Ago 112018
 

La facciata in mattoni dava direttamente sulla via, o meglio, sulla strada maestra. Dietro la porta si trovavano appesi un pastrano con il bavero piccolo, una briglia, un berretto di pelle nero, e in un angolo, per terra, un paio di stivali ancora coperti di fango secco. A destra c’era la sala, e cioè la stanza dove si mangiava e si passavano le giornate. Una tappezzeria giallo-canarino, ravvivata in alto da una ghirlanda di fiori a tinte delicate, tremolava da cima a fondo sulla tela mal tesa; le tende di calicò orlate di rosso si incrociavano alle finestre e sulla stretta mensola del caminetto luccicava una pendola che rappresentava una testa di Ippocrate, fra due lampade di argento placcato sormontate da globi di forma ovale. All’altro lato del corridoio v’era lo studio di Charles, una stanzetta larga circa sei passi, arredata con tre sedie, un tavolo e una poltrona da ufficio. I volumi del dizionario della scienza medica, intonsi, ma con la rilegatura rovinata per essere passati fra le mani di troppi padroni, occupavano quasi da soli i sei ripiani di una libreria in legno di abete. Gli odori dei cibi penetravano nello studio, durante le consultazioni, e in cucina si udivano i malati tossire e raccontare tutte le loro afflizioni. Uno stanzone mal tenuto si apriva direttamente sul cortile dove c’era la scuderia: conteneva un forno e serviva da legnaia, cantina, ripostiglio; era pieno di ferrivecchi, barili vuoti, attrezzi agricoli fuori uso e di una gran quantità di cose coperte di polvere delle quali sarebbe stato impossibile indovinare l’uso.

Il giardino, più lungo che largo, si stendeva fra due muri assai rustici coperti da albicocchi a spalliera fino a una siepe di rovi che lo separava dai campi. In mezzo, una meridiana d’ardesia era posata su un piedistallo in muratura; quattro stente aiuole di rose canine circondavano simmetricamente il terreno destinato alle coltivazioni, più utili, degli ortaggi. In fondo, sotto gli abeti nani, un curato di pietra leggeva il breviario.

Emma salì nelle camere. La prima era vuota, ma la seconda, quella matrimoniale, conteneva un letto di mogano sotto un’alcova disegnata drappeggiata di rosso. Una scatola coperta di conchiglie decorava il cassettone e sullo scrittoio vicino alla finestra, infilato in una bottiglia, c’era un mazzolino di fiori d’arancio legato con un nastro di raso bianco. Un mazzolino da sposa, quello dell’altra! Emma lo guardò. Charles se ne accorse, lo prese e lo portò in solaio, mentre sua moglie, accomodata in una poltrona (le sue cose venivano intanto sistemate intorno a lei), pensava al proprio mazzolino, riposto in una scatola di cartone, e si domandava, fantasticando, che fine avrebbe fatto se per caso fosse morta.

Durante i primi giorni fu occupata a studiare i cambiamenti da apportare alla casa. Tolse i globi dai candelabri, fece tappezzare di nuovo le camere, ridipingere la scala e mettere panchine nel giardino, tutto intorno alla meridiana; domandò come avrebbe potuto fare per avere una vasca con lo zampillo e i pesci rossi. E poi, suo marito, sapendo ch’ella amava le passeggiate in carrozza, trovò un carrozzino d’occasione che, per aver avuto un tempo i fanali nuovi e i parafanghi di cuoio impunturato, sembrava quasi un tilbury.

Charles era felice e senza pensieri. Una cenetta a due, una passeggiata la sera sulla strada maestra, un gesto della mano di Emma sui capelli, la vista del suo cappellino di paglia appeso alla maniglia di una finestra e un’infinità di altre cose dalle quali non aveva mai immaginato di poter trarre piacere, formavano il tessuto della sua felicità. Al mattino, a letto, con il capo accanto a quello di lei, sul guanciale, guardava la luce del sole filtrare attraverso la peluria bionda delle sue gote per metà nascoste dai lembi della cuffietta. Visti così da vicino, i suoi occhi gli sembravano più grandi, soprattutto quando Emma, svegliandosi, apriva e chiudeva più volte le palpebre; erano neri all’ombra e blu scuri nella luce piena, sembravano fatti a strati sovrapposti di colore, più denso dapprima e poi sempre più chiaro verso la superficie della cornea. Lo sguardo di lui si perdeva in quegli specchi profondi nei quali scorgeva rimpicciolita la propria immagine, fino alle spalle, con il fazzoletto di seta che le copriva il capo, e il collo della camicia aperto. E poi veniva l’ora di alzarsi. Lei si affacciava alla finestra per vederlo andar via; stava con i gomiti appoggiati al davanzale fra due vasi di gerani, indossando una vestaglia ampia. Charles, in strada, si allacciava gli speroni appoggiando il piede al paracarro, mentre ella continuava a conversare con lui dall’alto, strappando con la bocca pezzetti di fiore o d’erba, che soffiava dalla sua parte: volteggiavano, planavano, disegnavano semicerchi nell’aria, come un uccello, e andavano, prima di cadere, ad attaccarsi ai crini mal strigliati della vecchia cavalla bianca, immobile davanti alla porta. Montato a cavallo, Charles le mandava un bacio, lei rispondeva con un gesto, chiudeva la finestra ed egli se ne andava. Sulla strada maestra simile a un interminabile nastro di polvere, nei sentieri profondi lungo i quali gli alberi, curvandosi, formavano una cortina, nei viottoli ove il grano gli arrivava ai ginocchi, sotto il sole e con il profumo del mattino nelle narici, con il cuore pieno della gioia della notte, con l’animo in pace e i sensi appagati, se ne andava ruminando la sua felicità, come chi assapori, dopo mangiato, il gusto dei tartufi che sta digerendo.

Fino a quel giorno, che cosa gli aveva dato la vita? Aveva conosciuto la felicità, forse, quando in collegio restava chiuso fra quelle alte mura, solo, in mezzo ai compagni più ricchi o più bravi di lui negli studi, che ridevano per il suo accento, lo burlavano per i suoi abiti, e le cui madri venivano in parlatorio con i manicotti pieni di dolciumi? O più tardi, quando studiava medicina e non aveva mai il borsellino così ben fornito da potersi permettere di portare a ballare qualche sartina che diventasse poi la sua amichetta? In seguito aveva vissuto per quattordici mesi con la vedova che a letto aveva i piedi freddi come ghiaccioli. Ma adesso possedeva per tutta la vita questa deliziosa fanciulla che adorava. Per lui l’universo non andava oltre l’orlo di seta della gonna di Emma; si rimproverava di non amarla abbastanza, non vedeva l’ora di rivederla, tornava a casa più presto che poteva, saliva le scale con il cuore in gola. Emma, nella sua camera, si faceva bella: Charles arrivava in punta di piedi e la baciava sul collo facendola gridare dalla sorpresa.

Non era capace di astenersi dal toccare continuamente il pettine, gli anelli, lo scialletto di lei; qualche volta le dava grossi baci schioccanti sulle gote, o la baciava dolcemente sulle braccia nude, dalla punta delle dita fino alle spalle; e lei lo respingeva, fra sorridente e annoiata, come si fa con un bambino troppo insistente.

Prima di sposarsi, Emma aveva creduto di essere innamorata, ma la felicità che sarebbe dovuta nascere da questo amore non esisteva, ed ella pensava ormai di essersi sbagliata. Cercava ora di capire che cosa volessero dire realmente le parole felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri.

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