Apr 252020
 

Quando la donna proruppe in queste commosse parole, la mischia cessò per un attimo, e le schiere, richiamate alla pace, interruppero lo scontro. Eumolpo, il nostro capo, coglie al volo quell’attimo di rinsavimento e, dopo aver mosso i rimproveri più aspri a Lica, suggella i termini di un trattato, le cui clausole erano le seguenti: «Nel pieno possesso delle tue facoltà mentali, tu, Trifena, prometti di non lamentarti più dell’affronto subito da Gitone, e di non accusarlo, di non vendicartene e di non perseguitarlo in alcun modo per tutto quello che tra di voi c’è stato fino a oggi. Inoltre ti impegni a non pretendere dal ragazzo, qualora non sia pienamente consenziente, che ti abbracci, ti baci, venga a letto con te, pena il pagamento di un’ammenda di cento denari in contanti. Allo stesso modo, tu, Lica, nel pieno possesso delle tue facoltà mentali, ti impegni a non tormentare Encolpio con espressioni ingiuriose o con sguardi sprezzanti, né cercherai di sapere dove dorma la notte, pena – nel caso in cui tu debba violare ciascuna delle suddette condizioni – un’ammenda di duecento denari in contanti». Dopo aver concluso il trattato in questi termini, deponiamo le armi e, per evitare che anche dopo il giuramento ci resti un qualche residuo di rancore nell’animo, decidiamo di dimenticare il passato scambiandoci dei baci. Visto che entrambe le parti non vogliono altro, gli odi reciproci si sgonfiano, e un bel banchetto allestito sul luogo dello scontro suggella il ritorno all’armonia nell’ilarità generale. Tutta la nave risuona di canti e, siccome un’improvvisa bonaccia aveva fatto ridurre la velocità, alcuni si misero ad arpionare con la fiocina i pesci che saltavano fuori dall’acqua, mentre altri cercavano di tirare su le prede guizzanti servendosi di ami insidiosi. Sull’albero maestro venivano intanto a posarsi degli uccelli marini che un tizio, un vero virtuoso, toccava appena con delle canne preparate apposta, e quelli, rimanendo impigliati, si lasciavano poi catturare con le mani. Le piume leggere vorticavano nell’aria e la schiuma impalpabile del mare le avvolgeva nelle sue spire.

Nel frattempo Lica era di nuovo in buona armonia con me e Trifena stava versando le ultime gocce del suo bicchiere addosso a Gitone, quando Eumolpo, anche lui un po’ alticcio, cominciò a raccontare barzellette su calvi e marchiati. Quando poi ebbe esaurito il suo repertorio di scemenze e freddure, tornò ai versi e ci rifilò questa specie di elegia sui capelli:

«Sono caduti i capelli ch’erano il fiore della bellezza,

un triste inverno ha spazzato via le chiome primaverili.

Ora le tempie private dell’ombra perduta si struggono in lacrime,

e il cranio bruciato dal sole perduti i suoi peli sogghigna.

O natura ingannevole dei numi! Le gioie donate per prime

alla vita, per prime le togli.

Poveraccio, un attimo fa splendevi per chiome

più bello di Febo e della sorella di Febo.

Adesso più liscio del bronzo o del fungo

rotondo cresciuto sotto la pioggia,

pauroso eviti il riso delle fanciulle.

Che la morte rapida arriva te lo dice

quella parte del cranio che t’è già morta».

E mi sa che l’avrebbe tirata ancora per le lunghe, con altre stupidaggini peggio delle precedenti, quando una delle ancelle di Trifena si porta Gitone sottocoperta e gli mette in testa una parrucca della padrona. Poi tira fuori da una scatoletta due sopracciglia finte e gliele applica così bene sulla fronte, da restituirgli tutta la bellezza di un tempo. Allora Trifena riconobbe il vero Gitone e, commossa fino alle lacrime, gli diede un primo bacio in piena regola. Quanto a me, anche se ci godevo tantissimo a rivedermi davanti il mio ragazzino di nuovo bello come in passato, ciò nonostante cercavo di nascondere la faccia il più possibile, consapevole com’ero di essere sfigurato e brutto a un livello tale che adesso nemmeno Lica mi rivolgeva più la parola. Ma a questo mio stato di scoramento venne in soccorso quella stessa ancella che, chiamatomi in disparte, mi sistemò in testa una parrucca non meno aggraziata. E anzi, il mio volto risplendette ancora più attraente, perché la parrucca era bionda.

*

Nel frattempo Eumolpo, che ci aveva fatto da avvocato in quel momento critico e che era un po’ l’artefice dell’avvenuta riappacificazione, perché il buon umore non scemasse per mancanza di storielle divertenti, cominciò a dirne di tutti i colori sulla leggerezza delle donne, che perdono la testa in un attimo, che si dimenticano subito persino dei figli e che non esiste al mondo una donna, fosse anche la più onesta, che non sia disposta a fare follie pur di buttarsi in qualche avventuretta fuori di casa. Il suo discorso, precisò Eumolpo, non si riferiva mica alle antiche tragedie o a certi nomi arcinoti da secoli, ma a un fatto successo ai suoi tempi, che lui ci avrebbe raccontato se solo lo avessimo voluto ascoltare. E quando poi tutti rivolsero occhi e orecchi verso di lui, attaccò così:

«A Efeso viveva una matrona così famosa per la sua virtù, che anche dai paesi vicini le donne venivano ad ammirare un simile prodigio. Quando le morì il marito, non contenta di seguire il feretro – come facevano tutte le altre – coi capelli sciolti e percuotendosi il petto nudo al cospetto della gente, volle seguire il defunto fin dentro la cappella, dove cominciò a vegliare in lacrime giorno e notte la salma deposta nella cripta secondo l’uso dei Greci. Era così disperata e decisa a lasciarsi morire di fame, che né i genitori né i parenti riuscivano a farle cambiare idea. Infine, anche i magistrati vennero rispediti indietro senza aver ottenuto alcun risultato, e ormai tutti piangevano quella donna senza uguali, che non toccava cibo da cinque giorni. Ad assistere la sventurata c’era una sua ancella fedelissima che univa le sue lacrime a quelle della padrona e che ogni qual volta la lampada piazzata sulla tomba accennava a spegnersi provvedeva a riaccenderla. In città non si parlava d’altro e gli uomini di ogni estrazione sociale ammettevano che un esempio tanto fulgido di virtù e di amor coniugale non lo si era mai visto, quando il governatore di quella provincia fece crocifiggere certi lestofanti proprio accanto alla cappella dove la matrona continuava a piangere il marito scomparso da poco. E così, la notte successiva, quando un soldato, messo lì di guardia alle croci perché nessuno tirasse giù i corpi per andarli a seppellire, vide il bagliore di una lampada tra le tombe e sentì anche dei gemiti, come se qualcuno stesse piangendo, e per quel vizio che un po’ tutti hanno, venne preso dal desiderio di sapere chi ci fosse e che cosa stesse facendo. Scese così nella cripta e quando vide quella donna bellissima, sulle prime rimase di sasso, pensando di essersi imbattuto in un qualche fantasma o in una visione infernale. Ma poi, vedendo la salma lunga distesa e il volto della donna tutto graffiato dalle unghie, si rese conto (come in effetti era) che si trattava di una giovane vedova incapace di rassegnarsi alla morte del marito, e così si portò giù nella cripta quel poco che aveva per cena e cominciò a esortare la donna tra una lacrima e l’altra, dicendole che era inutile ostinarsi in un vano dolore e che squassarsi il petto a forza di gemiti non serviva granché: tanto la morte era uguale per tutti, come uguale lo era l’estrema dimora e tutte quelle belle frasi di circostanza che si dicono per dare un po’ di conforto alle menti lacerate dal dolore. Ma lei, ancora più turbata dall’assurdo tentativo di consolazione di uno sconosciuto, prese a graffiarsi il petto con maggiore intensità, buttando sulla salma del marito le ciocche di capelli che si strappava. Il soldato, però, non si perse d’animo e, continuando a insistere con lo stesso metodo, tentò di far mangiare qualcosa a quella povera donna. Finché l’ancella, conquistata dal profumo del vino, cedette per prima e tese la mano a quell’offerta allettante, e poi, ristorata dalla bevanda e dal cibo, cominciò anche lei a dare l’assalto all’ostinazione della padrona. “A cosa vuoi che ti serva” le diceva “lasciarti morire di fame, seppellirti viva e rendere l’anima innocente prima che sia la tua ora?

Credi forse che se ne avvedano i Mani e le ceneri dei defunti?

Vuoi o no tornare alla vita? Vuoi mettere da parte questi scrupoli da donnicciola e goderti l’esistenza fin che ti è possibile? È proprio questo cadavere che dovrebbe convincerti a scegliere la vita”. Siccome chi ci invita a mangiare e a vivere la vita non lo si ascolta mai controvoglia, così anche la signora, sfinita dopo tutti quei giorni di digiuno, lasciò che spezzassero la sua ostinazione, e si rimpinzò di cibo non meno avidamente dell’ancella, che si era lasciata convincere per prima.

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.