Gen 022015
 

Lo scandalo fu enorme. I giornali parlarono dell’affare per otto giorni. Culculine, Alexine e il principe Vibescu dovettero rimanere a letto per due mesi. Durante la convalescenza Mony entrò una sera in un bar presso la stazione di Montparnasse. Vi si beve petrolio, una bevanda gradevole per i palati ormai sazi degli altri liquori.

Degustando l’infame torcibudella, il principe squadrava gli avventori. Uno di loro, un colosso barbuto, era vestito da facchino delle Halles e l’immenso cappello infarinato gli conferiva l’aria di un semidio da leggenda, pronto a compiere un’eroica impresa.

Al principe parve di riconoscere il simpatico volto dello scassinatore Cornabœux. A un tratto sentì che ordinava petrolio con voce tonitruante. Era proprio la voce di Cornabœux.

Mony si alzò e si diresse verso di lui con la mano tesa:

«Buongiorno, Cornabœux, siete alle Halles, ora?»

«Io?», disse il facchino sorpreso, «com’è che mi conoscete?»

«Vi ho visto al 114 di rue de Prony», disse Mony con aria disinvolta.

«Non sono io», rispose con gran spavento Cornabœux, «io non vi conosco, io faccio il facchino alle Halles da tre anni, e sono abbastanza conosciuto. Lasciatemi in pace!».

«Bando alle sciocchezze», replicò Mony. «Cornabœux, tu mi appartieni. Posso consegnarti alla polizia. Ma tu mi piaci e se vuoi seguirmi sarai il mio cameriere, verrai con me dappertutto. Ti assocerò ai miei piaceri. Tu mi aiuterai e mi difenderai, se necessario. E se mi sarai fedele, farò la tua fortuna. Rispondi all’istante».

«Voi siete un bel tipo e sapete parlare. Qua la mano, sono il vostro uomo».

Qualche giorno dopo Cornabœux, promosso al rango di cameriere, chiudeva le valigie. Il principe Mony era richiamato in tutta fretta a Bucarest. Il suo intimo amico, il viceconsole di Serbia, era morto lasciandogli tutti i suoi beni, che erano considerevoli. Si trattava di miniere di stagno che fruttavano molto da qualche anno, ma che bisognava tener sotto controllo da vicino se non si voleva correre il rischio di veder immediatamente calare i profitti. Il principe Mony, come si è visto, non amava il denaro in quanto tale; desiderava essere il più ricco possibile, ma unicamente per i piaceri che soltanto l’oro può procurare.

Egli aveva di continuo sulla bocca questa massima pronunciata da un suo avo:

«Tutto è in vendita, tutto si compera; è solo questione di prezzo».

Il principe Mony e Cornabœux avevano preso posto sull’Orient Express; le vibrazioni del treno non mancarono di produrre ben presto il loro effetto. Mony rizzava come un cosacco e gettò su Cornabœux degli sguardi di fuoco. Fuori, il mirabile paesaggio dell’est della Francia mostrava le sue magnificenze placide e terse. Lo scompartimento era quasi vuoto; un vecchio podagroso, riccamente vestito, si lamentava sbavando sul «Figaro» che cercava di leggere.

Mony, che era avviluppato in un ampio gabbano, prese la mano di Cornabœux e, facendola passare per l’apertura che si trova a mo’ di tasca in questo comodo capo di abbigliamento, la guidò alla patta. Il colossale cameriere comprese il desiderio del padrone. La sua grossa mano era villosa ma paffuta, e più dolce di quanto si potesse supporre.

Le dita di Cornabœux sbottonarono delicatamente i pantaloni del principe. Presero l’asta in delirio che giustificava in tutto e per tutto il distico famoso di Alphonse Allais:

Lo stimolante sobbalzar dei treni

Eccita brame fino in fondo ai reni.

Ma un impiegato della Compagnia dei Wagons-Lits fece il suo ingresso annunciando che era ora di pranzo, e che numerosi viaggiatori già si trovavano nel vagone ristorante.

«Eccellente idea», disse Mony. «Cornabœux, andiamo subito a pranzare!».

La mano dell’ex facchino uscì dall’apertura del gabbano. I due si diressero verso la sala da pranzo. L’asta del principe rizzava sempre, e, dal momento che non si era ricomposto, si notava sul mantello una bella prominenza. Il pranzo cominciò senza contrattempi, cullato dallo sferragliare del treno e dai vari tintinnii delle stoviglie, dell’argenteria e della cristalleria, turbati talvolta dal secco saltare di un tappo di Apollinaris.

A un tavolo, nella parte opposta a quella in cui pranzava Mony, si trovavano due donne bionde e graziose; Cornabœux, che le aveva di fronte, le indicò a Mony.

Il principe si volse e riconobbe in una di loro, vestita più modestamente dell’altra, Mariette, la squisita cameriera del Grand Hôtel. Subito si alzò e si diresse verso le dame.

Salutò Mariette e si rivolse all’altra che era bella e truccata. I suoi capelli ossigenati le conferivano un aspetto moderno che incantò Mony:

«Signora», le disse, «vi prego di perdonare il mio ardire. Mi presento da solo a causa della difficoltà di trovare su questo treno delle conoscenze comuni. Sono il principe Mony Vibescu, hospodar ereditario. Questa giovane, intendo Mariette che ha senza dubbio lasciato il servizio del Grand Hôtel per il vostro, mi ha permesso di contrarre nei suoi confronti un debito di riconoscenza di cui voglio disobbligarmi oggi stesso. Voglio sposarla al mio cameriere e voglio assegnare a ognuno di loro una dote di cinquantamila franchi».

«Non vedo in questo nulla di sconveniente», disse la dama, «ma ecco qui qualcosa che non mi pare mal dotata. A chi la volete assegnare?».

Il pilone di Mony aveva trovato una via d’uscita e mostrava la sua testa rubizza tra due bottoni, davanti al principe che arrossì facendo sparire l’arnese. La dama si mise a ridere.

«Fortunatamente siete messo in modo che nessuno può aver visto… sarebbe stata bella… Ma ditemi, a chi è destinato quell’ordigno infernale?»

«Permettetemi», disse galantemente Mony, «di farne omaggio alla vostra sovrana beltà».

«Si vedrà», disse la dama, «e poiché voi vi siete già presentato, ora tocca a me farlo: Estelle Ronange…».

«La grande attrice del Français?», chiese Mony.

La dama annuì.

Mony, folle di gioia, esclamò:

«Estelle, avrei dovuto riconoscervi. Da molto tempo sono un vostro appassionato ammiratore. Non ne ho trascorse di serate al Theâtre Français, ammirandovi in parti di amorosa? E per placare la mia eccitazione, non potendo scrollarmelo in pubblico, mi ficcavo le dita nel naso, ne estraevo il moccio e me lo mangiavo! E che bontà! Che bontà!».

«Mariette, andate a pranzare col vostro fidanzato», disse Estelle. «E voi, principe, pranzate con me».

Non appena furono uno di fronte all’altro, il principe e l’attrice si guardarono amorosamente:

«Dove siete diretta?», chiese Mony.

«A Vienna, a recitare al cospetto dell’imperatore».

«E il decreto di Mosca?»

«Del decreto di Mosca me ne fotto; invierò le mie dimissioni a Claretie… mi si mette in disparte… mi si affidano ruoli da generica… mi si rifiuta la parte di Eoraka nella nuova commedia del nostro Mounet-Sully… io parto… non si soffocherà il mio talento».

«Recitate qualcosa per me… dei versi», le chiese Mony.

E lei recitò, durante il cambio delle stoviglie, l’Invitation au Voyage. Mentre risuonava l’ammirevole poesia in cui Baudelaire ha posto un po’ della sua tristezza amorosa, della sua nostalgia appassionata, Mony sentì che i piedini dell’attrice gli salivano lungo le gambe; finché raggiunsero sotto il gabbano il cazzo di Mony che pendeva tristemente fuori dai calzoni. Là i piccoli piedi si fermarono, e prendendolo delicatamente tra di loro, cominciarono un movimento di va-e-vieni piuttosto curioso. Subito indurito, il cazzo del giovane si lasciò manovrare dalle scarpine delicate di Estelle Ronange. Ben presto cominciò a godere e recitò, improvvisando, questo sonetto all’attrice il cui lavoro pedestre non cessò fino all’ultimo verso:

EPITALAMIO

Le tue mani porranno l’asinino mio sesso

Fra le tue cosce aperte, covo sacro ai magnaccia,

E, nonostante Avinain, quasi quasi confesso

Ciò che mi fa il tuo amore, purché questo ti piaccia!

La mia bocca al tuo seno, candido svizzerino,

Farà l’abbietto omaggio di morsi senza dolo.

Dalla mentula maschia nel conno femminino

Lo sperma colerà come l’oro nel crogiolo.

Le tue chiappe hanno vinto, mia tenera puttana!

D’ogni polputo frutto il mistero profondo,

L’umile e asessuata rotondità del mondo,

La luna, a ogni mese, dietro al suo culo vana,

E sgorga dai tuoi occhi per quanto tu li veli

Quell’oscuro chiarore che scende giù dai cieli.

E nel momento in cui il cazzo era giunto al culmine dell’eccitazione, Estelle abbassò i piedi dicendo:

«Mio principe, non facciamolo schizzare nel vagone ristorante, che penserebbero di noi?… Lasciate che vi ringrazi per l’omaggio reso a Corneille in punta al sonetto. Anche se sono sul punto di lasciare la Comédie-Française, tutto quello che riguarda la “Maison” costituisce l’oggetto dei miei costanti interessi».

«Ma», disse Mony, «dopo aver recitato davanti a Francesco Giuseppe, che cosa contate di fare?»

«Il mio sogno», disse Estelle, «è quello di diventare una stella di café-concert».

«Guardatevene bene!», ribatté Mony. «L’oscuro signor Claretie, che fa cadere le stelle, vi intenterà processi senza fine».

«Non preoccuparti di questo, Mony, e recitami piuttosto altri versi prima di andare a nanna».

«Bene», disse Mony, e improvvisò questi delicati sonetti mitologici.

ERCOLE E ONFALE

D’Onfale

Il fondoschiena

Cede frale

A gran pena.

«Senti il cotale

Che lena

Da fiume in piena?»

«Bestiale…

Mi sfondi, cane,

Come fai male!

E però non smontare…».

«Che chiappe sovrane!».

Ed Ercol di netto

Le spacca il didietro.

PIRàMO E TISBé

Madama

Tisbé

Si ama

Da sé.

Curvo Piràmo

Sul canapè

Getta il richiamo

«Ebe ebè».

Dice la bella

«Oh sì sì sì»

E poscia quella

Gode così

Tutta ansimante

Come il suo amante.

«Squisito! Delizioso! Ammirevole! Mony, sei un poeta arcidivino, prendimi nello sleeping car, ho l’anima orgiaiola».

Mony pagò i conti. Mariette e Cornabœux si guardarono languidamente. Nel corridoio Mony fece scivolare cinquanta franchi all’impiegato della Compagnia dei Wagons-Lits, che permise alle due coppie di entrare nello stesso scompartimento:

«Ve la sbrigherete voi con la dogana», disse il principe all’uomo col berretto, «non abbiamo nulla da dichiarare. Tanto per avvertirci, due minuti prima di passare la frontiera busserete alla porta».

Nello scompartimento si spogliarono tutti e quattro. Mariette fu la prima a esser nuda. Mony non l’aveva mai vista così, ma riconobbe le grosse cosce rotonde e la foresta di peli che ombreggiavano la fica rigonfia. Le sue tette svettavano come i cazzi di Mony e di Cornabœux.

«Cornabœux», disse Mony, «inculami mentre io levigherò questa bella figliola».

Estelle ci mise più tempo a spogliarsi, e quando fu nuda Mony si era già introdotto da dietro nella fica di Mariette che, cominciando a godere, agitava il suo grosso posteriore e lo faceva schioccare contro il ventre di Mony.

Cornabœux aveva fatto entrare la sua clava corta e grossa nell’ano dilatato di Mony, che vociava:

«Porca di una ferrovia! Non si riesce a stare in equilibrio».

Mariette chiocciava come una gallina e si muoveva come un tordo fra le vigne. Mony le aveva passato le braccia attorno e le schiacciava i seni. Ammirava intanto la bellezza d’Estelle la cui ferma acconciatura rivelava il tocco di un abile parrucchiere. Era la donna moderna in tutte le accezioni della parola: capelli ondulati tenuti da pettini di tartaruga il cui colore era intonato con la sapiente decolorazione della chioma. Il corpo era di una grazia ammaliante. Il culo era nervoso e prominente in maniera provocante. Il viso truccato con arte le conferiva l’aspetto piccante di una puttana di gran lusso. I seni erano un poco cascanti ma le stavano bene: erano piccoli, minuti e a forma di pera. Quando li si palpava erano dolci e serici, si sarebbe pensato di toccare le mammelle di una capra da latte, e quand’ella si girava saltellavano come un fazzoletto di batista appallottolato e fatto danzare sulla mano.

Sul pube non aveva che un ciuffetto di peli setosi. Si mise sulla cuccetta e, con una capriola, gettò le sue cosce lunghe e nervose attorno al collo di Mariette che, avendo così la micia della padrona davanti alla bocca, cominciò a leccarla golosamente, affondando il naso tra le chiappe, nel buco del culo. Estelle aveva già scoccato la sua lingua nella fica della servetta e succhiava alternativamente l’interno di una potta in fiamme e il grosso pilone di Mony che vi si muoveva con ardore. Cornabœux si godeva questo spettacolo con beatitudine.

Il suo grosso cazzo, entrato sino all’elsa nel culo villoso del principe, andava e veniva lentamente. Lanciò due o tre bei peti che ammorbarono l’atmosfera aumentando il godimento del principe e delle due donne. D’un tratto Estelle prese a dimenarsi spaventosamente; il suo culo incominciò a danzare davanti al naso di Mariette, i cui mugolii e le cui rotazioni culine divennero ancora più forti.

Estelle lanciava a destra e a sinistra le gambe inguainate di seta nera e calzate con scarpe dai tacchi Luigi XV.

Muovendosi in quel modo, inflisse un colpo terribile al naso di Cornabœux che rimase stordito e si mise a sanguinare copiosamente. «Puttana», urlò Cornabœux, e per vendicarsi pizzicò violentemente il culo di Mony. Costui, travolto dalla rabbia, morse atrocemente la spalla di Mariette che scaricò smaniando. Per il dolore costei piantò i denti nella fica della padrona che, istericamente, le chiuse le cosce intorno al collo.

«Soffoco!», articolò a stento Mariette.

Ma nessuno l’ascoltava. La stretta delle cosce si fece più forte. Il volto di Mariette divenne violaceo, la sua bocca schiumante incollata alla fica dell’attrice.

Mony scaricava, urlando, in una fica inerte. Cornabœux, gli occhi fuori dalle orbite, scagliava il suo sperma nel culo di Mony, dichiarando con voce stremata:

«Se non resti incinto, non sei un uomo!».

I quattro personaggi si erano afflosciati. Distesa sulla cuccetta, Estelle digrignava i denti e menava pugni da ogni parte agitando le gambe. Cornabœux pisciava dallo sportello. Mony cercava di ritirare il cazzo dalla fica di Mariette. Ma non c’era modo. Il corpo della servetta non si muoveva più.

«Lasciami uscire», le diceva Mony, e la accarezzava, poi le pizzicò le chiappe, la morse, ma non valse a nulla.

«Vieni ad allargarle le cosce, è svenuta!», disse Mony a Cornabœux. Fu con gran fatica che Mony riuscì a estrarre il cazzo dalla fica che si era spaventosamente rinserrata.

Cercarono poi di far rinvenire Mariette, ma tutto fu vano.

«Merda! È crepata!», dichiarò Cornabœux.

Era vero, Mariette era morta, strangolata dalle gambe della sua padrona, era morta, irrimediabilmente morta.

«Stiamo freschi!», disse Mony.

«È questa porca la causa di tutto», disse Cornabœux rivolgendosi a Estelle che cominciava a calmarsi.

E prendendo una spazzola da capelli nel nécessaire di Estelle, si mise a picchiarla con violenza.

Le setole della spazzola la pungevano a ogni colpo. Tale punizione sembrava eccitarla enormemente.

In quel momento bussarono alla porta.

«È il segnale convenuto», disse Mony, «tra qualche istante passeremo la frontiera. Bisogna, l’ho giurato, dare una botta metà in Francia e metà in Germania. Infila la morta».

Mony col cazzo per aria si gettò su Estelle che, a cosce spalancate, lo accolse nella sua fica ardente gridando:

«Caccialo fino in fondo, dài!… Dài!…».

Le spinte del suo culo avevano un che di demoniaco, la sua bocca lasciava colare una bava che si mescolava al trucco, scendendo infetta sul mento e sul petto. Mony le mise la lingua in bocca e le schiaffò il manico della spazzola nel buco del culo.

Per effetto di questa nuova voluttà, Estelle morse così violentemente la lingua di Mony che egli dovette pizzicarla a sangue per farla smettere.

Nel frattempo Cornabœux aveva rigirato il cadavere di Mariette, il cui viso violaceo era spaventoso. Allargò le chiappe e fece entrare faticosamente il suo cazzo enorme nell’apertura sodomitica. Allora diede libero corso alla sua ferocia naturale. Le sue mani strapparono a ciocca a ciocca i capelli biondi della morta. I suoi denti lacerarono il dorso di una bianchezza polare e il sangue vermiglio che zampillò, subito coagulato, sembrava sparso sulla neve.

Un po’ prima di godere introdusse la mano nella vulva ancora tiepida e facendovi entrare tutto il braccio si mise a tirar fuori le budella della sventurata cameriera.

Nel momento in cui godette aveva già estratto due metri di visceri e se ne era circondata la vita come una cintura di salvataggio.

Scaricò vomitando il pasto sia per le vibrazioni del treno sia per le emozioni provate.

Mony era appena venuto e guardava con stupore il suo cameriere colto da spaventosi singulti mentre vomitava sul misero cadavere.

Tra i capelli insanguinati, le budella e il sangue si mescolavano al vomito.

«Porco infame», gridò il principe, «lo stupro di questa fanciulla morta che tu dovevi sposare secondo la mia promessa peserà enormemente su di te nella valle di Giosafat. Se non ti amassi tanto, ti ucciderei come un cane».

Cornabœux si alzò grondando sangue e trattenendo gli ultimi conati di vomito. Indicò Estelle i cui occhi dilatati contemplavano con orrore lo spettacolo immondo:

«È lei la causa di tutto!», disse.

«Non essere crudele», rispose Mony, «lei ti ha dato l’occasione per soddisfare i tuoi gusti di necrofilo».

E poiché stavano passando su un ponte, il principe si avvicinò allo sportello per contemplare il romantico panorama del Reno che dispiegava i suoi splendori verdeggianti, avanzando in ampli meandri sino all’orizzonte.

Erano le quattro del mattino, alcune vacche pascolavano nei prati, e dei bimbi già danzavano sotto tigli germanici. Una musica di pifferi monotona e mortuaria annunciava la presenza di un reggimento prussiano e la melopea si mescolava tristemente al rumore di ferraglia del ponte e al sordo accompagnamento del treno in marcia. Villaggi felici animavano le sponde dominate da borghi centenari, e le vigne renane ostentavano all’infinito il loro mosaico regolare e prezioso.

Quando Mony si girò, vide il sinistro Cornabœux seduto sul viso di Estelle. Il suo culo di colosso copriva il volto dell’attrice. Aveva cacato e la merda infetta e molle cadeva da tutte le parti.

Aveva in mano un enorme coltello con cui lavorava il ventre palpitante. Il corpo dell’attrice aveva brevi sussulti.

«Aspetta», disse Mony, «resta seduto».

E stendendosi sulla moribonda fece entrare il cazzo duro nella fica morente.

Godette così degli estremi spasimi dell’assassinata, i cui ultimi dolori dovettero essere atroci, e bagnò le braccia nel sangue caldo che sgorgava dal ventre. Quand’ebbe scaricato, l’attrice non si muoveva più. Era rigida e i suoi occhi arrovesciati erano pieni di merda.

«Ora», disse Cornabœux, «bisogna squagliarsela».

Si ripulirono e si vestirono. Erano le sei del mattino. Scavalcarono lo sportello e coraggiosamente si stesero sul predellino del treno lanciato a tutta velocità. Poi, a un segnale di Cornabœux, si lasciarono dolcemente cadere sulla massicciata della ferrovia.

Si rialzarono un po’ storditi, ma indenni, e salutarono con un gesto deciso il treno che già rimpiccioliva allontanandosi.

«Era ora!», disse Mony.

Raggiunsero la città più vicina, si riposarono due giorni e poi ripresero il treno per Bucarest.

Il duplice assassinio dell’Orient Express alimentò i giornali per sei mesi. Gli assassini non si trovarono e il crimine fu attribuito a Jack lo Squartatore, che ha le spalle larghe.

A Bucarest, Mony ritirò l’eredità del viceconsole di Serbia. Le sue relazioni con la colonia serba fecero sì che ricevesse, una sera, un invito a trascorrere la serata da Natascia Kolowitch, moglie di un colonnello imprigionato per la sua ostilità alla dinastia degli Obrenovitch.

Mony e Cornabœux si presentarono verso le otto di sera.

La bella Natascia era in un salotto con drappi neri, illuminato da ceri gialli e decorato con tibie e teschi:

«Principe Vibescu», disse la dama, «state per assistere a una seduta segreta del comitato antidinastico di Serbia. Questa sera si voterà, senza dubbio, la morte dell’infame Alessandro e di quella puttana di sua moglie Draga Machine; si tratta di rimettere il re Pietro Karageorgevitch sul trono dei suoi avi. Se rivelerete ciò che vedrete e udrete, una mano invisibile vi ucciderà, ovunque voi siate».

Mony e Cornabœux si inchinarono. I congiurati arrivarono a uno a uno. Il giornalista parigino André Bar era l’anima del complotto. Giunse, funereo, avvolto in una cappa spagnola. I congiurati si spogliarono e la bella Natascia mise in mostra la sua nudità meravigliosa. Il suo culo risplendeva e il ventre spariva sotto un tosone nero e ricciuto che saliva fino all’ombelico.

La donna si distese su di un tavolo ricoperto di un drappo nero. Entrò un pope in vesti sacerdotali, dispose i vasi sacri e cominciò a dir messa sul ventre di Natascia. Mony si ritrovò vicino a lei che gli prese il cazzo e cominciò a ciucciarglielo mentre la messa procedeva. Cornabœux si era gettato su André Bar e lo inculava mentre costui liricamente pronunciava:

«Io lo giuro, per questo enorme cazzo che mi rallegra fino in fondo all’anima, la dinastia degli Obrenovitch ha le ore contate. Spingi Cornabœux! La tua inculata mi fa arrapare».

Piazzandosi dietro a Mony, lo inculò mentre costui scaricava il suo sperma nella bocca della bella Natascia. Vedendo ciò, tutti i congiurati si incularono freneticamente. Nella sala non rimasero che nervosi culi di uomini ai quali dei cazzi formidabili fungevano da manico.

Il pope se lo fece menare due volte da Natascia e il suo sperma ecclesiastico si sparse sul corpo della bella colonnella.

Fu introdotta una strana coppia: un ragazzino di dieci anni in marsina, con un gibus sotto il braccio, accompagnato da una bambina stupenda che non aveva più di otto anni: era vestita da sposa, con un abito di satin bianco completato da un bouquet di fiori d’arancio.

Il pope fece un discorso e li sposò con lo scambio dell’anello. Poi li si invitò a fornicare. Il ragazzino tirò fuori un pisellino grande come un mignolo e la sposina, tirando su le sue gonne di gala, mostrò le coscette bianche fra cui si schiudeva una minuscola fessura imberbe e rosea come l’interno del becco aperto di una ghiandaia appena nata.

Un silenzio religioso calò sull’assemblea. Il ragazzino cercò d’infilare la bambina. Siccome non ci riusciva gli vennero tolti i calzoni e, per eccitarlo, Mony lo sculacciò delicatamente mentre Natascia con la punta della lingua stuzzicava il piccolo glande e le ballotte. Il ragazzo cominciò a rizzare e poté così spulzellare la bambina. Quando si furono dati da fare per una decina di minuti vennero separati e Cornabœux, afferrato il bambino, gli sfondò il didietro con la sua daga possente.

Mony non poté reprimere il desiderio di farsi la bambina. La prese, se la mise a cavalluccio sulle cosce e le cacciò nella minuscola vagina il suo bastone animato.

I due bimbi lanciavano grida spaventevoli, e il sangue colava giù per i cazzi di Mony e di Cornabœux.

Poi si piazzò la bambina sopra Natascia e il pope, che aveva appena terminato la messa, le tolse la gonna e si mise a picchiare il suo culetto bianco e affascinante. Natascia allora si alzò e inforcando André Bar, seduto su una poltrona, si fece penetrare dall’enorme cazzo del congiurato. E diedero il via a quello che gli inglesi chiamano un vigoroso San-Giorgio.

Il bambino, in ginocchio davanti a Cornabœux, gli poppava il dardo piangendo a calde lacrime. Mony inculava la bambina che si dibatteva come un coniglio che si sta per sgozzare. Gli altri congiurati si inculavano con visi spaventosi. Poi Natascia si alzò e rigirandosi porse il culo a tutti i congiurati che lo baciarono a uno a uno.

In quel momento fece entrare una nutrice dal viso di madonna e le cui poppe erano gonfie di un latte generoso. La si fece mettere a quattro zampe e il pope si diede a mungerla come una vacca nei calici sacri.

Mony inculò la nutrice, il cui culo, d’un biancore abbagliante, era teso fino a spaccarsi. Si fece pisciare la bambina fino a riempire il calice. I congiurati si comunicarono così sotto le specie del latte e della pipì.

Poi, afferrando le tibie, giurarono la morte di Alexandre Obrenovitch e della moglie Draga Machine.

La serata terminò in modo infame. Si fecero salire delle vecchie, la più giovane delle quali aveva settantaquattro anni e i congiurati le inforcarono in tutti i modi possibili. Mony e Cornabœux si ritirarono disgustati verso le tre del mattino. Rientrato in casa, il principe si mise nudo e offrì il suo bel culo al crudele Cornabœux che lo inculò otto volte di seguito senza mai sfilarsi. Essi chiamavano queste sedute giornaliere le loro godutine penetranti.

Per un certo periodo Mony condusse a Bucarest questa vita monotona. Il re di Serbia e sua moglie furono assassinati a Belgrado. Il loro omicidio appartiene alla storia ed è già stato giudicato in vari modi. In seguito scoppiò la guerra tra il Giappone e la Russia.

Un bel mattino il principe Mony Vibescu, tutto nudo e bello come l’Apollo del Belvedere, si faceva un sessantanove con Cornabœux. Si succhiavano entrambi golosamente i reciproci zuccherini, soppesando con voluttà dei rulli che non avevano niente a che vedere con quelli dei fonografi. Scaricarono simultaneamente e il principe aveva la bocca piena di sperma quando un cameriere, inglese e compuntissimo, entrò porgendo una lettera su di un vassoio d’argento dorato.

La lettera annunciava al principe Vibescu che era stato nominato tenente in Russia, nel contingente straniero dell’armata del generale Kuropatkin.

Il principe e Cornabœux manifestarono il loro entusiasmo inculandosi a vicenda. Poi si equipaggiarono e si recarono a San Pietroburgo prima di raggiungere il loro corpo d’armata.

«La guerra mi piace», dichiarò Cornabœux, «e i culi dei giapponesi devono essere gustosi».

«Le fiche delle giapponesi sono certamente dilettevoli», aggiunse il principe arricciandosi i mustacchi.

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