Gen 092015
 

«Sua Eccellenza il generale Kokodzyov non può ricevere in questo momento. Sta intingendo il panino nell’uovo à la coque».

«Ma», rispose Mony al portiere, «io sono il suo ufficiale d’ordinanza. Voialtri, petropolitani, siete ridicoli coi vostri continui sospetti… Vedete la mia uniforme! Se mi hanno convocato a San Pietroburgo non sarà stato, suppongo, per farmi subire i rabbuffi dei portieri?»

«Mostrate i documenti!», disse il cerbero, un tartaro colossale.

«Eccoli», rispose seccamente il principe mettendo il suo revolver sotto il naso del portiere che s’inchinò terrorizzato per lasciar passare l’ufficiale.

Mony salì rapidamente (facendo tintinnare gli speroni) al primo piano del palazzo del generale principe Kokodzyov col quale doveva partire per l’Estremo Oriente. Tutto era deserto e Mony, che aveva visto il generale soltanto il giorno prima presso lo zar, si stupiva di una tale accoglienza. Il generale nondimeno gli aveva dato appuntamento proprio a quell’ora. Mony aprì una porta e penetrò in un grande salone deserto e buio che attraversò mormorando:

«Parola mia, vada come vada, il vino è spillato, tanto vale berlo. Continuiamo a indagare».

Aprì un’altra porta che si richiuse da sola dietro di lui. Si trovò in una stanza ancora più oscura della precedente. Una dolce voce di donna disse in francese:

«Fiodor, sei tu?»

«Sì, sono io, amor mio!», disse a voce bassa, ma con decisione, Mony il cui cuore batteva da spezzarsi.

Avanzò rapidamente verso il punto da cui proveniva la voce e trovò un letto. Vi era sdraiata una donna tutta vestita. Costei abbracciò Mony appassionatamente dardeggiandogli la lingua in bocca. Lui contraccambiò le sue carezze. Le rialzò la gonna. Lei allargò le cosce. Le sue gambe erano nude e un profumo delizioso di verbena esalava dalla sua pelle di seta, mischiato agli effluvi dell’odor di femina. La sua fica, in cui Mony aveva spinto la mano, era umida. Lei mormorava:

«Facciamo l’amore… non ne posso più… Cattivo, sono otto giorni che non ti fai vedere».

Ma Mony, invece di rispondere, tirò fuori il suo palo minaccioso e, ben armato, salì sul letto e fece entrare la daga furibonda nella fessura pelosa della sconosciuta che subito agitò le chiappe dicendo:

«Entra bene… mi fai godere…».

Nello stesso istante portò la mano alla base del membro che le faceva festa e si mise a tastare quelle due piccole palle che fungono da ciondoli e che si chiamano testicoli, non, come si dice comunemente, perché sono testimoni alla consumazione dell’atto amoroso, ma piuttosto perché sono le piccole teste contenenti la materia cerebrale che scaturisce dalla mentula o piccola mente, così come la testa contiene il cervello che è la sede di tutte le funzioni mentali.

La mano della sconosciuta tastava accuratamente i coglioni di Mony. Tutto a un tratto gettò un grido e con un colpo di culo sloggiò il suo fottitore:

«Voi mi ingannate, signore», gridò, «il mio amante ne ha tre».

Saltò giù dal letto, girò un interruttore e la luce fu.

La stanza era ammobiliata semplicemente: un letto, delle sedie, un tavolo, una toilette, una stufa. Sul tavolo c’era qualche fotografia e una di esse rappresentava un ufficiale dall’aspetto brutale, vestito con l’uniforme del reggimento di Préobrajenski.

La sconosciuta era alta. Aveva i bei capelli castani un po’ in disordine. Il corsetto aperto metteva in mostra un petto ricolmo, dai seni bianchi venati di blu che riposavano dolcemente in un nido di pizzo. La sua gonna era stata castamente riabbassata. In piedi, con un viso che esprimeva a un tempo collera e stupore, fronteggiava Mony seduto sul letto col palo per aria e le mani intrecciate sull’impugnatura della sciabola.

«Signore», disse la giovane donna, «la vostra insolenza è degna del Paese che servite. Mai un francese avrebbe avuto la cafonaggine di approfittare come voi avete fatto di una circostanza così imprevista. Uscite, ve lo comando».

«Signora o Signorina», rispose Mony, «io sono un principe rumeno, nuovo ufficiale di stato maggiore del principe Kokodzyov. Essendo appena giunto a San Pietroburgo, non conosco gli usi di questa città, e non avendo potuto entrare qui, benché avessi un appuntamento col mio capo, se non minacciando il portiere con la rivoltella, mi sarebbe parso di comportarmi da sconsiderato non soddisfacendo una donna che sembrava bisognosa di sentire un membro nella propria vagina».

«Avreste almeno dovuto», disse la sconosciuta guardando quel membro virile di misura superiore, «avvertirmi che non eravate Fiodor, e ora andatevene».

«Ahimè!», gridò Mony, «eppure siete parigina, non dovreste essere una santocchia… Ah! Chi mi renderà Alexine Mangetout e Culculine d’Ancône!».

«Culculine d’Ancône!», esclamò la giovane, «voi conoscete Culculine? Io sono sua sorella, Hélène Verdier; Verdier è anche il suo vero nome e io sono istitutrice della figlia del generale. Ho un amante, Fiodor. È ufficiale. Ha tre palle».

In quel momento si udì un gran baccano nella strada. Hélène andò a vedere. Mony guardò dietro di lei. Passava il reggimento di Préobrajenski. La musica suonava una vecchia aria sulla quale i soldati cantavano tristemente:

Ah! Ti fottan la mamma!

Povero contadino, parti in guerra,

E la tua donna si farà montare

Da tutti i tuoi torelli che hai in stalla.

Tu il cazzo intanto ti farai grattare

Da mosche siberiane

Ma non glielo lasciare

Il venerdì, che è giorno di vigilia,

E non dar loro manco un po’ di zucchero.

Ché con gli ossi dei morti l’hanno fatto.

Fratelli contadini, noi facciamoci

Le cavalline che hanno gli ufficiali.

Han pur sempre le fiche meno larghe

Di quelle delle Tartare.

Ah! Ti fottan la mamma!

Improvvisamente la musica cessò, Hélène emise un grido. Un ufficiale girò la testa. Mony, che aveva appena visto la sua fotografìa, riconobbe Fiodor il quale salutò con la sciabola gridando:

«Addio Hélène, parto per la guerra… non ci rivedremo mai più».

Hélène divenne bianca come una morta e cadde svenuta tra le braccia di Mony che la portò sul letto.

Le tolse per prima cosa il corsetto e i seni si drizzarono. Erano due superbe tette col capezzolo rosa. Le succhiò un po’, poi slacciò la gonna e gliela tolse, come pure la sottoveste e il busto. Hélène restò in camiciola. Mony rialzò eccitatissimo la tela bianca che nascondeva i tesori incomparabili di due gambe perfette. Le calze salivano fino a metà coscia, e le cosce erano rotonde come torri d’avorio. Nel bassoventre si celava la grotta misteriosa in un bosco consacrato, fulvo come gli autunni. Il vello era spesso, e le labbra strette della fica non lasciavano intravvedere che una riga simile a una tacca mnemonica sui pali che servivano da calendario agli Incas.

Mony rispettò lo svenimento di Hélène. Le tolse le calze e cominciò a succhiarle le dita dei piedi, che erano graziosi, paffuti come quelli di un bebè. La lingua del principe iniziò dalle dita del piede destro. Leccò coscienziosamente l’unghia dell’alluce poi passò tra le giunture. Si fermò lungamente sul mignolo che era piccolo piccolo. Si accorse che il piede destro sapeva di lampone. La lingua lecchina frugò poi tra le pieghe del piede sinistro nel quale Mony trovò un sapore che gli ricordava il prosciutto di Magonza.

In quel momento Hélène aprì gli occhi e si mosse. Mony sospese i suoi esercizi di lecchinaggio e guardò la graziosa ragazza alta e formosa stirarsi in pandiculazione. La sua bocca aperta per uno sbadiglio mostrò una lingua rossa tra i denti corti ed eburnei. Poi sorrise.

HéLèNE: Principe, in che stato mi avete messa?

MONY: Hélène! È per il vostro bene che vi ho messa a vostro agio. Sono stato per voi un buon samaritano. Una buona azione non va mai perduta e io ho trovato una ricompensa squisita nella contemplazione delle vostre grazie. Voi siete squisita e Fiodor è un gran fortunato.

HéLèNE: Non lo vedrò mai più, ahimè! I giapponesi lo uccideranno.

MONY: Vorrei proprio rimpiazzarlo, ma disgraziatamente non ho tre coglioni.

HéLèNE: Non parlare così, Mony, tu non ne hai tre, è vero, ma ciò che hai vale quanto il suo.

MONY: Parli sul serio, piccola puttanella? Aspetta che slacci il cinturone… ecco fatto. Fammi vedere il tuo culo… come è grosso, rotondo, paffuto… Si direbbe un angelo che stia soffiando… Ecco! Bisogna che ti sculacci in onore di tua sorella Culculine… clic, clac, pan…

HéLèNE: Ahi, ahi, ahi! Mi fai ribollire, sono tutta bagnata.

MONY: Come sono fitti i tuoi peli… clic, clac; bisogna assolutamente che faccia arrossire il tuo faccione posteriore. Ecco, non è corrucciato, quando ti muovi un po’ si direbbe che rida.

HéLèNE: Avvicinati, che ti sbottoni, fammelo vedere questo bambinone che vuole riscaldarsi nel seno della sua mamma. Quanto è bellino! Ha una piccola testa rossa senza capelli. Però ha dei peli in basso, alla radice, e sono duri e neri. Com’è bello quest’orfanello… Mettimelo, su! Mony, voglio popparlo, succhiarlo, farlo scaricare…

MONY: Aspetta che ti faccia un po’ foglia di rosa…

HéLèNE: Ah, è bello, sento la tua lingua nella fessura del mio culo… entra e fruga le pieghe della mia rosetta. Non lo maltratterai troppo il mio povero buchino, non è vero, Mony? Toh! Ecco il mio culetto. Ah! Hai ficcato la faccia tra le mie chiappe… ecco, ti mollo un peto… ti chiedo scusa, ma non ho potuto trattenermi!… Ah! I tuoi baffi mi pungono e tu sbavi… Maiale… tu sbavi. Dammelo, il tuo pilone, che te lo succhi… Ho sete…

MONY: Ah, Hélène, com’è abile la tua lingua. Se insegni l’ortografia così bene come mi fai la punta alla matita devi essere un’istitutrice straordinaria… Oh! Mi pilucchi il buco del glande con la lingua… ora la sento alla base del glande… mi forbisci il filetto con la tua lingua calda. Ah, fellatrice senza pari, tu slingui incomparabilmente… Non succhiare così forte! Mi prendi il glande tutto quanto nella tua boccuccia, mi fai male.,. Ah! Ah! Ah! Mi solletichi tutto il cazzo… Ah! Ah! Non mi schiacciare le palle… i tuoi denti sono aguzzi… Sì, riprendi la testa della clava, è là che bisogna lavorare… Ti piace molto il glande?… Piccola troia… Ah! Ah! Ah! Ah!… io… Ven…go… porcona… s’è inghiottita tutto… Dài! Dammi la tua ficona, che ti manovro fino a che ritornerò duro…

HéLèNE: Vacci più forte… agita bene la lingua sul mio bocciolo… lo senti che si ingrossa il mio clitoride?… Senti… fammi le forbici… così… infila bene il pollice nella fica e l’indice nel culo. Ah! Che bello!… Che bello!… Oh! Senti il mio ventre che gorgoglia di piacere?… Così, la tua mano sinistra sulla mia tetta sinistra… schiaccia la fragola… godo… Oh… senti il mio culo che si agita, i miei colpi di reni?… Porco! Che bello… vieni, prendimi. Presto, dammi il tuo palo che te lo succhio per fartelo rizzare ben duro: sistemiamoci per un sessantanove, tu su di me.

Sei bello duro, maiale, non c’è voluto molto, infilami… Aspetta, ci sono dei peli impigliati. Succhiami le tette… così, che bello!… Entra bene in fondo… Lì, resta così, non te ne andare… Ti stringo… chiudo le chiappe… che bello… muoio… Mony… mia sorella l’hai fatta godere così tanto?… Spingi bene… mi arriva fino in fondo all’anima… mi fa godere come se morissi… non ne posso più… Mony caro… partiamo insieme. Ah! Non ne posso più, mi bagno tutta… scarico.

Mony ed Hélène scaricarono nel medesimo istante.

Poi lui le forbì la fica con la lingua e lei fece altrettanto con il cazzo.

Mentre egli si ricomponeva ed Hélène si rivestiva, si sentirono delle grida di dolore lanciate da una donna.

«Non è nulla», disse Hélène, «picchiano Nadeja; è la cameriera di Wanda, figlia del generale e mia allieva».

«Fammi vedere la scena», disse Mony.

Hélène, vestita a mezzo, condusse Mony in una stanza buia e vuota, con una falsa finestra interna a vetri che dava su una camera di fanciulla. Wanda, la figlia del generale, era una graziosa personcina di diciassette anni. Brandiva una nagaika e sferzava una donna bionda e bellissima che stava a quattro zampe davanti a lei con le gonne rialzate. Era Nadeja. Il suo culo era meraviglioso, enorme, ben tornito. Si dondolava sotto un vitino inverosimilmente sottile. Ogni colpo di nagaika la faceva trasalire e il culo sembrava gonfiarsi. Era istoriato con una croce di Sant’Andrea, segno lasciato dalla temibile nagaika.

«Padrona, non lo farò più», gridava la fustigata, e il suo culo si rialzava mostrando una fica ben aperta, ombreggiata da una foresta di peli color biondo stoppa.

«Vattene ora», gridò Wanda rifilando una pedata nella fica di Nadeja che fuggì urlando.

Poi la giovane andò ad aprire uno stanzino da cui uscì una ragazzina di tredici o quattordici anni, magra e bruna, di aspetto vizioso.

«È Ida, la figlia del dragomanno dell’ambasciata di Austria e Ungheria», sussurrò Hélène all’orecchio di Mony, «se la intende con Wanda».

In effetti la ragazzina gettò Wanda sul letto, le tirò su la gonna e mise allo scoperto una foresta di peli, foresta ancora vergine, dalla quale spuntava un clitoride lungo come un mignolo, che lei si mise a succhiare freneticamente.

«Succhia bene, Ida mia», diceva amorosamente Wanda, «io sono molto eccitata e anche tu lo devi essere. Nulla è eccitante quanto frustare un grosso culo come quello di Nadeja. Non succhiare più ora… ora ti prendo».

La ragazzina si piazzò con le gonne rialzate vicino alla ragazza più alta. Le grosse gambe di questa contrastavano singolarmente con le cosce sottili, brune e nervose dell’altra.

«È curioso», disse Wanda, «che io ti abbia spulzellata col mio clitoride, e che io sia ancora vergine».

Ma l’atto era incominciato. Wanda stringeva furiosamente la sua piccola amica. Accarezzò un momento la sua fichetta ancora quasi imberbe. Ida diceva: «Wandina mia, maritino mio, quanti peli hai, prendimi!».

Bentosto il clitoride entrò nella fessura di Ida e il bel culo grassoccio si agitò furiosamente.

Mony, che questo spettacolo faceva andare fuori di sé, passò una mano sotto la gonna di Hélène e la menò sapientemente. Lei gli rese la pariglia prendendo a piene mani la sua gran proboscide, e, mentre le due lesbiche si stringevano perdutamente, lei lavorò lentamente la gran proboscide dell’ufficiale. Scappellato, il membro fumava. Mony tendeva i garretti e pizzicava nervosamente il piccolo bocciolo rosa di Hélène. A un tratto Wanda, rossa e scarmigliata, si alzò da sopra la sua piccola amica che, prendendo una candela dal candeliere, ultimò l’opera iniziata dal clitoride ben sviluppato della figlia del generale. Wanda andò alla porta, e chiamò Nadeja che arrivò spaventata. La bella bionda, su ordine della sua padrona, slacciò il busto e fece uscire i suoi grossi seni, poi alzò la gonna e porse il culo. Il clitoride in erezione di Wanda penetrò subito tra quelle chiappe di seta, in mezzo alle quali ella fece un movimento di va-e-vieni come un uomo. La piccola Ida, il cui petto ora nudo era incantevole ma piatto, continuò a giocare con la sua candela, seduta fra le gambe di Nadeja, a cui succhiò sapientemente la fica. Mony scaricò in quel momento per la pressione delle dita di Hélène e lo sperma andò a spiaccicarsi sul vetro che li separava dalle due viziosette. Ebbero paura che si accorgessero della loro presenza e si allontanarono.

Passarono allacciati in un corridoio:

«Che significa», chiese Mony, «la frase che mi ha detto il portiere: “Il generale sta intingendo il panino nel suo uovo à la coque”?»

«Guarda», rispose Hélène, e, da una porta semiaperta che permetteva di vedere quel che accadeva nello studio del generale, Mony scorse il suo capo in piedi, in procinto d’inculare un ragazzino affascinante. I riccioli castani gli ricadevano sulle spalle. Gli occhi blu angelici avevano in sé l’innocenza degli efebi che gli dèi fanno morire giovani perché li amano. Il suo bel culo bianco e sodo sembrava accettare non senza pudore il dono virile che gli faceva il generale, abbastanza somigliante a Socrate.

«Il generale», disse Hélène, «alleva lui stesso suo figlio, che ha dodici anni. La metafora del portiere non era particolarmente esplicita perché, piuttosto che nutrirsi da solo, il generale ha individuato questo metodo conveniente per nutrire e arricchire lo spirito del suo rampollo maschio. Gli inculca dalle fondamenta una scienza che mi sembra piuttosto solida, e il giovane principe potrà senza vergogna, più tardi, fare bella figura nei consigli dell’Impero.

«L’incesto», disse Mony, «fa miracoli».

Il generale sembrava al culmine del piacere, e strabuzzava gli occhi bianchi iniettati di sangue.

«Serge», gridò con voce arrochita, «senti bene lo strumento che, non pago d’averti generato, si è ugualmente assunto il compito di renderti un giovane perfetto? Ricordati, Sodoma è un simbolo civilizzatore. L’omosessualità ha reso gli uomini simili a dèi e tutte le disgrazie provengono da quel desiderio che sessi diversi pretendono di nutrire l’uno per l’altro. Non c’è che un modo, oggi, di salvare la sventurata e santa Russia, ed è quello che gli uomini, filopedi, facciano definitiva professione di amore socratico per gli ingroppati, mentre le donne andranno alla roccia di Leucade a prender lezioni di saffismo».

Ed emettendo un rantolo di voluttà, scaricò nell’affascinante culo del figlio.

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