Set 292018
 

L’indomani, appena alzata, Emma vide il giovane di studio nella piazza. Era ancora in vestaglia e quando lui alzò il capo e la salutò, rispose con un rapido cenno e richiuse la finestra.

Léon, quel giorno, aspettò con impazienza che arrivassero le sei: ma, entrando nell’albergo, si accorse che ad aspettarlo c’era soltanto il signor Binet, seduto a tavola.

La cena della sera precedente aveva costituito per lui un avvenimento importante; non gli era mai accaduto, fino a quel momento, di conversare per due ore di seguito con una ‘signora’. Si stupiva di essere riuscito a esporle, e in così bella forma, una quantità di cose che prima d’ora non avrebbe saputo dire. Di solito era timido e manteneva quel riserbo che è al contempo pudore e dissimulazione. A Yonville lo consideravano un giovane di ottime maniere. Ascoltava i discorsi delle persone anziane e non si esaltava per la politica, cosa questa notevole per la sua età. Inoltre aveva qualche talento, dipingeva all’acquerello, leggeva la musica, si occupava volentieri di letteratura, dopo cena, quando non giocava a carte. Il signor Homais lo stimava per la sua cultura, la signora Homais gli era affezionata per la sua compiacenza, in quanto spesso scendeva in giardino con i piccoli Homais, marmocchi sempre sudici, molto maleducati e un po’ linfatici come la madre. Per badare a loro, oltre alla domestica avevano Justin, l’allievo farmacista che serviva nello stesso tempo da domestico ed era un lontano cugino del signor Homais, il quale l’aveva accolto in casa per carità.

Lo speziale si dimostrò il migliore dei vicini. Informò la signora Bovary sul conto dei fornitori, fece venire apposta il suo negoziante di sidro, assaggiò egli stesso la bevanda per accertarsi della sua buona qualità, si preoccupò di far sistemare nella maniera migliore i fusti in cantina; indicò il modo di procurarsi una provvista di burro a buon mercato e concluse un contratto con Lestiboudois, il sagrestano, il quale, oltre a svolgere le sue funzioni chiesastiche e mortuarie, si occupava dei più bei giardini di Yonville, a un tanto all’ora o all’anno, a seconda dei gusti di chi lo assumeva.

Non era soltanto il desiderio di aiutare gli altri a indurre il farmacista a tanta ossequiente cordialità; dietro a essa si celava un preciso proposito.

Egli aveva violato la legge del 19 ventoso dell’anno XI, articolo I, che proibisce, a chi non possieda il titolo adatto, l’esercizio della medicina. In seguito a una misteriosa denuncia, il signor Homais era stato chiamato a Rouen, dal procuratore del re, nel suo gabinetto particolare. Il magistrato l’aveva ricevuto in piedi, con la toga, l’ermellino sulle spalle e il tocco in testa. Era una mattina, prima delle udienze. Si udivano nel corridoio i passi pesanti degli stivali dei gendarmi e un rumore lontano di grosse serrature che venivano chiuse. Il farmacista si sentiva ronzare gli orecchi al punto da temere che gli venisse un accidente, si vide in fondo a una segreta, immaginò la sua famiglia nella disperazione, la farmacia venduta, i boccali sparsi ai quattro venti e dovette, per riprendersi, entrare in un caffè e ordinare un bicchiere di rum al seltz.

A poco a poco il ricordo di questa ammonizione si affievolì, ed egli continuò come sempre a visitare illegalmente pazienti nel retrobottega. Ma il sindaco ce l’aveva con lui, i colleghi erano gelosi, si poteva temere il peggio. Fare delle gentilezze al signor Bovary significava assicurarsene la gratitudine e chiudergli la bocca nel caso si fosse accorto di qualcosa. Così, tutte le mattine, Homais gli portava il giornale, e spesso, nel pomeriggio, lasciava la farmacia per un momento e andava a chiacchierare con l’ufficiale sanitario.

Charles era triste: la clientela non si faceva vedere. Se ne stava seduto per lunghe ore senza parlare; andava a dormire nello studio o guardava sua moglie cucire. Per distrarsi si mise a fare l’uomo di fatica in casa e si cimentò a dipingere il solaio con gli avanzi di vernici lasciati dagli imbianchini. Ma lo preoccupava la situazione finanziaria. Aveva speso somme ingenti per le riparazioni della casa di Tostes, per gli abiti della moglie, e per il trasloco; e tutta la dote, più di tremila scudi, era sfumata in due anni. Quante cose poi, si erano rovinate o perdute nel trasporto da Tostes a Yonville, senza contare il curato di gesso, che, a una scossa più violenta del carro, era caduto spaccandosi in mille pezzi sul selciato di Quincampoix.

L’unico pensiero piacevole capace di distrarlo era la gravidanza della moglie. A mano a mano che il termine dei nove mesi si avvicinava, sentiva di amarla sempre di più. Era come se si fosse stabilito un nuovo legame fisico, quasi l’incessante consapevolezza di un’unione più complessa. Quando osservava da lontano la pigra andatura di Emma, quando la vedeva piegarsi mollemente sulle anche non imprigionate nel busto, oppure, standole di fronte, la contemplava a suo agio, mentre lei si abbandonava stanca, seduta nella poltrona, allora la sua felicità diventava incontenibile. Si alzava, l’abbracciava, l’accarezzava sul viso, la chiamava mammina, voleva farla ballare, e, sorridendo con le lacrime agli occhi, le sussurrava tutte le cose scherzose e tenere che gli venivano in mente.

L’idea di aver dato origine a una nuova vita lo deliziava. Conosceva l’esistenza umana in tutte le sue manifestazioni, adesso, e se ne stava affacciato a guardarla con serenità.

Emma dapprima si sentì molto stupita, poi desiderò sgravarsi per sapere che cosa volesse dire essere mamma. Ma, non potendo fare le spese che avrebbe desiderato né avere una culla a barchetta con il velo di seta rosa, e delle cuffiette ricamate, rinunciò a preparare il corredino e, in un momento di amarezza, lo ordinò tutto a una lavorante del villaggio senza scegliere niente e senza discutere. Non si appassionò a questi preparativi nei quali si manifesta la tenerezza delle madri, e il suo affetto, fin dal principio, ne fu forse in qualche modo attenuato.

Eppure, siccome Charles, a ogni pasto, non faceva che parlare del bambino, anche Emma cominciò a pensarvi meno saltuariamente.

Desiderava un maschio; sarebbe stato forte e bruno, e l’avrebbe chiamato Georges e questa idea di avere per figlio un maschio era quasi una rivincita potenziale di tutti i suoi fallimenti. Un uomo è almeno libero; passioni e paesi sono aperti dinanzi a lui, può ignorare gli ostacoli e ghermire le felicità più remote. Una donna, invece, è continuamente impedita. Inerte e flessibile nello stesso tempo, ha contro di sé le debolezze della carne e i dettami delle leggi. La sua volontà, come il velo del cappello, trattenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; per ogni desiderio che alletta, v’è una convenienza che trattiene.

Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.

«È una bambina!» disse Charles.

Emma voltò la testa e svenne.

Quasi subito accorse la signora Homais e l’abbracciò. Altrettanto fece mamma Lefrançois del Leon d’Oro. Il farmacista, con discrezione, le rivolse soltanto, attraverso la porta socchiusa, qualche provvisoria felicitazione. Volle vedere la creaturina e la trovò assai ben conformata.

Durante la convalescenza, Emma dedicò parecchio tempo alla scelta di un nome per sua figlia. Innanzitutto passò in rassegna quelli che avevano una desinenza italiana, come Clara, Louisa, Amanda, Atala; le piaceva anche Galsuinde e ancora di più Yseult e Léocadie. Charles avrebbe voluto chiamarla come sua madre, ma Emma si oppose. Fecero passare il calendario da cima a fondo e consultarono anche gli estranei.

«Il signor Léon» diceva il farmacista «si meraviglia che non scegliate Madeleine: è un nome enormemente di moda.»

Ma la signora Bovary madre protestò con vivacità per questo nome di peccatrice. Quanto al signor Homais, le sue preferenze andavano a tutti quei nomi che ricordassero grandi uomini, fatti illustri o alti ideali e aveva battezzato i suoi quattro figli in armonia con tali predilezioni. Così Napoleone rappresentava la gloria e Franklin la libertà; Irma era forse una concessione al romanticismo, ma Athalie costituiva certo un omaggio a un immortale capolavoro del teatro francese. Le sue convinzioni filosofiche, è evidente, non ostacolavano gli entusiasmi artistici e in lui la sensibilità non era soffocata dalla razionalità; sapeva discernere fra l’una e l’altra cosa, separare nettamente l’immaginazione dal fanatismo. Di questa tragedia, per esempio, egli biasimava le concezioni, ma ammirava lo stile; riprovava il pensiero, ma plaudiva a tutti i particolari, si esasperava contro i personaggi, ma i loro discorsi lo entusiasmavano. Quando leggeva le scene madri, si sentiva trasportato, ma quando pensava che i preti ne traevano vantaggio per la propria bottega, ne era desolato, e si smarriva in questa confusione di sentimenti desiderando nello stesso tempo incoronare con le proprie mani Racine e discutere con lui per un buon quarto d’ora.

Alla fine Emma ricordò che al castello della Vaubyessard aveva sentito la marchesa chiamare Berthe una giovane; da quel momento la scelta fu fatta e siccome Papà Rouault non poteva venire, il signor Homais fu pregato di fare da padrino. Come regalo offrì prodotti della sua azienda; e cioè: sei scatole di giuggiole, un intero boccale di fecola araba, tre vasetti di pasta di malvarosa e inoltre sei bastoncini di zucchero filato che aveva trovato per caso in un armadio a muro. La sera della cerimonia, venne organizzata una gran cena; c’era anche il curato. Vi fu molta animazione. Il signor Homais, ai liquori, intonò Dio degli uomini buoni, il signor Léon cantò una barcarola e la signora Bovary madre, che era la madrina, una romanza dei tempi dell’impero. Infine il signor Bovary padre volle che si portasse giù la neonata e finse di battezzarla con un bicchiere di champagne, versandolo dall’alto sul capo della bambina. Una tale derisione del primo dei sacramenti indignò l’abate Bournisien; Bovary padre rispose con una citazione dalla Guerra degli dei, il curato se ne voleva andare, le signore imploravano, il signor Homais si interpose e fra tutti riuscirono a trattenere il sacerdote, che sedette e ricominciò a sorbire tranquillamente dal piattino la tazza di caffè rimasta a metà.

Il signor Bovary padre si fermò per un mese a Yonville, abbagliandone gli abitanti con un superbo berretto militare a galloni d’argento che si metteva la mattina per andare a fumare la pipa in piazza. Aveva inoltre l’abitudine di bere molta acquavite e mandava spesso la domestica al Leon d’Oro perché gliene comperasse una bottiglia, facendola mettere in conto a suo figlio; consumò anche tutta la provvista di acqua di Colonia di sua nuora per profumare i propri fazzoletti.

A Emma non dispiaceva la compagnia del suocero. Aveva girato il mondo e le parlava di Berlino, di Vienna, di Strasburgo, di quand’era ufficiale, delle sue amanti, delle gran mangiate che aveva fatto, si comportava con lei con grande amabilità e talvolta addirittura, in giardino o sulle scale, la prendeva per la vita esclamando:

«Sta’ attento, Charles!»

A questo punto, mamma Bovary si preoccupò per la felicità del figlio e temendo che suo marito, a lungo andare, avrebbe potuto esercitare un’influenza immorale sulle idee della giovane, si affrettò a cercar di anticipare la partenza. Forse l’angustiavano preoccupazioni più serie. Il signor Bovary era un uomo che non rispettava nulla…

Un giorno Emma fu presa d’improvviso dal desiderio di vedere la sua bambina, che era stata messa a balia dalla moglie del falegname, e, senza controllare sul calendario se le sei settimane della Vergine fossero già trascorse o meno, s’incamminò verso la casa dei Rollet situata all’estremità del villaggio ai piedi del colle, fra la strada maestra e le marcite.

Era mezzogiorno, le case avevano le persiane chiuse, i tetti di ardesia luccicavano sotto la luce violenta del cielo azzurro e i colmi sembrava sprigionassero scintille. Soffiava un vento caldo e saturo di umidità. Emma si sentiva debole mentre camminava, la facevano soffrire i ciottoli del marciapiede; era incerta se tornare indietro o entrare in qualche posto per sedersi.

In quel momento uscì da una porta vicina il signor Léon con un fascio di carte sotto il braccio. Venne a salutarla e si mise all’ombra, sotto la tenda grigia sporgente davanti alla bottega di Lheureux.

La signora Bovary disse che andava a trovare sua figlia, ma che si sentiva stanca.

«Se…» cominciò Léon senza avere il coraggio di andare avanti.

«Ha qualche impegno?» domandò Emma.

Avendo ottenuto una risposta negativa, lo pregò di accompagnarla. La sera, tutta Yonville era a conoscenza del fatto, e la signora Tuvache, la moglie del sindaco, dichiarò alla presenza della domestica che la signora Bovary si stava compromettendo.

Per andare dalla balia, bisognava voltare a sinistra dopo lo stradone, come per recarsi al cimitero, e percorrere un viottolo che correva, fiancheggiato dai ligustri fioriti, in mezzo a casette e cortili. Erano in fiore anche le veroniche, le rose canine, le ortiche e i sottili tralci dei rovi che si protendevano dai cespugli. Dai varchi fra le siepi si scorgevano, presso i casolari, maiali vicini alle concimaie, o mucche impastoiate che strofinavano le corna contro il tronco degli alberi. I due camminavano adagio, fianco a fianco, Emma appoggiandosi a lui e lui accorciando il passo e adeguandolo a quello di lei. Davanti a loro volteggiava e ronzava uno sciame di mosche nell’aria calda.

Riconobbero la casa da un vecchio noce che stendeva la sua ombra su di essa. Era bassa e coperta di tegole scure, e fuori dell’abbaino del solaio pendeva una collana di cipolle. Alcune fascine appoggiate verticalmente contro la cinta spinosa delimitavano un’aiuola quadrata ove crescevano della lattuga, alcune piante di lavanda e i piselli odorosi che si abbarbicavano sulle frasche. Un rivoletto di acqua sporca scorreva e si allargava sull’erba e tutto intorno erano sparpagliati cenci non ben identificabili, calze lavorate a maglia, una camiciola di cotone rosso e un grande lenzuolo di tela ruvida steso lungo la siepe. Al rumore del cancello, comparve la balia, tenendo in braccio un bambino che stava poppando. Con l’altra mano si trascinava dietro un povero marmocchio gracile e dal viso scrofoloso figlio di un cappellaio di Rouen, che i genitori, troppo impegnati con il loro lavoro, lasciavano in campagna.

«Entri,» disse «la sua bambina è là che dorme.»

La camera al pianterreno, la sola di tutta la casa, aveva in fondo, contro il muro, un gran letto senza tende, mentre la madia occupava il lato della finestra, un vetro della quale era tenuto insieme da un disco raggiato di carta blu. Nell’angolo dietro la porta, zoccoli alti, dai chiodi lucenti, erano allineati sotto la pietra del lavatoio, vicino a una bottiglia piena d’olio con una piuma infilata nel collo. Un lunario Mathieu Laensberg era gettato sul caminetto polveroso, fra pietre focaie da fucile, mozziconi di candele e brandelli d’esca. Il massimo lusso di questa stanza consisteva in un’illustrazione ritagliata certo da qualche cartello pubblicitario di prodotti di profumeria, raffigurante la Celebrità che soffiava in una tromba; era fissata alla parete per mezzo di bullette da zoccoli.

La bambina di Emma dormiva in una culla di vimini, sul pavimento. La madre la prese in braccio con la coperta che l’avvolgeva e si mise a ninnarla cantando sottovoce.

Léon andava su e giù per la stanza; gli sembrava strano vedere questa bella signora dagli abiti eleganti in mezzo a tanta miseria La signora Bovary arrossì ed egli si voltò, temendo che i suoi sguardi potessero apparire impertinenti. Poi Emma riadagiò la piccola che aveva rigurgitato sul bavaglino. La balia andò subito a ripulirla assicurando che non sarebbe rimasta la macchia.

«Ne fa ben altre,» disse «non faccio altro che lavare le sue cose. Se avesse la compiacenza di ordinare a Camus, il droghiere, di lasciarmi prendere il sapone quando mi occorre, sarebbe più comodo per lei perché non continuerei a disturbarla.»

«Va bene, va bene!» disse Emma «Arrivederci, mamma Rollet.»

E uscì, pulendosi i piedi sul gradino della soglia.

La buona donna l’accompagnò fino in fondo al cortile, parlando della fatica che le costava l’alzarsi di notte.

«Mi sento così rotta, che spesso mi addormento sulla sedia. Dovrebbe proprio darmi almeno una libbra di caffè macinato; me lo farei bastare per un mese e lo berrei la mattina con il latte.»

Dopo aver subito i suoi ringraziamenti, la signora Bovary se ne andò; aveva percorso soltanto un breve tratto di sentiero quando uno scalpiccio di zoccoli le fece volgere il capo: era ancora la balia.

«Che c’è?»

Allora la contadina, tirandola in disparte sotto un olmo, si mise a parlare del marito, il quale, con il suo mestiere e con i sei franchi all’anno che il capitano…

«Venga al dunque» disse Emma.

«Bene,» riprese la balia sospirando a ogni parola «ho paura che se la prenda, se mi vede bere il caffè da sola; sa, gli uomini…»

«Ma le ho detto che le farò avere il caffè» ripeté Emma. «Glielo manderò… Non continui a infastidirmi.»

«Ahimè! Cara signora, il guaio è che le sue ferite gli danno dei terribili crampi al petto. Dice che anche il sidro lo indebolisce.»

«Ma cerchi di sbrigarsi, mamma Rollet.»

«Stavo dicendo,» riprese lei facendo un inchino «se non le sembra troppo, se non è chiederle troppo» e si inchinò ancora una volta «quando le farà comodo,» e supplicava con lo sguardo «un quartino di acquavite» disse infine «potrei adoperarla anche per strofinare i piedini della sua bambina, che li ha teneri come la lingua.»

Liberatasi della balia, Emma si appoggiò di nuovo al braccio del signor Léon. Camminò in fretta per un tratto, poi rallentò e il suo sguardo, ch’ella teneva fisso dinanzi a sé, si posò sulla spalla e sul collo di velluto nero della finanziera del suo accompagnatore. I capelli castani di lui vi ricadevano lisci e ben pettinati. Notò che aveva le unghie più lunghe di come le portavano a Yonville. Una delle maggiori occupazioni del giovane di studio era infatti quella di curarle; e custodiva a questo scopo un temperino tutto particolare nel cassetto della scrivania.

Tornarono a Yonville seguendo la riva del fiume. Nella stagione calda, l’argine, facendosi più largo, metteva allo scoperto fino alla base i muri dei giardini che avevano una breve scala per scendere al fiume. L’acqua scorreva silenziosa, rapida, e guardandola, si aveva un’impressione di freddo, lunghe erbe sottili si curvavano insieme spinte dalla corrente, come capigliature verdi che si abbandonassero libere nella sua limpidezza. Sulla cima dei giunchi o sulle foglie delle ninfee si posavano, o camminavano talvolta, insetti dalle lunghe zampe. Il sole attraversava con i suoi raggi le piccole bolle che si susseguivano e si rompevano, formate dalle onde, i vecchi salici dai rami tagliati, si riflettevano nell’acqua con la corteccia grigia; al di là di essi, tutto intorno, i prati sembravano deserti. Era l’ora del pasto, nelle fattorie, e la giovane signora e il suo compagno non sentivano camminando che il suono dei loro passi sulla terra battuta del sentiero, le parole che essi stessi pronunciavano e il fruscio della gonna di Emma intorno a lei. I muri dei giardini, con la cima munita di cocci di bottiglia erano caldi come le vetrate di una serra. Fra i mattoni erano cresciute le violacciocche selvatiche e, con l’orlo del parasole aperto, passando, la signora Bovary sbriciolava in una polvere gialla qualcuno dei loro fiori appassiti; qualche ramo di caprifoglio o di clematide si protendeva al di sopra del muro e strusciava un momento sulla seta impigliandosi nelle frange.

Stavano parlando di una compagnia di ballerini spagnoli che si sarebbero di lì a poco esibiti al teatro di Rouen.

«Andrà a vederli?» domandò Emma.

«Se mi sarà possibile» rispose Léon.

Non avevano altro da dire? Eppure i loro occhi erano colmi di una gravità degna di parole più serie, e, mentre si sforzavano di trovare frasi banali, si sentivano presi da uno stesso languore. Sentivano dentro di sé come un mormorio profondo, incessante, più forte delle loro stesse voci. Sbigottiti di fronte a questa sconosciuta soavità, non si preoccupavano di confidarsi le sensazioni che suscitava o di scoprirne la causa. Le felicità future, come le spiagge dei Tropici, proiettano sulle smisurate distanze che le precedono i miraggi dei loro propri piaceri, di una brezza profumata, e assopiscono in questa voluttà, senza suscitare ansie per l’orizzonte che non si riesce a scorgere.

A un certo punto il sentiero affondava nel fango a causa del passaggio del bestiame; furono costretti a camminare su grosse pietre verdi regolarmente distanziate. Spesso Emma si fermava un istante per guardare dove metteva il piede e, vacillando sulla pietra malferma, con i gomiti sollevati, la figura inclinata e l’occhio indeciso, rideva della propria paura di cadere nelle pozzanghere.

Appena giunsero davanti al suo giardino, la signora Bovary spinse il cancelletto, salì di corsa i gradini e scomparve.

Léon rientrò allo studio. Il principale non c’era; diede una occhiata agli incartamenti, temperò una penna, poi prese il cappello e uscì.

Se ne andò su al Pascolo, in cima al colle di Argueil, al limitare della foresta; si sdraiò per terra sotto i pini, a guardare il cielo attraverso le dita.

«Come mi annoio!» si ripeteva «Come mi annoio!»

Si commiserava perché viveva in un villaggio avendo Homais come amico e il signor Guillaumin per padrone. Quest’ultimo con gli occhiali d’oro a stanghetta e i favoriti rossi che spiccavano sulla cravatta bianca, tutto preso dagli affari, non capiva niente delle raffinatezze dello spirito, benché affettasse maniere rigide e inglesi che erano riuscite ad abbagliare il giovane nei primi tempi. Quanto alla moglie del farmacista, era la miglior sposa di tutta la Normandia, dolce come un agnello, amava i figli, il padre, la madre, i cugini, era pronta a piangere per le disgrazie altrui, badava alla casa come meglio non si sarebbe potuto e detestava i busti. Ma era così lenta nei movimenti, così noiosa ad ascoltarsi, aveva un aspetto così comune, e una conversazione così limitata che, per quanto avesse solo trent’anni e lui venti, per quanto dormissero porta a porta, per quanto le parlasse ogni giorno, non aveva mai pensato ch’ella potesse essere una donna per qualcuno, né che possedesse del proprio sesso qualcos’altro oltre la veste.

E poi chi c’era? Binet, qualche negoziante, due o tre osti, il curato, e il signor Tuvache, il sindaco, e i suoi due figli, gente ricca, burbera e ottusa, che coltivava da sé i propri terreni, faceva baldoria in famiglia, devota, questo è vero, ma la cui compagnia era del tutto insopportabile.

Sullo sfondo uniforme di tutti questi volti umani, il viso di Emma spiccava isolato e lontano: egli sentiva vagamente che fra se stesso e lei esisteva un abisso.

Da principio era andato spesso a farle visita insieme con il farmacista. Charles non si era dimostrato particolarmente lieto di riceverlo e Léon non sapeva come regolarsi fra la paura di essere indiscreto e il desiderio di un’intimità che riteneva quasi impossibile.

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