Mar 282020
 

Mentre Eumolpo e Bargate se ne stavano a confabulare in disparte, entrò nella locanda un banditore accompagnato da un pubblico ufficiale e da un modesto codazzo di gente e, sventagliando una torcia che faceva più fumo che luce, proclamò: «Poco fa si è smarrito nei bagni un ragazzo di circa sedici anni, ricciolino, delicato, bello, di nome Gitone. Chi volesse riportarlo o fornire indicazioni per rintracciarlo riceverà mille sesterzi di ricompensa». A due passi dal banditore c’era Ascilto intabarrato in una veste variopinta e con in mano un vassoio d’argento sul quale aveva in bella mostra il denaro. Ordinai a Gitone di buttarsi subito sotto il letto e di aggrapparsi mani e piedi alle cinghie che reggevano il materasso, convinto che così appeso al letto sarebbe sfuggito anche se avessero frugato per bene là sotto, un po’ come in passato Ulisse era riuscito a sfuggire al Ciclope attaccandosi al ventre di un montone. Gitone non se lo fece ripetere e in un secondo si abbrancò alle cinghie, superando in astuzia lo stesso Ulisse. Per non dare adito a sospetti, riempii il letto di vestiti, creando l’impronta di un unico corpo su per giù della mia stazza.

Nel frattempo Ascilto, dopo aver passato in rassegna con il messo tutte le stanze, giunse di fronte alla mia e, quando vide che era sprangata per bene, cominciò a essere assai speranzoso. L’usciere fece saltare la serratura infilando una scure tra i battenti. Io allora mi buttai ai piedi di Ascilto e, in nome dell’amicizia di un tempo e delle disgrazie patite insieme, lo supplicai di farmi almeno vedere il fratellino. Anzi, per rendere le mie false suppliche ancora più efficaci, gli dissi: «Lo so benissimo, Ascilto, che sei venuto qui per uccidermi. Se no perché mai avresti portato le scuri? Sfoga dunque la tua rabbia: eccoti la mia testa, spargi pure il mio sangue, visto che è questo che volevi con la scusa della perquisizione». Ascilto questa accusa la respinge e assicura di essere solo sulle tracce del ragazzino sfuggitogli e di non avere alcuna intenzione di ammazzare un uomo, e tanto più uno che lo stava supplicando e a cui era ancora attaccatissimo nonostante quella tremenda litigata.

Ma il messo non fa troppo i complimenti e, prendendo un bastone dalle mani dell’albergatore, lo infila sotto il letto, passando in rassegna anche i buchi nella parete. Gitone cercava nel frattempo di schivare i colpi e tratteneva il respiro, tutto intimorito, e con ormai la faccia tra gli insetti del materasso.

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Ma siccome la porta scardinata della stanza non era più un ostacolo per nessuno, ecco Eumolpo catapultarsi dentro eccitato come non mai. «I mille sesterzi me li becco io» dice trillante. «Adesso raggiungo il messo che sta già allontanandosi e gli spiffero che Gitone è qui con te, così mi prendo la più meritata delle rivincite». Io mi butto ai suoi piedi e, nonostante continuasse a insistere con quell’idea, lo imploro di non uccidere un uomo morto. «Se solo Gitone fosse qui» spiego io, «avresti ragione a dare in escandescenze, ma il tipetto se l’è squagliata in mezzo a tutto questo can can, e non riesco nemmeno a immaginare dove sia andato a nascondersi. Te ne prego, Eumolpo, riportalo qua, e poi riconsegnalo pure ad Ascilto». E quando ero ormai quasi riuscito a convincerlo, Gitone, non riuscendo più a trattenere il fiato da tanto era pieno, starnutì tre volte di seguito in maniera così violenta da far tremare il letto. A quel mezzo finimondo Eumolpo si volta e dice a Gitone «Salute!». Poi, dopo aver tirato via anche il materasso, ci scopre sotto un Ulisse contro il quale non avrebbe infierito nemmeno un Ciclope affamato. E, voltandosi di scatto verso di me, mi fa: «E questo cos’è, pezzo di canaglia? Non hai il coraggio di ammettere la verità nemmeno quando ti si coglie in flagrante! Ma che dico? Se una qualche divinità, arbitra delle cose umane, non avesse costretto questo ragazzo a indicare la propria presenza con un segno, adesso io sarei in giro per bettole a dargli la caccia come un cretino».

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Gitone, che era molto più disponibile di me, gli tamponò la ferita al sopracciglio con delle ragnatele intinte nell’olio. Poi, dopo avergli dato il proprio mantello in cambio dei suoi stracci laceri, quando lo vide un po’ più tranquillo, gli buttò le braccia al collo e coprendolo di baci gli disse: «Caro paparino, siamo nelle tue mani – ti rendi conto? -, nelle tue mani. Se vuoi bene al tuo Gitone, comincia a pensare a come salvarlo. Vorrei che a bruciare nel fuoco impietoso fossi io solo, io solo a essere travolto dalla furia del mare in inverno! Perché io solo sono la causa e l’origine prima di tante sventure. Se almeno morissi, tra i nemici tornerebbe la pace».

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EUMOLPO. «Sempre e dovunque io ho vissuto godendomi ogni giorno presente come se fosse l’ultimo e destinato a non tornare mai più».

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In un mare di lacrime, lo prego e lo scongiuro di fare la pace anche con me, perché quando si ama alla gelosia non c’è freno. Per altro gli prometto di non dire e non fare più nulla che potesse dargli fastidio. A patto però che lui, da maestro di nobili discipline qual era, cancellasse dall’animo suo ogni traccia di rancore. «Nei luoghi incolti e selvaggi la neve dura più a lungo, ma dove invece la terra risplende domata dall’aratro, la brina leggera si scioglie mentre parli. Stessa cosa fa l’ira che alberga nei nostri cuori: dura tenace nelle menti rozze, non si sofferma su quelle raffinate». «Perché tu sappia com’è vero quel che dici» replicò Eumolpo, «eccoti qua un bacio col quale metto fine alla collera. E ora, che il cielo ce la mandi buona, fate su le valigie e seguitemi o, se preferite, andate avanti voi». Non aveva ancora finito di parlare, che la porta venne spalancata con una spallata e comparve sulla soglia un marinaio con un barbone ispido sulla faccia. «Guarda, Eumolpo, che sei in ritardo» gli disse, «come se non sapessi la fretta che abbiamo». Allora ci alzammo tutti senza perdere un minuto di più, ed Eumolpo diede ordine al suo servo, che nel mentre si era appisolato, di incamminarsi con il bagaglio. Quanto a me, dopo aver sistemato insieme a Gitone i nostri straccetti in una sacca di pelle, raccomando l’anima alle stelle e salgo a bordo. |[continua]|

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