Set 142019
 

Che incredibile botta di fortuna! Quel bifolco non era curioso e fino a quel momento non aveva ancora frugato tra le cuciture, ma cercava di sbarazzarsi del mantello con aria seccata e come se si trattasse dello straccio di un barbone. Ascilto, rendendosi conto che il malloppo non era stato toccato e che il tipo non era un’aquila come venditore, mi prende in disparte e mi fa: «Ti rendi conto, fratello mio, che abbiamo di nuovo in mano il tesoro che tanto mi ha fatto piangere? Il mantello è proprio quello e a quanto pare dentro ci sono ancora le monete d’oro che fino ad oggi nessuno ha toccato. Che si fa dunque, e a che titolo possiamo rivendicare la nostra roba?».

E io, gongolando non solo per il fatto di vedermi davanti il bottino ma anche perché la sorte mi aveva liberato dalla vergogna del sospetto, gli dissi che non bisognava ricorrere a maneggi, ma che era meglio basarsi sul codice senza tanti sotterfugi, in modo tale che, se quei due non volevano restituire la roba al legittimo proprietario, la faccenda venisse portata davanti al pretore.

Invece Ascilto, che aveva paura della legge, mi dice: «Ma qui chi ci conosce? Chi darà retta alle nostre parole? Ora che l’abbiamo riconosciuto, io sono dell’avviso di comprarlo il mantello, anche se è roba nostra, e recuperare il tesoro per un tozzo di pane, senza starci a impelagare in una causa che non si sa come possa andare a finire.

Che cosa può la legge là dove regna solo il denaro

e dove il poveraccio non la spunta mai?

Persino quelli che girano con la bisaccia dei Cinici

han l’abitudine qualche volta di vendere la verità a poche lire.

Così la giustizia non è altro che pubblica merce,

e il cavaliere seduto tra i giurati approva la vendita».

Ma in tasca non avevamo altro che due soldi per comprarci ceci e lupini. E così, per non lasciarci sfuggire la preda, decidiamo di vendere il nostro mantello per una miseria e di rifarci della perdita con un colpo di ben altra portata. Non appena scioriniamo la nostra mercanzia, la donnetta col capo coperto che era insieme al villico, dopo aver esaminato con cura certi ricami, si avventa con le mani sull’orlo del mantello e attacca a urlare «al ladro, al ladro!», come un’ossessa. Noi, invece, sconvolti, per non sembrare incerti e succubi, ci buttiamo sulla tunica sbrindellata e lercia, sostenendo con la stessa foga che quello che loro hanno in mano è roba nostra. Ma tra gli oggetti contesi non c’era paragone: infatti anche i rigattieri accorsi in massa alle urla se la ridevano della nostra indignazione, perché una parte reclamava un mantello sfarzoso, mentre l’altra, la nostra, voleva indietro una veste rattoppata inutile persino per ricavarne strofinacci. Alla fine Ascilto fu bravo a bloccare le risate e, ottenuto il silenzio, dichiarò:

«Visto che ognuno ci tiene alla roba sua, se loro ci danno indietro la tunica, noi gli restituiamo il mantello». Al villico e alla donna l’idea dello scambio sarebbe andata anche a genio, se non fosse stato per dei presunti legulei (o meglio, data l’ora, dei ladruncoli notturni decisi a impadronirsi del mantello), i quali ci intimano di consegnare in mano loro entrambi gli indumenti, così che il giorno dopo un giudice possa pronunciarsi a riguardo. Infatti non erano in questione soltanto quegli oggetti, come poteva sembrare, ma andava esaminato ben altro, perché su entrambe le parti gravava il sospetto del furto. Ormai si era già d’accordo sul sequestro, quando uno dei rigattieri non meglio identificato, col cranio pelato e la fronte piena di bozze, uno che a tempo perso si andava a immischiare nei processi, arraffa il mantello dichiarando che lo avrebbe esibito il giorno dopo in tribunale. Ma era evidente che quelle canaglie volevano soltanto metter le mani sul mantello, sicuri che se noi l’avessimo consegnato, il giorno dopo non ci saremmo presentati all’udienza, per paura di essere accusati di furto.

In fin dei conti era quello che volevamo anche noi. Ma fu il caso a venire incontro a entrambe la parti. Infatti il contadino, infuriato di fronte alla nostra pretesa di vedere esibito anche quello straccio, buttò la tunica sul grugno di Ascilto e ci intimò – non avendo noi più alcuna lamentela da fare – di mollargli il mantello, che al presente restava l’unica ragione della contesa,

*

recuperato, come pensavamo, il malloppo, ce la filiamo a rotta di collo in pensione e, dopo esserci sprangati in camera, attacchiamo a ridere a crepapelle sulla stupidità dei rigattieri e di quei figuri, che con tutta la loro furbizia avevano finito col restituirci il gruzzolo.

Non voglio avere subito quel che desidero,

né amo la vittoria bella e pronta.

*

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