Gen 202015
 

Dopo l’esecuzione sommaria della spia Egon Müller e della puttana giapponese Kilyemù, il principe Vibescu era diventato molto popolare a Port Arthur.

Un giorno il generale Stoessel lo fece chiamare e gli consegnò un plico dicendo:

«Principe Vibescu, pur non essendo russo, voi siete nondimeno uno dei migliori ufficiali della piazza… Stiamo aspettando soccorsi, ma bisogna che il generale Kuropatkin si affretti… Se tarda ancora, dovremo capitolare… Questi cani di giapponesi non ci mollano e il loro fanatismo finirà con l’aver ragione della nostra resistenza. Occorre che voi attraversiate le linee giapponesi e che recapitiate questo dispaccio al generalissimo».

Fu preparato un pallone. Per otto giorni Mony e Cornabœux si esercitarono nel governo dell’aerostato che un bel mattino venne gonfiato.

I due messaggeri salirono nella navicella e pronunciarono il tradizionale: «Molla tutto!», e avendo ben presto raggiunto la regione delle nuvole, la terra apparve loro come piccola cosa, e il teatro della guerra era nitidamente visibile, con le armate e le squadre navali, e il fiammifero che i due sfregavano per accendersi la sigaretta lasciava una scia più luminosa delle granate dei giganteschi cannoni di cui si servivano i belligeranti.

Una brezza favorevole spinse il pallone nella direzione delle armate russe e dopo qualche giorno atterrarono e furono ricevuti da un ufficiale superiore che diede loro il benvenuto. Era Fiodor, l’uomo dai tre testicoli, l’antico amante di Hélène Verdier, la sorella di Culculine d’Ancône.

«Tenente», gli disse il principe Vibescu, saltando giù dalla navicella, «voi siete assai cortese e l’accoglienza che ci fate ci ricompensa ampiamente delle nostre fatiche. Lasciate che vi domandi scusa d’avervi fatto becco a San Pietroburgo con la vostra amante Hélène, l’istitutrice francese della figlia del generale Kokodzyov».

«Avete fatto bene», rispose Fiodor, «figuratevi che io ho trovato qui sua sorella Culculine, una superba ragazza che fa la kellerina in una birreria con servizio femminile frequentata dai nostri ufficiali. Ha abbandonato Parigi per farsi un gruzzolo in Estremo Oriente. Qui guadagna assai perché gli ufficiali fanno baldoria come chi non ha molto da vivere, e la sua amica Alexine Mangetout è con lei».

«Come!», gridò Mony, «Culculine e Alexine sono qui!… Conducetemi presto dal generale Kuropatkin, bisogna innanzitutto che porti a termine la mia missione… Poi mi condurrete alla birreria…».

Il generale Kuropatkin ricevette amabilmente Mony nel suo palazzo. Era un vagone ferroviario molto ben sistemato.

Il generalissimo lesse il messaggio, poi disse:

«Faremo tutto il possibile per liberare Port Arthur. Nell’attesa, principe Vibescu, vi nomino cavaliere di San Giorgio…».

Mezz’ora dopo, il novello decorato si trovava nella birreria del Cosacco Dormiente in compagnia di Fiodor e Cornabœux. Due donne si precipitarono per servirli: erano Culculine e Alexine, affascinanti dalla testa ai piedi. Erano vestite da soldati russi e portavano un grembiule merlettato davanti ad ampi pantaloni infilati negli stivali; i loro culi e le loro tette sporgevano piacevolmente rigonfiando l’uniforme. Un berrettino posto di traverso sui capelli completava ciò che questo abbigliamento militare aveva di eccitante. Avevano l’aspetto di due piccole comparse da operetta.

«Toh, Mony!», gridò Culculine. Il principe abbracciò le due donne e chiese della loro storia.

«Certo», disse Culculine, «ma anche tu ci racconterai quello che ti è capitato.

Dopo la notte fatale in cui i ladri ci lasciarono mezzo morti presso il cadavere di uno di loro a cui avevo staccato il cazzo coi denti in un momento di folle godimento, mi risvegliai circondata dai medici. Mi era stato trovato un coltello piantato nelle chiappe. Alexine fu curata a casa propria e di te non abbiamo più avuto notizie. Ma venimmo a sapere, quando potemmo uscire, che tu eri ripartito per la Serbia. L’accaduto aveva suscitato uno scandalo enorme, il mio esploratore al suo ritorno mi lasciò e il senatore di Alexine non volle più mantenerla.

La nostra stella cominciava a declinare, a Parigi. Scoppiò la guerra tra la Russia e il Giappone. Il protettore di una mia amica organizzava una spedizione di donne che servissero nelle birrerie-bordello al seguito dell’armata russa; ci ingaggiarono ed eccoci qua».

Mony raccontò quel che gli era accaduto, omettendo l’episodio dell’Orient Express. Presentò Cornabœux alle due donne ma senza dire che era lui lo scassinatore che aveva piantato il coltello nelle chiappe di Culculine.

Tutti questi racconti provocarono un gran consumo di bevande; la sala si era riempita di ufficiali in berretto che cantavano a squarciagola tastando le cameriere.

«Usciamo», disse Mony.

Culculine e Alexine li seguirono e i cinque militari lasciarono i camminamenti e si diressero verso la tenda di Fiodor.

Era scesa, stellata, la notte. A Mony, passando davanti al vagone del generalissimo, venne un capriccio; fece togliere le mutande ad Alexine, le cui grosse chiappe sembravano a disagio così costrette, e mentre gli altri continuavano ad andare, palpeggiò il culo superbo, simile a un volto pallido sotto la pallida luna, poi, tirando fuori il suo palo selvaggio, lo sfregò un istante nella riga culina, facendogli a tratti becchettare il buco del culo, poi d’improvviso si decise, udendo un suono secco di tromba accompagnato da rulli di tamburo. Il palo discese tra le chiappe fresche e si addentrò in una valle che terminava nella fica. Le mani del giovanotto, dal davanti, rovistavano il vello e stuzzicavano il clitoride. Egli andò e venne scavando col vomere del suo aratro il solco di Alexine che godeva agitando il suo culo lunare, di cui la luna là in alto sembrava sorridere con ammirazione.

Tutto a un tratto incominciò l’appello monotono delle sentinelle; le loro grida si ripetevano attraverso la notte. Alexine e Mony godevano silenziosamente e quando eiacularono, quasi nello stesso momento e con profondi sospiri, un obice lacerò l’aria e uccise alcuni soldati che dormivano in un fosso. Morirono lamentandosi come bambini che chiamano la mamma. Mony e Alexine, ricompostisi in fretta, corsero alla tenda di Fiodor.

Là trovarono Cornabœux senza pantaloni, inginocchiato davanti a Culculine che, senza mutande, gli mostrava il culo. Diceva:

«No, non si vede affatto e non si direbbe proprio che tu abbia ricevuto una coltellata lì dentro».

Poi, alzatosi, l’inculò gridando frasi russe che aveva imparato.

Fiodor si mise allora davanti a lei e le introdusse il membro nella fica. Si sarebbe detto che Culculine fosse un grazioso ragazzo, che mentre lo si inculava infilava la sua proboscide in una donna. In effetti, era vestita da uomo e il membro di Fiodor sembrava fosse suo. Ma le sue chiappe erano troppo grosse perché questo pensiero potesse durare per molto. Inoltre la vita sottile e il rigonfiamento dei seni smentivano che fosse un gitone.

Il trio si agitava in cadenza e Alexine si avvicinò per solleticare i tre coglioni di Fiodor.

In quel momento un soldato chiese ad alta voce, fuori della tenda, del principe Vibescu.

Mony uscì: il militare veniva in staffetta per conto del generale Munin con una convocazione immediata per Mony.

Seguì il soldato, e attraversando l’accampamento raggiunsero un furgone sul quale Mony salì mentre il soldato annunciava:

«Il principe Vibescu».

L’interno del furgone assomigliava a un boudoir, ma a un boudoir orientale. Vi regnava un lusso insensato e il generale Munin, un colosso di cinquanta anni, ricevette Mony con grande compitezza.

Gli mostrò una graziosa giovane di circa vent’anni distesa con noncuranza su un sofà.

Era una circassa, sua moglie:

«Principe Vibescu», disse il generale, «avendo oggi sentito parlare della vostra impresa, la mia sposa ha tenuto a felicitarsi con voi. D’altra parte è incinta di tre mesi e una voglia da donna gravida la spinge irresistibilmente a voler fare l’amore con voi. Eccola! Fate il vostro dovere. Io mi soddisferò altrimenti».

Senza replicare Mony si denudò e cominciò a spogliare la bella Haidyn che sembrava in uno stato d’eccitazione straordinario. Mentre Mony la spogliava lei lo mordeva. Aveva un fisico stupendo e la pancia non le si vedeva ancora. I suoi seni, modellati dalle Grazie, si drizzavano tondi come palle da cannone.

Il suo corpo era agile, pieno e slanciato. C’era una così bella sproporzione tra la grossezza del culo e la sottigliezza della vita che Mony si sentì drizzare il membro come un abete di Norvegia.

Lei glielo prese mentre lui le palpava le cosce, grosse in alto e più sottili verso il ginocchio.

Quando fu nuda, egli le montò sopra e l’infilò nitrendo come uno stallone, mentre lei chiudeva gli occhi assaporando una beatitudine infinita.

Il generale Munin, intanto, aveva fatto entrare un ragazzino cinese, minuscolo e spaurito.

I suoi occhi a mandorla sbirciavano la coppia in amore.

Il generale lo svestì e gli succhiò il codino grosso appena come una giuggiola.

Poi lo girò e gli sculacciò il culetto magro e giallo. Prese la sua grande sciabola e se la pose accanto.

Poi inculò il ragazzetto che doveva conoscere questo modo di civilizzare la Manciuria, perché agitava da esperto il suo corpicino di frocetto celeste.

Il generale diceva:

«Godi bene, Haidyn mia, anch’io sto per godere».

E il suo palo usciva quasi per intero dal corpo del cinesino per rientrarvi alla svelta. Quando fu sul punto di godere, prese la sciabola e, a denti stretti, senza cessare lo sculettio, troncò la testa del piccolo cinese, i cui ultimi spasmi gli procurarono un grande godimento, mentre il sangue zampillava da quel collo come l’acqua di una fontana.

Poi il generale si sfilò dal suo culo e si asciugò la proboscide col fazzoletto. Quindi ripulì la spada, raccolse la testa del piccolo decapitato e la mostrò a Mony e ad Haidyn che ora avevano cambiato posizione.

La circassa cavalcava Mony con furia. Le sue tette danzavano e il culo le si rialzava freneticamente. Le mani di Mony palpavano quelle grosse chiappe meravigliose.

«Guardate», disse il generale, «come sorride gentilmente il cinesino».

La testa ghignava in maniera spaventosa ma la sua vista raddoppiò il furore erotico dei due copulatori che sculettarono con ardore ancora maggiore.

Il generale gettò via la testa, poi, afferrando la moglie per le anche, le introdusse il membro nel culo. Il godimento di Mony ne fu aumentato. I due piloni, appena separati da una sottile parete, venivano a scontrarsi frontalmente, aumentando il godimento della giovane donna che mordeva Mony e si torceva come una vipera. La triplice scarica avvenne nello stesso momento. Il trio si separò e il generale, subito balzato in piedi, brandì la sciabola gridando:

«Ora, principe Vibescu, dovete morire, avete visto troppo!».

Ma Mony lo disarmò senza fatica.

Poi lo legò mani e piedi e lo stese in un angolo del furgone, vicino al cadavere del cinesino. Quindi continuò fino al mattino i suoi piacevoli sollazzi con la generalessa. Quando la lasciò era stanca e addormentata. Anche il generale dormiva, le mani e i piedi legati.

Mony se ne andò alla tenda di Fiodor: anche lì avevano copulato per tutta la notte. Alexine, Culculine, Fiodor e Cornabœux dormivano nudi e coricati alla rinfusa su dei mantelli. Lo sperma impiastricciava i peli delle donne e i cazzi degli uomini pendevano deplorevolmente.

Mony li lasciò dormire e si mise a vagare per il campo. Si annunciava un imminente combattimento coi giapponesi. I soldati si equipaggiavano o mangiavano. Alcuni cavalleggeri si prendevano cura dei loro cavalli.

Un cosacco che aveva freddo alle mani se le stava riscaldando nella ficona della sua giumenta. La bestia nitriva dolcemente: tutt’a un tratto il cosacco, riscaldato, montò su una sedia dietro alla bestia e tirando fuori un gran cazzo lungo come un manico di lancia lo fece penetrare con godimento nella vulva dell’animale che secerneva un ippomane assai afrodisiaco, tanto che la bestia umana scaricò tre volte con grandi movimenti di culo prima di smontare di fica.

Un ufficiale che scorse quell’atto di bestialità si avvicinò al soldato con Mony. Lo rimproverò vivamente d’aver ceduto alla sua passione:

«Amico mio», gli disse, «la masturbazione è una qualità militare.

Ogni buon soldato deve sapere che in tempo di guerra l’onanismo è il solo atto amoroso permesso. Menatevelo, ma non toccate né le donne né le bestie.

Del resto, la masturbazione è molto lodevole perché permette agli uomini e alle donne di abituarsi alla loro separazione prossima e definitiva. I costumi, lo spirito, le abitudini e i gusti dei due sessi differiscono sempre più. Sarebbe ora di accorgersene e mi sembra necessario, se si vuole dominare sulla terra, tener conto di questa legge naturale che ben presto finirà con l’imporsi».

L’ufficiale si allontanò lasciando Mony pensieroso tornare alla tenda di Fiodor.

D’un tratto il principe sentì un rumore bizzarro, si sarebbe detto di prefiche irlandesi che si lamentassero per un morto sconosciuto.

Avvicinandosi il rumore si modificò, divenne ritmato da schiocchi secchi, come se un direttore d’orchestra folle picchiasse con la bacchetta sul leggio mentre l’orchestra suonava in sordina.

Il principe corse più in fretta e uno strano spettacolo si presentò ai suoi occhi. Una squadra di soldati comandati da un ufficiale picchiavano, a turno, con lunghe verghe flessibili sulle schiene di condannati nudi fino alla cintola.

Mony, il cui grado era più elevato di quello del comandante dei fustigatori, volle prendere il loro comando.

Fu condotto un nuovo colpevole. Era un bel giovanotto tartaro che non parlava quasi il russo. Il principe lo fece denudare completamente, poi i soldati lo fustigarono cosicché il freddo del mattino lo pungeva quanto le verghe che lo sferzavano.

Quegli rimaneva impassibile e una tale calma irritò Mony; disse una parola all’orecchio dell’ufficiale che subito condusse una cameriera della birreria. Era una kellerina prosperosa, con il didietro e il seno che riempivano indecentemente l’uniforme che la strizzava. La bella ragazzona arrivò impacciata dal costume e camminando a passo d’anatra.

«Siete indecente, ragazza mia», disse Mony, «quando si è una donna come voi, non ci si veste da uomo; cento colpi di frusta per farvelo capire».

La disgraziata tremò in tutte le membra ma, a un gesto di Mony, i soldati la spogliarono. La sua nudità contrastava singolarmente con quella del tartaro.

Lui era molto alto, il viso emaciato e gli occhi piccoli, maligni e calmi; le sue membra avevano quella magrezza con la quale si rappresenta Giovanni Battista dopo che ebbe vissuto per un po’ di cavallette. Le braccia, il petto e le gambe da airone erano villosi; il pene circonciso si inturgidiva a causa della fustigazione e il glande era di un color porpora da vomito di ubriaco.

La kellerina, bell’esemplare di tedesca del Brunswick, aveva il posteriore pesante; la si sarebbe detta una robusta cavalla lussemburghese lasciata in mezzo a stalloni. I capelli biondo stoppa le conferivano un aspetto piuttosto poetico, le Naiadi renane non devono esser diverse.

Ciuffi biondi chiarissimi le pendevano sino a mezza coscia. Quella zazzera copriva interamente un inguine ben rigonfio. La donna sprizzava una salute robusta e tutti i soldati sentirono i loro membri virili fare spontaneamente il presentatarm.

Mony chiese uno knut, che gli venne portato. Lo mise in mano al tartaro.

«Porco di un prevosto», gli gridò, «se vuoi salvare la tua pellaccia, non risparmiar quella di codesta puttana».

Il tartaro senza risponder nulla esaminò da intenditore lo strumento di tortura, composto da corregge di cuoio incrostate di limatura di ferro.

La donna piangeva e chiedeva mercé in tedesco. Il suo corpo bianco e rosato tremava. Mony la fece mettere carponi, poi, con una pedata, costrinse il suo grosso culo a sollevarsi. Il tartaro scosse dapprima lo knut in aria, poi, alzando vigorosamente il braccio, era in procinto di colpirla quando la sventurata kellerina, che tremava in tutte le membra, lasciò andare un peto sonoro che fece ridere tutti, e lo knut ricadde. Mony, con una verga in mano, gli sferzò il viso dicendo:

«Idiota, ti ho detto di picchiare, non di ridere».

Poi gli diede la verga ordinandogli di fustigare la tedesca prima con quella, per abituarla. Il tartaro si mise a colpire con regolarità. Il suo membro piazzato dietro il gran culo della paziente si era drizzato, ma, malgrado la concupiscenza, il suo braccio ripiombava ritmicamente, la verga era assai flessibile, il colpo sibilava nell’aria, poi ricadeva seccamente sulla pelle tesa che si striava.

Il tartaro era un artista e i colpi che infliggeva si riunivano sino a formare un disegno calligrafico.

Sulla parte bassa del dorso, sopra le chiappe, la parola «puttana» apparve ben presto distintamente.

Si applaudì con calore mentre le grida della tedesca diventavano sempre più roche. Il suo culo, a ogni colpo di verga, si agitava per un istante, poi si sollevava; e le chiappe ben strette subito si aprivano; si intravvedeva allora il buco del culo e subito sotto la fica, sbadigliante e umida.

A poco a poco, sembrava abituarsi ai colpi. A ogni schiocco della verga, la schiena si sollevava mollemente, il culo si schiudeva e la fica sbadigliava di soddisfazione, come se un godimento imprevisto venisse a visitarla.

Ben presto cadde, come soffocata dal piacere, e Mony, a quel punto, fermò la mano del tartaro.

Gli ridiede lo knut e l’uomo, eccitatissimo, folle di desiderio, si mise a colpire con quell’arma crudele la schiena della tedesca. Ogni colpo lasciava molteplici segni sanguinosi e profondi, poiché il tartaro non sollevava lo knut dopo averlo abbattuto, ma lo tirava verso di sé in modo tale che la limatura di cui le corregge della sferza erano incrostate asportasse lembi di pelle e di carne, che schizzavano da tutte le parti macchiando di piccole gocce di sangue le uniformi della soldatesca.

La tedesca non sentiva più dolore, si scuoteva, si torceva e mugolava di godimento. Era rossa in volto e sbavava, e quando Mony comandò al tartaro di smetterla, le tracce della parola «puttana» erano scomparse poiché la schiena era tutta una piaga.

Il tartaro rimase dritto, lo knut sanguinante in mano; sembrava chiedere un segno di approvazione, ma Mony lo guardò con aria sprezzante: «Avevi cominciato bene, ma hai finito male. Il lavoro che hai fatto è detestabile. Hai colpito come un incompetente. Soldati, portate via questa donna e conducetemi una sua compagna in quella tenda là: è vuota. Voglio intrattenermi con questo miserabile tartaro».

Congedò i soldati, alcuni dei quali portarono via la tedesca, e il principe rimase solo con il suo condannato nella tenda.

Si mise a picchiarlo con tutte le forze, munito di due verghe. Il tartaro, eccitato dallo spettacolo di cui era stato testimone e protagonista, non trattenne per molto lo sperma che gli ribolliva nei coglioni. Il suo membro si drizzò sotto i colpi di Mony e lo sperma che ne zampillò andò a spiaccicarsi contro la tela della tenda.

In quel mentre portarono un’altra donna. Era in camicia da notte poiché l’avevano sorpresa a letto. Il suo volto esprimeva stupefazione e un terrore profondo. Era muta e la sua gola lasciava uscire dei rauchi suoni inarticolati.

Era una bella donna, originaria della Svezia. Figlia del direttore della birreria, aveva sposato un danese, socio del padre. Aveva partorito quattro mesi prima e allattava ella stessa la sua bambina. Poteva avere ventiquattro anni. I seni colmi di latte – era una buona balia – rigonfiavano la camicia da notte.

Non appena Mony la vide, mandò via i soldati che l’avevano portata e le rialzò la camicia. Le grosse cosce della svedese sembravano fusti di colonne e reggevano un superbo edificio; il suo pelo era dorato e gentilmente arricciato. Mony ordinò al tartaro di fustigarla mentre egli l’avrebbe leccata. I colpi piovvero sulle braccia della bella muta, ma la bocca del principe raccoglieva in basso il liquore amoroso distillato da quella fica boreale.

Poi si distese nudo sul letto dopo aver tolto la camicia alla donna che era in calore. Ella si piazzò su di lui e il cazzo entrò profondamente fra le cosce d’un biancore abbagliante. Il suo culo massiccio e sodo si sollevava ritmicamente. Il principe prese un seno in bocca e si mise a succhiare un latte delizioso. Il tartaro non rimase certo inattivo, e, facendo sibilare la frusta, applicava colpi sanguinosi sul mappamondo della muta stimolandone così il godimento. Sferzava come un invasato rigando quel culo sublime, segnando senza rispetto le belle spalle bianche e grasse, lasciando dei solchi sulla schiena. Mony, che ci aveva già dato dentro a lungo, fu lento a godere e la muta, eccitata dalla verga, venne una quindicina di volte mentre egli cercava di ottenere un orgasmo.

Quindi si alzò, e vedendo il tartaro in un meraviglioso stato di erezione, gli ordinò di infilzare dietro la graziosa balia che sembrava ancora insoddisfatta, e prendendo lui stesso lo knut, insanguinò la schiena del soldato che godeva lanciando grida terribili.

Ma il tartaro non mollò il suo alloggiamento. Sopportando stoicamente i colpi inferti dal terribile knut, frugava senza sosta il rifugio amoroso dove si era annidato. Cinque volte vi depositò la sua offerta bruciante. Poi giacque immobile sulla donna, ancora scossa da brividi di piacere.

Ma il principe l’insultò, e con una sigaretta che aveva acceso bruciò in diversi punti le spalle del tartaro. Poi gli mise un fiammifero acceso sotto i coglioni, e la scottatura ebbe il potere di rianimare il membro infaticabile. Il tartaro partì per una nuova sgroppata.

Mony riprese lo knut e colpì con tutte le forze i corpi congiunti del tartaro e della muta, il sangue zampillava, i colpi fioccavano facendo flac. Mony bestemmiava in francese, in rumeno e in russo. Il tartaro godeva terribilmente ma un lampo d’odio per Mony gli guizzò negli occhi. Costui conosceva il linguaggio dei muti e, passando la mano davanti al viso della sua compagna, le fece dei segni che ella comprese a meraviglia.

Verso la fine di questa botta Mony ebbe un’altra fantasia: accostò la sigaretta incandescente al capezzolo umido della muta. Il latte, una cui goccia imperlava la tetta sporgente, spense la sigaretta, ma la donna aveva ruggito di terrore, venendo. Ella fece un segno al tartaro che subito si sfilò.

Entrambi si precipitarono su Mony e lo disarmarono. La donna prese una verga e il tartaro lo knut. Con lo sguardo carico d’odio, animati da uno spirito di vendetta, si misero a fustigare crudelmente l’ufficiale che li aveva fatti soffrire. Mony ebbe un bel gridare e dibattersi, i colpi non risparmiarono nessuna parte del suo corpo. Tuttavia il tartaro, temendo conseguenze da una vendetta su un ufficiale, gettò subito lo knut accontentandosi, come la donna, di una semplice verga. Mony sussultava sotto la fustigazione e la donna si accaniva a colpire soprattutto il ventre, i coglioni e il cazzo del principe.

Nel frattempo il danese, il marito della muta, si era accorto della sua scomparsa perché la piccolina reclamava il seno della madre. Prese in braccio la lattante e andò alla ricerca della moglie.

Un soldato gli indicò la tenda in cui si trovava, ma senza dirgli quel che vi stava facendo. Folle di gelosia il danese si avventò, sollevò la tela e penetrò nella tenda. Lo spettacolo aveva ben poco di comune: sua moglie insanguinata e nuda, in compagnia d’un tartaro insanguinato e nudo, stava frustando un giovane uomo.

Lo knut era a terra; il danese depose la bambina a terra, prese lo knut e picchiò con tutte le forze sua moglie e il tartaro, che caddero gridando per il dolore.

Sotto i colpi, il membro di Mony si era ripreso, contemplando quella scena coniugale, ed era di nuovo duro.

La bimbetta per terra strillava, Mony la prese e dopo averla svestita le baciò il culetto rosa e la fessurina pienotta e glabra, poi, sistemandosela sul cazzo e tappandole la bocca con una mano, la violò; il suo membro squarciò le carni infantili. Mony non ci mise molto a godere.

Scaricava, quando il padre e la madre, accorgendosi troppo tardi del crimine, si gettarono su di lui.

La madre sollevò la bambina. Il tartaro si rivestì in fretta e se la svignò, ma il danese con gli occhi iniettati di sangue levò lo knut. Stava per infliggere un colpo mortale sul cranio di Mony quando vide per terra l’uniforme da ufficiale. Il suo braccio ricadde ben sapendo che l’ufficiale russo è sacro, può violentare, saccheggiare, mentre il mercante che osasse alzar la mano su di lui sarebbe subito impiccato.

Mony comprese tutto quel che passava nel cervello del danese. Ne approfittò, si alzò e prese in fretta la sua rivoltella. Con aria sprezzante ordinò al danese di togliersi i calzoni. Poi, con la rivoltella puntata, gli intimò d’inculare la figlia. Il danese ebbe un bel supplicare, dovette far entrare il suo membro meschino nel tenero culo della lattante svenuta.

Frattanto Mony, armato di una verga e tenendo la rivoltella nella sinistra, faceva piovere colpi sulla schiena della muta che singhiozzava e si torceva dal dolore. La verga ripiombava su una carne enfiata dai colpi precedenti, e il dolore che la povera donna pativa era uno spettacolo orribile. Mony lo resse con un coraggio ammirevole e il suo braccio rimase saldo sin quando lo sventurato padre ebbe scaricato nel culo della figlioletta.

Allora Mony si rivestì e ordinò alla danese di fare altrettanto. Poi aiutò gentilmente la coppia a rianimare la bimba.

«Madre senza viscere», disse alla muta, «la vostra bambina vuole poppare, non lo vedete?».

Il danese fece dei segni alla moglie che castamente scoprì il seno, e lo porse alla lattante.

«Quanto a voi», disse Mony al danese, «state in guardia, avete violentato vostra figlia al mio cospetto. Posso mandarvi in rovina. Siate dunque discreto, la mia parola prevarrà sempre sulla vostra. Andate in pace. Il vostro commercio d’ora in poi dipenderà dalla mia benevolenza. Se sarete discreto, vi proteggerò, ma se racconterete quel che è successo, sarete impiccato».

Il danese baciò la mano del focoso ufficiale versando lacrime di riconoscenza e rapidamente condusse via moglie e figlia. Mony si diresse verso la tenda di Fiodor.

I dormienti si erano svegliati e, dopo la loro toilette, si erano già rivestiti.

Per tutto il giorno ci si preparò al combattimento che ebbe inizio verso sera. Mony, Cornabœux e le due donne si erano chiusi nella tenda di Fiodor che era andato a combattere negli avamposti. Ben presto si sentirono le prime cannonate e dei barellieri tornarono indietro portando dei feriti.

La tenda fu adibita a infermeria. Cornabœux e le due donne furono precettati per andare a raccogliere i morenti. Mony rimase solo con tre feriti russi che deliravano.

Giunse allora una dama della Croce Rossa vestita con un grazioso camice di tessuto grezzo e col bracciale al braccio destro.

Era una giovane assai carina della nobiltà polacca. Aveva una voce soave come quella degli angeli, e nell’udirla i feriti volgevano verso di lei gli occhi moribondi, credendo di scorgere la madonna.

Costei dava a Mony ordini secchi con la sua voce soave. Lui obbediva come un bambino, stupito dell’energia di quella graziosa ragazza e della strana luce che talvolta balenava nei suoi occhi verdi.

Di quando in quando il suo volto serafico si faceva duro e una nuvola di vizi imperdonabili sembrava oscurarle la fronte. Pareva che l’innocenza di quella donna avesse delle intermittenze criminali.

Mony la osservava, e si accorse ben presto che le sue dita indugiavano più del necessario nelle piaghe.

Portarono un ferito orribile a vedersi. Il suo viso era una maschera di sangue e il suo petto squarciato.

L’infermiera lo medicò con voluttà. Aveva messo la mano destra nello squarcio e sembrava godere del contatto della carne fremente. D’improvviso quella lasciva alzò gli occhi e vide davanti a sé, dall’altro lato della barella, Mony che la guardava sorridendo sdegnosamente.

Arrossì, ma lui la rassicurò:

«Calmatevi, non temete, io comprendo meglio di chiunque altro la voluttà che potete provare. Anch’io ho le mani impure. Godete di questi feriti, ma non rifiutatevi ai miei abbracci».

Lei abbassò gli occhi in silenzio. Mony fu subito dietro di lei. Le alzò la gonna e scoprì un culo meraviglioso le cui chiappe erano talmente serrate che sembrava avessero giurato di non separarsi mai.

Ora lei stava straziando, febbrilmente e con un sorriso angelico sulle labbra, la spaventosa ferita del moribondo. Si chinò per permettere a Mony di goder meglio dello spettacolo del suo culo.

Allora lui le introdusse il suo dardo fra le labbra vellutate della fica, dal di dietro, e con la destra le accarezzava le chiappe, mentre la sinistra andava a cercare il clitoride sotto le gonne. L’infermiera godette in silenzio contraendo le mani nella ferita del moribondo che rantolava spaventosamente. Spirò mentre Mony scaricava.

L’infermiera lo sloggiò di colpo, e sbottonando il morto, si affondò nella fica il suo membro, che era di una rigidità ferrea, godendo sempre in silenzio e con l’espressione più angelica che mai.

Mony dapprima sculacciò quel gran culo ondeggiante sotto il quale le labbra della fica vomitavano e reinghiottivano rapidamente la colonna cadaverica. Il suo membro riprese ben presto la primitiva consistenza, e, mettendosi dietro l’infermiera che stava godendo, l’inculò come un ossesso.

Poi si ricomposero e venne portato uno splendido giovane, cui la mitraglia aveva strappato via braccia e gambe. Quel tronco umano possedeva ancora un bel membro dalla fermezza ideale. L’infermiera, non appena fu sola con Mony, si installò sul palo del tronco che rantolava e durante una cavalcata scatenata succhiò il pilone di Mony che scaricò come un carmelitano. L’uomo-tronco non era morto; sanguinava abbondantemente dai monconi degli arti. La vampira gli tettò il cazzo e lo fece morire sotto l’orrenda carezza. Lo sperma che tale aguzzamento di matita produsse, confessò a Mony, era quasi freddo, e sembrava talmente eccitata che Mony, che si sentiva sfinito, la pregò di slacciarsi. Le succhiò i seni, poi lei si mise in ginocchio e cercò di rianimare il palo principesco, masturbandolo fra le tette.

«Ahimè», gridò Mony, «donna crudele a cui Dio ha affidato la missione di finire i feriti, chi sei, dimmi, chi sei?»

«Io sono» disse, «la figlia di Jean Morneski, il principe rivoluzionario che l’infame Gourko mandò a morire a Tobolsk.

Per vendicarmi e per vendicare la Polonia, mia madre, io finisco i soldati russi. Vorrei uccidere Kuropatkin e desidero la morte dei Romanov.

Mio fratello, che è anche il mio amante e che mi ha sverginata durante un pogrom a Varsavia temendo che la mia verginità cadesse preda di un cosacco, prova i miei stessi sentimenti. Ha portato allo sbando il reggimento che comandava e l’ha fatto annegare nel lago Baikal. Mi aveva annunciato questa sua intenzione prima di partire.

È così che noi, noi polacchi, ci vendichiamo della tirannia moscovita.

Tali furori patriottici hanno agito sui miei sensi, e le mie più nobili passioni hanno ceduto a quelle della crudeltà. Io sono crudele, lo vedi, come un Tamerlano, un Attila e un Ivan il Terribile. Una volta ero pietosa come una santa. Oggi Messalina e Caterina non sarebbero che dolci pecorelle dinanzi a me».

Non fu senza brividi che Mony ascoltò le dichiarazioni di quella squisita puttana.

Volle a ogni costo leccarle il culo in onore della Polonia e le narrò come avesse indirettamente partecipato alla cospirazione che era costata la vita ad Alexander Obrenovitch, a Belgrado.

Lei l’ascoltò con ammirazione.

«Possa vedere un giorno», gridò, «lo zar defenestrato!».

Mony, che era un ufficiale leale, protestò contro quella defenestrazione e dichiarò la propria fedeltà all’autocrazia legittima. «Vi ammiro», disse alla polacca, «ma se io fossi lo zar distruggerei in blocco tutti i polacchi. Questi inetti ubriaconi, che non smettono di fabbricare bombe e rendono il pianeta inabitabile. Persino a Parigi questi sadici figuri, buoni per la Corte d’Assise e per la galera, turbano l’esistenza dei pacifici cittadini».

«È vero», disse la polacca, «i miei compatrioti sono gente poco faceta, ma che si restituisca loro la patria, che li si lasci parlare la loro lingua, e la Polonia tornerà a essere il Paese dell’onore cavalleresco, del lusso e delle belle donne».

«Hai ragione!», esclamò Mony, e, spingendo l’infermiera su una barella, se ne servì comodamente, mentre, sempre fottendo, conversavano di cose galanti e lontane. Si sarebbe detta la scena di un decamerone, con tutt’intorno degli appestati.

«Donna incantevole», diceva Mony, «scambiamoci una promessa insieme alle anime».

«Sì», diceva lei, «dopo la guerra ci sposeremo e riempiremo il mondo coi clamori delle nostre crudeltà».

«Lo voglio», disse Mony, «ma che siano crudeltà legali».

«Forse hai ragione», disse l’infermiera, «non c’è nulla di così dolce che compiere quel che è permesso».

Ed entrarono in estasi, si strinsero, si morsero e godettero profondamente.

Proprio allora si levarono delle grida, l’armata russa, in rotta, si lasciava travolgere dalle truppe giapponesi.

Si udivano le urla orribili dei feriti, il frastuono dell’artiglieria, il rombo sinistro dei cannoni e il crepitio dei fucili.

La tenda venne aperta bruscamente e un plotone giapponese l’invase. Mony e l’infermiera avevano appena avuto il tempo di ricomporsi.

Un ufficiale giapponese avanzò verso il principe Vibescu.

«Siete mio prigioniero!», gli disse, ma Mony con un colpo di rivoltella lo stese morto stecchito, poi, davanti ai giapponesi stupefatti, spezzò la propria spada sul ginocchio.

Allora si fece avanti un altro ufficiale giapponese, i soldati circondarono Mony che accettò di darsi prigioniero e quando uscì dalla tenda in compagnia del piccolo ufficiale nipponico scorse, in lontananza, nella pianura, gli ultimi fuggitivi che cercavano penosamente di raggiungere l’armata russa in rotta.

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