiamenti simmetrici dovuti agli alluci sporgenti. Non un pelo rompeva la perfetta armonia della barba bionda, a collare, che gli contornava la mascella, incorniciandogli il viso lungo e scialbo dagli occhi piccoli, e dal naso aquilino. Abile in tutti i giochi di carte, era anche un bravo cacciatore e aveva una bella calligrafia. Possedeva un tornio con il quale si divertiva a fabbricare portatovaglioli: ne aveva la casa piena e li conservava con la gelosia di un artista e l’egoismo di un borghese.

Si diresse verso la saletta: fu necessario prima farne uscire i tre mugnai e, mentre veniva apparecchiata la tavola, Binet rimase per conto suo in silenzio vicino alla stufa. Poi, come sempre, chiuse la porta e si tolse il berretto.

«Non ci saranno i convenevoli a consumargli la lingua!» disse il farmacista appena si trovò solo con l’ostessa.

«Non è mai più loquace di così» rispose lei. «La settimana scorsa sono passati di qui due commessi viaggiatori in stoffe, due giovani pieni di spirito che la sera raccontarono un mucchio di barzellette. Io piangevo dal gran ridere e lui rimase là come un baccalà senza dire una parola.»

«Sì,» disse il farmacista «nessuna immaginazione, nessuna arguzia, nulla di ciò che caratterizza l’uomo di mondo!»

«Eppure si dice che abbia mezzi» obiettò l’ostessa.

«Mezzi?» replicò il signor Homais «Lui! I mezzi? Quando riscuote le tasse, forse» aggiunse in tono più calmo.

E riprese:

«Capisco che un negoziante con estesi rapporti d’affari, un giureconsulto, un medico, un farmacista, possano essere tanto assorbiti dalle proprie occupazioni da diventare bisbetici e lunatici; di tipi di questo genere è piena la storia. Ma almeno si tratta di gente che pensa a qualcosa. Per esempio, a me, quante volte è capitato di cercare la penna sul banco per scrivere un’etichetta e di accorgermi poi che l’avevo sopra l’orecchio!»

La signora Lefrançois andò intanto sulla porta per vedere se la Rondine stesse arrivando. A un tratto trasalì; un uomo vestito di nero entrò d’improvviso in cucina. Era possibile, nelle ultime luci del crepuscolo, distinguerne il viso rubicondo e la corporatura atletica.

«In che cosa posso servirla, signor curato?» domandò l’albergatrice, tentando di afferrare uno dei candelieri di ottone che si trovavano sul caminetto, così bene allineati da sembrare un colonnato, e forniti di candele «Vuol bere qualcosa? Un dito di amaro, un bicchiere di vino?»

Il sacerdote rifiutò con molta cortesia. Era venuto per il parapioggia, che aveva dimenticato qualche giorno prima al convegno di Ernemont e, dopo aver pregato la signora Lefrançois di farglielo avere al presbiterio in serata, uscì per andare in chiesa mentre le campane suonavano l’Angelus.

Quando l’eco dei passi sul selciato della piazza si fu spenta, il farmacista definì molto sconveniente il modo con il quale si era comportato poco prima il curato. Il rifiuto di accettare una bibita gli sembrava un’odiosa ipocrisia: tutti sanno che i preti sbevazzano di nascosto e cercano di far tornare i tempi delle decime.

L’ostessa prese le difese del curato.

«Già, ma intanto ne vale quattro come lei. L’anno scorso aiutò i nostri uomini a ricoverare il fieno e riusciva a portarne fino a sei balle per volta, tanto è forte!»

«Bravo!» disse il farmacista «Allora mandate pure le vostre figlie a confessarsi da quel pezzo di malanno con un simile temperamento. Se fosse per me, se io fossi al Governo, farei salassare i preti una volta al mese. Sì, signora Lefrançois, tutti i mesi un bel salasso nell’interesse della sicurezza pubblica e del buon costume.»

«Ma stia zitto, signor Homais! Queste sono empietà! Lei non ha religione!»

«Io ho una religione» rispose il farmacista. «La mia religione, anzi ne ho più di loro, e senza tante commedie e tanta ciarlataneria! Io adoro Dio, invece! Credo in un Essere Supremo, in un Creatore, quale che sia, non ha importanza, il quale ci ha messi quaggiù per adempiere i nostri doveri di cittadini e di padri di famiglia; ma non ho bisogno di andare in una chiesa a baciare piatti d’argento e a ingrassare di tasca mia un branco di buffoni che mangiano meglio di me. Lo si può onorare benissimo in un bosco, in un campo, o addirittura contemplando la volta celeste come gli antichi. Il mio Dio è lo stesso di Socrate, di Franklin, di Voltaire e di Béranger. Sono d’accordo con la Professione di fede del vicario savoiardo e i principi immortali dell’89! Così io non ammetto un Dio alla buona, che passeggia in giardino con il bastone in mano, alloggia i suoi amici nel ventre delle balene, muore lanciando un grido e risuscita dopo tre giorni: cose assurde in se stesse e d’altra parte in contrasto con tutte le leggi della fisica; e questo dimostra, per inciso, che i preti si sono sempre crogiolati in una torpida ignoranza nella quale tentano di far sprofondare insieme con loro tutti i popoli.»

Il farmacista a questo punto tacque, si guardò intorno sicuro di scorgere un pubblico intorno a sé, perché, nel suo fervore, per un momento aveva creduto di essere in pieno consiglio municipale. Ma la padrona dell’albergo non l’ascoltava già più; tendeva l’orecchio a un rotolio lontano. Il rumore di una carrozza misto a uno strepito di ferri allentati che battevano sul terreno si fece distintamente sentire e, dopo poco, la Rondine si fermò davanti al portone.

Era un cassone giallo, sostenuto da due grandi ruote che, arrivando all’altezza del mantice, impedivano ai viaggiatori di vedere la strada e insudiciavano loro le spalle. I vetri dei finestrini, mobili, piccoli e stretti, tremavano nelle intelaiature quando gli sportelli venivano chiusi ed erano costellati qua e là di schizzi di fango, sulla vecchia coltre di polvere che li ricopriva, con una tenacia tale che neppure le piogge più violente riuscivano a far scomparire del tutto. Tiravano la Rondine tre cavalli, il primo dei quali attaccato a bilancino, e nelle discese il fondo della diligenza toccava il terreno a ogni sobbalzo.

Nella piazza si radunarono alcuni abitanti di Yonville: parlavano tutti insieme chiedendo notizie, spiegazioni ed esigendo i propri canestri. Hivert non sapeva più a chi rispondere. Era lui a sbrigare in città le commissioni per tutto il paese. Andava nelle botteghe, portava rotoli di cuoio per il calzolaio, ferri di ogni genere al maniscalco, un barile di aringhe per la padrona, cappellini per la modista, parrucche per il parrucchiere; e, lungo la via del ritorno, distribuiva i pacchetti gettandoli al di sopra dei recinti dei cortili, in piedi in serpa, e gridando a squarciagola mentre i cavalli continuavano a trottare per loro conto.

Era arrivato in ritardo in seguito a un incidente; la cagnolina della signora Bovary era scappata per i campi. Avevano fischiato un buon quarto d’ora per farla ritornare. Hivert era perfino tornato indietro di un mezzo miglio, sperando di rivederla da un momento all’altro. Ma poi aveva dovuto rimettersi in cammino Emma aveva pianto, si era arrabbiata, aveva accusato Charles di quella disgrazia. Il signor Lheureux, negoziante di stoffe, che viaggiava con loro sulla diligenza, aveva cercato di consolarla citandole un gran numero di casi in cui cani sperdutisi avevano riconosciuto il padrone dopo lunghi anni. C’era chi affermava, disse, che uno di essi fosse tornato da Costantinopoli a Parigi. Un altro aveva percorso cinquanta leghe in linea retta e attraversato a nuoto quattro fiumi. Il suo stesso padre aveva posseduto un can barbone il quale, dopo dodici anni di assenza, era riapparso facendogli le feste, per la strada, una sera mentre egli andava a cena fuori.

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