Gen 162015
 

L’assedio a Port Arthur era cominciato. Mony e il suo attendente Cornabœux vi erano asserragliati con le truppe del coraggioso Stoessel.

Mentre i giapponesi cercavano di forzare la cinta fortificata col filo spinato, i difensori della piazza si consolavano delle cannonate che a ogni istante minacciavano di ucciderli frequentando con assiduità i café chantant e i bordelli che erano rimasti aperti.

Quella sera Mony aveva abbondantemente cenato in compagnia di Cornabœux e di alcuni giornalisti. Avevano mangiato un eccellente filetto di cavallo, dei pesci pescati nel porto e ananas conservati; il tutto annaffiato da un eccellente champagne.

A dire il vero il dessert era stato interrotto dall’inopinato arrivo di un obice che scoppiando aveva distrutto parte del ristorante e ucciso qualche avventore. Mony era tutto elettrizzato dall’avventura, e aveva, con sangue freddo, acceso il suo sigaro alla tovaglia che aveva preso fuoco. Poi se n’era andato con Cornabœux verso un caffè-concerto.

«Quel dannato generale Kokodzyov», diceva strada facendo, «era senza dubbio uno stratega notevole, aveva previsto l’assedio di Port Arthur e verosimilmente mi ha mandato qui per vendicarsi del fatto che avevo scoperto le sue relazioni incestuose col figlio. Come Ovidio espio la colpa dei miei occhi, ma non scriverò né i Tristia né le Pontiche. Preferisco godere del tempo che mi resta da vivere».

Qualche palla di cannone passò sibilando al di sopra delle loro teste, scavalcarono una donna che giaceva tagliata in due da una palla e giunsero così alle Delices du petit pére.

Era la taverna chic di Port Arthur. Entrarono. La sala era piena di fumo. Una sciantosa tedesca, rossa e straripante, cantava con un forte accento berlinese, applaudita freneticamente da quegli spettatori che capivano il tedesco. Poi quattro girls inglesi, delle sisters qualsiasi, vennero a danzare un passo di giga, complicato da un cake-walk e da una matchiche. Erano proprio delle belle figliole. Lanciavano in alto le loro gonne frusciami per mostrare dei mutandoni guarniti di fronzoli, ma per fortuna aperti, così da lasciar intravvedere le grosse chiappe incorniciate dalla batista dell’indumento, o i peli che smorzavano la bianchezza dei loro ventri. Quando alzavano le gambe le loro fiche s’aprivano tutte muschiose. Cantavano My Cosy Corner Girl e furono più applaudite della ridicola Fräulein che le aveva precedute.

Certi ufficiali russi, probabilmente troppo poveri per pagarsi delle donne, se lo menavano coscienziosamente, contemplando con occhi dilatati quello spettacolo paradisiaco nel senso maomettano.

Di tanto in tanto un potente getto di sperma schizzava da uno di quei cazzi per andare a spiaccicarsi sull’uniforme o anche sulla barba di un vicino.

Dopo le girls, l’orchestra attaccò una marcia fragorosa e si presentò sulla scena l’attrazione principale. Era costituita da una spagnola e da uno spagnolo. I loro costumi toreadoreschi produssero una viva impressione sugli spettatori che intonarono un Bojè Tsaria Krany di circostanza.

La spagnola era una superba ragazza piazzata a dovere. Occhi nerissimi le brillavano nel pallido viso d’un ovale perfetto. Aveva le anche ben tornite e le paillette del suo vestito erano abbacinanti.

Il torero, agile e robusto, dimenava anch’egli un fondoschiena la cui mascolinità doveva presentare certamente qualche vantaggio.

L’interessante coppia lanciò dapprima nella sala, con la mano destra, mentre la sinistra posava sull’anca arcuata, una coppia di baci che fecero furore. Poi danzarono lascivamente alla moda del loro Paese. Successivamente la spagnola sollevò la gonna fino all’ombelico e la fermò in modo da rimaner scoperta fin lì. Le sue lunghe gambe erano inguainate da calze di seta rossa che salivano fino ai tre quarti della coscia. Là erano fissate al corsetto da giarrettiere dorate cui venivano ad annodarsi dei nastri di seta che trattenevano una fascia di velluto nero, posta sulle chiappe in modo da mascherare il buco del culo. La fica era nascosta da un vello nero-blu tutto ricciuto.

Il torero, cantando, tirò fuori un cazzo lunghissimo e durissimo. Danzarono così, col ventre proteso, come a cercarsi e a sfuggirsi. Il ventre della giovane ondeggiava come un mare divenuto improvvisamente solido; così la spuma mediterranea si condensò per formare il puro ventre di Afrodite.

D’un tratto, e come per incanto, il cazzo e la fica di quegli istrioni si unirono, e si sarebbe potuto credere che avrebbero semplicemente copulato sulla scena.

Invece no.

Con il cazzo ben alloggiato il torero sollevò la giovane donna che ripiegò le gambe e non toccò più terra.

Egli fece qualche passo. Poi, avendo gli inservienti del teatro teso un cavo di ferro tre metri sopra la testa degli spettatori, egli vi montò sopra, e, funambolo osceno, portò a spasso così la sua compagna, al di sopra degli spettatori congestionati, attraverso la sala. Infine tornò rinculando sul palco. Gli spettatori applaudirono da far crollare il teatro e ammirarono molto le forme della spagnola il cui culo mascherato, essendo costellato di fossette, sembrava sorridere.

Poi fu la volta della donna. Il torero ripiegò le ginocchia e, saldamente immanicato nella fica della compagna, si lasciò anch’egli portare a spasso sulla corda tesa.

Questa fantasia funambolesca aveva eccitato Mony.

«Andiamo al bordello», disse a Cornabœux.

Les samouraï joyeux era l’accattivante nome del lupanare alla moda durante l’assedio di Port Arthur.

Era tenuto da due uomini, due anziani poeti simbolisti che si erano sposati per amore a Parigi ed erano venuti a nascondere la loro felicità in Estremo Oriente. Vi esercitavano il redditizio mestiere dei tenutari di bordello e vi si trovavano bene. Si vestivano da donna e si chiamavano «signorine», pur senza aver rinunciato ai baffi e ai nomi maschili.

Uno era Adolphe Terré. Era il più anziano. Il più giovane aveva avuto la sua ora di celebrità a Parigi. Chi non ricorda il mantello grigio perla e il collo d’ermellino di Tristan de Vinagre?

«Vogliamo donne», disse in francese Mony alla cassiera, che altri non era che Adolphe Terré. Costui attaccò una delle sue poesie:

In una sera che fra Versailles e Fontainebleau

Inseguivo una ninfa tra selve fruscianti,

Ratto il mio cazzo rizzò per la grama occasione

Che magra e diritta veniva a un diabolico idillio.

L’infilai per tre volte, poi mi stordii venti giorni,

Me ne venne uno scolo ma gli dèi proteggevano

Il poeta. Al posto dei peli dei glicini avevo

E Virgilio cacò su di me questi distici aulici…

«Basta, basta», disse Cornabœux, «delle donne, perdio!».

«Ecco la sotto-maîtresse», disse rispettosamente Adolphe.

La sotto-maîtresse, cioè il biondo Tristan de Vinaigre, avanzò graziosamente e mettendo i suoi occhi blu su Mony pronunciò con voce canora questa poesia storica:

Il mio cazzo è arrossito d’una allegrezza vermiglia

Nella mia verde età, nella mia primavera

E le mie palle si son dondolate come frutti pesanti

Alla ricerca del cesto.

Il vello sontuoso in cui mi s’infolta la verga

Si distende ben spesso

Dal culo al pube e da lì all’ombelico (e infine dovunque!).

Nel pieno rispetto delle mie fragili chiappe,

Immote e contratte quando ho da cacare

Sopra la tavola altissima, su lucida carta

Gli stronzi ben caldi che dalla mia mente rampollano.

«Insomma», disse Mony, «questo qui è un bordello o un cesso pubblico?»

«Le ragazze in sala!», gridò Tristan, e nel contempo allungò una salvietta a Cornabœux aggiungendo:

«Una salvietta per due, signore… Voi comprenderete… in tempi d’assedio».

Adolphe riscosse quei trecentosessanta rubli che erano il prezzo delle puttane a Port Arthur. I due amici entrarono nel salone. Uno spettacolo incomparabile li attendeva.

Le puttane abbigliate con vestaglie color ribes, cremisi, bluastre e bordò giocavano a bridge fumando sigarette bionde.

Proprio in quel momento si udì un fracasso spaventoso: un obice forando il soffitto cadde pesantemente sul pavimento, dove affondò come un bolide proprio al centro del cerchio formato dalle giocatrici di bridge. Per fortuna l’obice non scoppiò. Tutte le donne caddero all’indietro lanciando grida. Finirono a gambe all’aria e mostrarono l’asso di picche agli occhi concupiscenti dei due militari. Fu un’esposizione ammirevole di culi di tutte le nazionalità, poiché quel bordello modello aveva puttane di tutte le razze. Il culo a pera delle frisone contrastava coi culi pienotti delle parigine, con le chiappe meravigliose delle inglesi, coi posteriori squadrati delle scandinave e coi culi cascanti delle catalane. Una negra mostrò una massa tormentata che assomigliava più a un cratere vulcanico che a un didietro femminile. Quando si fu rialzata, dichiarò che la coppia avversaria aveva un grande slam, tanto in fretta ci si abitua agli orrori della guerra.

«Io prendo la negra», dichiarò Cornabœux, mentre quella regina di Saba, sentendosi nominare, si alzava salutando il suo Salomone con queste amene parole:

«Tu venire a perticare mia patatona, zignor generale?».

Cornabœux l’abbracciò gentilmente.

Ma Mony non era ancora soddisfatto da quella esibizione internazionale:

«Dove sono le giapponesi?», chiese.

«Fa cinquanta rubli in più», dichiarò la sotto-maîtresse allisciandosi i baffoni, «voi capite, sono il nemico!».

Mony pagò e vennero fatte entrare una ventina di musmè nel loro costume nazionale.

Il principe ne scelse una che era affascinante e la sotto-maîtresse introdusse le due coppie in un localino adattato a scannatoio.

La negra che si chiamava Cornelia e la musmè che rispondeva al delicato nome di Kilyemù, ossia Bocciolo di fiore di nespolo del Giappone, si spogliarono cantando, una in sabir tripolino, l’altra in bitchlamar.

Mony e Cornabœux si spogliarono.

Il principe lasciò in un angolo il suo cameriere e la negra, e non si occupò più che di Kilyemù, la cui bellezza, infantile e grave al contempo, lo incantava.

L’abbracciò teneramente e, di tanto in tanto, durante quella bella notte d’amore si udiva il frastuono del bombardamento. Degli obici scoppiavano con dolcezza. Si sarebbe detto che un principe orientale offrisse dei fuochi d’artificio in onore di qualche principessa georgiana e vergine.

Kilyemù era minuta ma molto ben fatta, aveva il corpo giallo come una pesca, e i seni piccoli e puntuti duri come palle da tennis. I peli della fica erano uniti in un ciuffetto ruvido e nero, lo si sarebbe detto un pennello bagnato.

Ella si mise supina e, ripiegando le cosce sul ventre, con le ginocchia flesse aprì le gambe come un libro.

Questa posizione impossibile per un’europea stupì Mony.

Egli ne gustò ben presto l’incanto. Il suo cazzo s’infilò tutto intero fino ai coglioni in una fica elastica che, dapprima larga, si restringeva ben presto in maniera stupefacente. E quella piccola donna, che sembrava a stento pronta per il maschio, laggiù aveva uno schiaccianoci. Mony se ne accorse per bene quando, dopo gli ultimi sussulti di voluttà, scaricò in una vagina che si era follemente ristretta e che gli succhiò il cazzo fino all’ultima goccia…

«Raccontami la tua storia», disse Mony a Kilyemù mentre si sentivano nell’angolo i cinici singulti di Cornabœux e della negra.

Kilyemù si sedette:

«Io sono», ella disse, «la figlia di un suonatore di samisen, una specie di chitarra che si suona a teatro. Mio padre era nel coro e, suonando arie tristi, recitava storie liriche e cadenzate da un palchetto, chiuso da una grata, posto sul proscenio.

Mia madre, la bella Pesca-di-Luglio, recitava nei ruoli principali di quelle lunghe commedie tipiche della drammaturgia nipponica.

Ricordo che recitò I quarantasette Roonins, La Bella Siguenaï, e anche Taïko.

La nostra troupe andava di città in città, e la natura ammirevole in cui sono cresciuta mi si ripresenta sempre alla memoria nei momenti di abbandono amoroso.

Mi arrampicavo sui matsù, conifere giganti; andavo a vedere bagnarsi nei fiumi i bei samurai nudi, la cui mentula enorme non aveva nessun significato per me, a quell’epoca, e io ridevo con le serve graziose e felici che venivano ad asciugarli.

Oh! Fare all’amore nel mio Paese sempre in fiore! Amare un lottatore tarchiato sotto i ciliegi rosa e scendere lungo le colline tra baci e abbracci!

Un marinaio, in licenza dalla Compagnia di Nippon Fosen Kaïsa e che era mio cugino, si prese un giorno la mia verginità.

Mio padre e mia madre recitavano Il grande ladro e la sala era piena. Mio cugino mi portò a passeggio. Avevo tredici anni. Egli aveva viaggiato in Europa e mi raccontava le meraviglie di un universo che ignoravo. Mi condusse in un giardino deserto pieno d’iris, di camelie rosso cupo, di gigli gialli e di fiori di loto simili alla mia lingua tanto erano graziosamente rosati. Là mi abbracciò e mi chiese se avessi già fatto l’amore; gli risposi di no. Allora mi tolse il kimono e mi solleticò i seni, cosa che mi fece ridere, ma divenni serissima quando mi mise in mano un membro duro, grosso e lungo. “Che ne vuoi fare?”, gli domandai. Senza rispondermi mi fece stendere, mi scoprì le gambe e dardeggiandomi la lingua in bocca penetrò la mia verginità. Ebbi la forza di lanciare un grido che dovette turbare le graminacee e i bei crisantemi del grande giardino deserto, ma ben presto si destò in me la voluttà. Più tardi un armaiolo mi rapì, era bello come il Daïboux di Kamakoura, e bisogna parlare religiosamente della sua verga che sembrava di bronzo dorato e che era inesauribile.

Tutte le sere prima dell’amore io mi credevo insaziabile ma, dopo aver sentito quindici volte la calda semenza spandersi nella mia vulva, dovevo offrirgli il mio stanco didietro perché potesse soddisfarsi, o, quand’ero troppo esausta, prendevo il suo membro in bocca e lo succhiavo finché non m’ordinasse di smettere! Si uccise per obbedire alle prescrizioni del Bushido, e compiendo quell’atto cavalleresco mi lasciò sola e inconsolata.

Mi raccolse un inglese di Yokohama. Sapeva di cadavere come tutti gli europei e, per molto tempo, non riuscii ad abituarmi a quell’odore. Così lo supplicavo d’incularmi per non vedermi davanti la sua faccia bestiale dai favoriti rossi. Tuttavia alla fine mi abituai a lui, e, poiché lui era sotto il mio dominio, lo costringevo a leccarmi la vulva fino a che la sua lingua, presa dai crampi, non poteva più muoversi.

Un’amica di cui avevo fatto conoscenza a Tokio e che amavo alla follia venne a consolarmi.

Era bella come la primavera e sembrava che due api le stessero sempre posate sulla punta dei seni. Ci soddisfacevamo con un pezzo di marmo giallo lavorato ai due estremi a forma di cazzo. Eravamo insaziabili e l’una nelle braccia dell’altra, perdute, schiumanti e urlanti, ci agitavamo furiosamente come due cani che vogliano rosicchiare il medesimo osso.

L’inglese un giorno impazzì; si credeva lo shogun e voleva inculare il mikado.

Lo portarono via e io mi misi a far la puttana assieme alla mia amica fino al giorno in cui mi innamorai di un tedesco, grande, forte, imberbe, che aveva un gran cazzo inesauribile. Mi batteva e io l’abbracciavo piangendo. Alla fine, carica di botte, lui mi faceva l’elemosina del suo cazzo e io godevo come un’invasata stringendolo con tutte le forze.

Un giorno prendemmo il battello, mi condusse a Shangai e mi vendette a una ruffiana. Poi se ne andò, il mio bell’Egon, senza voltar la testa, lasciandomi disperata con le donne del bordello che ridevano di me. Mi istruirono assai bene nel mestiere, ma quando avrò molto denaro me ne andrò, da donna onesta, in giro per il mondo, a ritrovare il mio Egon, per sentire ancora una volta il suo membro nella mia vulva e morire pensando agli alberi rosa del Giappone».

La giapponesina, diritta e seria, se ne andò come un’ombra lasciando Mony, che aveva le lacrime agli occhi, a meditare sulla fragilità delle passioni umane.

Sentì allora un russare sonoro e, voltando il capo, vide la negra e Cornabœux addormentati castamente l’uno nelle braccia dell’altro; ma erano entrambi mostruosi. Il grosso culo di Cornelia risaltava, riflettendo la luna il cui lucore entrava dalla finestra aperta. Mony sguainò la sciabola e punzecchiò quel gran pezzo di carne.

Nella sala si sentì gridare. Cornabœux e Mony uscirono con la negra. La stanza era piena di fumo. Degli ufficiali russi ubriachi e volgari vi erano entrati, e, vomitando delle immonde bestemmie, si erano precipitati sulle inglesi del bordello che, disgustate dall’aspetto ignobile di quei soldatacci, mormoravano dei bloody e dei damned del meglio che ne avevano.

Cornabœux e Mony contemplarono per un istante lo stupro delle puttane, quindi uscirono durante una inculata collettiva strabiliante, lasciando disperati Adolphe Terré e Tristan de Vinaigre che tentavano di ristabilire l’ordine e s’agitavano vanamente, impacciati dalle sottane femminili.

In quel mentre entrò il generale Stoessel e tutti dovettero rettificare la propria posizione, persino la negra.

I giapponesi avevano appena sferrato il primo assalto alla città assediata.

Mony ebbe quasi voglia di ritornare sui suoi passi per vedere ciò che avrebbe fatto il suo capo, quando si sentirono delle grida selvagge dalla parte dei bastioni.

Arrivarono dei soldati portando un prigioniero. Era un giovanottone, un tedesco, che era stato trovato sul limitare delle opere di difesa, mentre depredava cadaveri. Gridava in tedesco:

«Non sono un ladro. Amo i russi, sono venuto coraggiosamente attraverso le linee giapponesi per propormi come checca, frocio, culattone. Certamente non avrete molte donne e non sarete dispiaciuti di tenermi».

«A morte», gridarono i soldati, «a morte, è una spia, un ladro, uno spogliatore di cadaveri!».

Nessun ufficiale accompagnava i soldati. Mony avanzò e domandò spiegazioni:

«Voi vi ingannate», disse allo straniero, «noi abbiamo donne in abbondanza, ma il vostro delitto va vendicato. Voi sarete inculato, dal momento che ci tenete, dai soldati che vi hanno catturato, e poi sarete impalato. Morirete così come avete vissuto ed è la morte più bella, a detta dei moralisti. Il vostro nome?»

«Egon Müller», dichiarò l’uomo tremando.

«Bene», disse seccamente Mony, «voi venite da Yokohama e avete fatto vergognoso commercio, da vero pappone, della vostra amante, una giapponese chiamata Kilyemù. Checca, spia, magnaccia e spogliatore di cadaveri, non vi manca niente. Che si prepari il palo e voi, soldati, inculatelo… Non avete mica tutti i giorni un’occasione simile».

Denudarono il bell’Egon. Era un giovane di una bellezza ammirevole, dai seni sbozzati come quelli di un ermafrodito. Alla vista di quelle grazie i soldati estrassero i loro cazzi concupiscenti.

Cornabœux si commosse e con le lacrime agli occhi domandò al suo capo di risparmiare Egon, ma Mony fu inflessibile e non permise al suo attendente che di farsi succhiare il cazzo dall’affascinante efebo che, a culo proteso, ricevette uno dopo l’altro nel suo ano dilatato i piloni raggianti dei soldati i quali, come donnicciole, cantavano inni religiosi di ringraziamento per la loro preda.

La spia, dopo aver ricevuto la terza scarica, cominciò a godere furiosamente e agitava il culo succhiando il cazzo di Cornabœux, come se avesse avuto ancora trent’anni di vita davanti.

Nel frattempo era stato innalzato il palo di ferro che doveva fungere da sedile al gitone.

Quando tutti i soldati ebbero inculato il prigioniero, Mony disse qualche parola all’orecchio di Cornabœux, che era ancora beato di come gli era stata appena temperata la matita.

Cornabœux andò sino al bordello e ne ritornò subito accompagnato dalla giovane puttana giapponese Kilyemù, che si chiedeva cosa si volesse da lei.

Poi all’improvviso scorse Egon, che avevano appena ficcato, imbavagliato, sul palo di ferro. Si contorceva e la punta gli penetrava a poco a poco nelle viscere. Il suo palo anteriore rizzava da rompersi.

Mony indicò Kilyemù ai soldati e la povera piccola guardò il suo amante impalato con occhi in cui il terrore, l’amore e la compassione si mescolavano in una desolazione suprema. I soldati la denudarono e issarono il suo povero corpo d’uccellino su quello dell’impalato.

Allargarono le gambe della sventurata e il cazzo enfiato che aveva tanto desiderato la penetrò ancora.

La povera animuccia semplice non comprendeva tanta barbarie, ma il cazzo che la riempiva l’eccitava troppo alla voluttà. Divenne come folle e si agitava, facendo scivolare a poco a poco il corpo del suo amante lungo il palo. Egli scaricò rendendo l’anima.

Era uno strano stendardo quello, composto da un uomo imbavagliato e da una donna che si agitava su di lui, a fauci spalancate!

Un sangue scuro formava una pozza ai piedi del palo.

«Soldati, salutate coloro che muoiono», gridò Mony, e rivolgendosi a Kilyemù:

«Ho esaudito i tuoi desideri… in questo momento in Giappone i ciliegi sono in fiore, e gli amanti si smarriscono tra la neve rosata dei petali che sfogliano!».

Poi, afferrando la sua rivoltella, le fece saltare la testa, e le cervella della giovane cortigiana schizzarono sul viso dell’ufficiale come se ella avesse voluto sputare sul suo boia.

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.