Ago 042018
 

Gli invitati arrivarono di buon’ora, in carrozza, in calesse, in carretto, su vecchi barrocci senza mantice, su giardiniere con le tendine di cuoio; e i giovanotti dei villaggi vicini su carrette sopra le quali stavano in piedi, reggendosi con le mani alle sponde per non cadere andando al trotto con grandi scossoni. Venne gente fin da dieci miglia lontano, da Goderville, da Normanville, e da Cany. Erano stati invitati tutti i parenti delle due famiglie, erano state riallacciate le amicizie che la discordia aveva interrotto, erano stati mandati inviti a conoscenze perdute di vista da molto tempo.

Di tanto in tanto si sentivano schiocchi di frusta dietro la siepe; subito il cancello veniva aperto per lasciare entrare un calesse. Al galoppo il veicolo arrivava fino al primo gradino della scalinata d’ingresso, ove si fermava di colpo, svuotandosi del suo carico; la gente scendeva da tutti i lati, massaggiandosi i ginocchi e stiracchiandosi. Le signore, con la cuffia, vestivano secondo la moda cittadina, con le catene d’oro per l’orologio, le mantelline con i lembi che s’incrociavano alla cintola, e scialletti colorati, appuntati sulla schiena con una spilla, che lasciavano scoperti la nuca e il collo. I ragazzi, vestiti come i padri, sembravano a disagio negli abiti nuovi (molti indossavano quel giorno il primo paio di scarpe della loro vita) e accanto a essi, senza osare pronunciare parola, nell’abito bianco della prima comunione, allungato per l’occasione, si vedeva qualche fanciulla di quattordici o sedici anni, senza dubbio la sorella o la cugina di uno di loro, rossa in viso, smarrita, con i capelli unti di unguento di rose e con una gran paura di sporcarsi i guanti. Non essendoci abbastanza stallieri per staccare i cavalli da tutte le carrozze, gli uomini si rimboccavano le maniche e lo facevano essi stessi. Secondo la posizione sociale, indossavano marsine, finanziere, giacche corte, giacche di media lunghezza, ‘abiti buoni’ circondati dalla considerazione di tutta la famiglia, che uscivano dall’armadio soltanto per le solennità; finanziere a grandi falde fluttuanti al vento, con il colletto cilindrico e tasche grandi come sacchi; giacche di panno spesso che di solito si accompagnavano con berretti dalla visiera cerchiata di rame; giacchette cortissime con sul dorso due bottoni ravvicinati come un paio d’occhi e con le falde che sembravano tagliate da un unico blocco dall’ascia di un carpentiere. Qualcuno, certo destinato agli ultimi posti a tavola, indossava delle bluse da cerimonia, cioè con il collo rovesciato sulle spalle, il dorso pieghettato, la vita molto bassa attaccata a una fascia cucita.

Le camicie si gonfiavano sui petti come corazze. Tutti si erano fatti tagliare i capelli per l’occasione e gli orecchi spiccavano staccati dalla testa nel vuoto creato loro intorno.

Qualcuno che si era alzato addirittura prima dell’alba, essendosi rasato al buio, mostrava dei tagli diagonali sotto il naso, oppure, lungo le mascelle, scorticature larghe come uno scudo da tre franchi, che l’aria aveva infiammato durante il viaggio e che ora chiazzavano di rosa tutte quelle larghe e allegre facce smorte.

Il municipio si trovava a mezzo miglio dalla fattoria e tutti ci andarono e tornarono a piedi dopo la cerimonia in chiesa.

Il corteo, dapprima ininterrotto come una sciarpa colorata che ondeggiasse nella campagna lungo lo stretto sentiero serpeggiante in mezzo al grano verde, ben presto si allungò e si spezzettò in diversi gruppi che si attardarono a chiacchierare. In testa veniva il suonatore di violino con lo strumento ornato di nastri legati al riccio, poi gli sposi, i parenti e gli amici disposti a caso; e, dietro a tutti, i bambini che si divertivano a strappare le campanule agli steli dell’avena, o a farsi dispetti senza essere veduti. Il vestito di Emma, un po’ troppo lungo, sfiorava il sentiero; di tanto in tanto ella si fermava, lo tirava su e delicatamente, con le mani guantate, toglieva le pagliuzze e gli aghi dei cardi, mentre Charles, le mani penzoloni, aspettava che avesse finito. Papà Rouault con in capo un cappello a cilindro nuovo e i polsi della marsina nera che gli coprivano le mani fino alle unghie, dava il braccio alla signora Bovary madre. Il signor Bovary padre disprezzava, in fondo al cuore, tutta quella gente; era venuto indossando una semplice finanziera di taglio militare, con una sola fila di bottoni, e snocciolava triviali galanterie a una forosetta bionda, la quale si inchinava, arrossiva e non sapeva cosa rispondere. Gli altri invitati chiacchieravano dei loro affari, si facevano di soppiatto scherzi, per creare in anticipo quell’atmosfera di eccitazione indispensabile alla festa. E, tendendo l’orecchio, era possibile sentire il frin-frin del violinista che continuava a suonare nell’aperta campagna. Questi, quando si accorgeva di essersi lasciato indietro il corteo, si fermava per riprendere fiato, strofinava a lungo l’archetto sulla colofonia affinché le corde vibrassero di più, poi si rimetteva in cammino alzando e abbassando il manico del violino per dargli meglio il ritmo. Il suono dello strumento faceva fuggire lontano gli uccellini.

La tavola era apparecchiata sotto la tettoia dei carri. C’erano quattro lombate di bue, sei fricassee di pollo, un umido di vitello, tre cosciotti arrosto, e, nel mezzo, un bel maialino di latte allo spiedo, circondato da quattro salsicciotti all’acetosella. Negli angoli troneggiavano le bottiglie di acquavite e il sidro dolce, imbottigliato, premeva con la sua spuma densa contro i turaccioli. Tutti i bicchieri erano già stati riempiti di vino fino all’orlo. Grandi piatti di crema gialla tremolavano alla più piccola scossa della tavola e mostravano sulla liscia superficie le iniziali degli sposi novelli tracciate con un sottile arabesco. Era venuto un pasticciere di Yvetot per occuparsi delle torte e dei torroni. Questi si era dato un gran da fare, non essendo conosciuto nel paese, e al dolce servì personalmente una torta decorata che strappò grida di meraviglia. La base era costituita da un cartone quadrato azzurro, raffigurante un tempio con portici, colonnati, statuette di stucco disposte tutto intorno in nicchie costellate di stelle di carta dorata; al secondo ripiano v’era un torrione di pasta di savoiardi circondato da minute fortificazioni di angelica, mandorle, uva passa, spicchi d’arancia; infine sulla piattaforma superiore, costituita da un prato verde con rocce e laghi di marmellata ove navigavano barchette di gusci di nocciole, un Amorino si dondolava su un’altalena di cioccolata i cui pali di sostegno terminavano con due boccioli di rose fresche poste lì sopra a guisa di pomoli.

Continuarono a mangiare fino a sera. Quando erano stanchi di stare seduti, i commensali si alzavano, andavano a passeggiare nei cortili, o a fare una partita al gioco del turacciolo nel granaio, per poi rimettersi a tavola. Verso la fine qualcuno si addormentò e si mise a russare. Ma, arrivati al caffè, tutti si rianimarono: intonarono canti, fecero gare di forza sollevando pesi, passando sotto il proprio pollice, tentando di sollevare i carretti sulle spalle, raccontarono storielle salaci, abbracciarono le proprie dame. Quando giunse il momento di andarsene, la sera, i cavalli, ingozzati di avena fino agli occhi, non entrarono tanto facilmente fra le stanghe; si inalberavano, sgroppavano, rompevano i finimenti. I padroni ridevano e imprecavano, e per tutta la notte, sotto il chiaro di luna, sulle strade della regione, vi furono calessi trascinati al gran galoppo che traballavano nei rigagnoli, sobbalzavano sui mucchi di ciottoli, si fermavano contro le scarpate con le donne che si spenzolavano fuori dei finestrini per afferrare le redini.

Quelli che si erano fermati ai Bertaux trascorsero la notte bevendo, in cucina. I ragazzi si erano addormentati sotto le panche.

La sposa aveva supplicato suo padre perché le fossero risparmiati gli scherzi consueti. Papà Rouault arrivò giusto in tempo per impedire a un cugino pescivendolo, il quale aveva portato come regalo di nozze due sogliole, di soffiare con la bocca un getto d’acqua attraverso la serratura nella camera nuziale. Dovette spiegargli che la posizione di suo genero non consentiva tali sconvenienze. Ma il cugino non si lasciò convincere. Dentro di sé accusava papà Rouault di superbia e infine andò a riunirsi in un angolo a quattro o cinque altri invitati, i quali, essendo loro toccati per caso a tavola, varie volte di seguito, pezzi di carne scadenti, si sentivano maltrattati e mormoravano alle spalle dell’ospite augurandosi con parole velate la sua rovina.

La signora Bovary madre non aveva aperto bocca in tutta la giornata. Non era stata interpellata né sull’abito della nuora né per l’allestimento della festa. Si ritirò presto in camera sua. Il marito, invece di seguirla, mandò a prendere dei sigari a Saint-Victor e fumò fino a giorno, bevendo grog al maraschino, miscuglio sconosciuto alla compagnia che lo fece salire ancora di più nella considerazione altrui.

Charles non aveva un’indole faceta. Durante il banchetto di nozze non aveva brillato affatto. Aveva risposto in modo mediocre ai frizzi, ai giochi di parole, ai doppi sensi, ai complimenti e alle spiritosaggini audaci che tutti si erano fatti un dovere di indirizzargli dall’inizio del pranzo.

Il giorno dopo, in compenso, sembrava un altro uomo. Lo si sarebbe detto la vergine della vigilia, mentre la sposa non lasciava trapelare nulla che consentisse di indovinare alcunché. I più scaltri non sapevano che cosa dire e, quando se la vedevano passare vicino, la osservavano con un interesse fuori di misura. Charles non cercava di dissimulare. La chiamava mogliettina, le dava del tu, chiedeva a tutti di lei, la cercava dappertutto e spesso lo si vedeva di lontano, mentre si tratteneva con lei in giardino fra gli alberi, cingerla con il braccio alla vita e continuare a camminare chinato a metà su di lei, gualcendole con il capo le gale intorno al collo del corsetto.

Gli sposi se ne andarono due giorni dopo le nozze: Charles non avrebbe potuto trascurare più a lungo i suoi malati. Partirono sul barroccino di papà Rouault, che li accompagnò fino a Vassonville. Qui egli abbracciò ancora una volta la figlia, scese e tornò indietro. Ma, fatti un centinaio di passi, si fermò, e, guardando il barroccio che si allontanava con le ruote turbinanti nella polvere, emise un gran sospiro. Ricordava il suo matrimonio, i tempi di una volta, la prima gravidanza della moglie; era stato felice anche lui, il giorno in cui l’aveva condotta dalla casa paterna alla sua, in groppa al cavallo che galoppava nella neve; mancava poco a Natale e la campagna era tutta bianca; ella gli si teneva aggrappata con un braccio, mentre l’altro reggeva un paniere; le lunghe trine dell’acconciatura tipica delle donne di Caux le passavano sulla bocca, agitate dal vento, e quando lui voltava la testa, vedeva sopra la propria spalla il minuto viso roseo che sorrideva in silenzio, sotto la fascia d’oro della cuffia. Per scaldarsi le mani, ogni tanto ella gliele infilava nell’abbottonatura della giacca. Com’era lontano tutto questo! Adesso il loro figliolo avrebbe avuto trent’anni! Si voltò ancora una volta, ma sulla strada non c’era più nessuno. Si sentì triste come una casa vuota; i pensieri neri si mescolarono con i teneri ricordi, nel suo cervello offuscato dai vapori della baldoria, e per un momento sentì il desiderio di andare a fare un giro dalla parte della chiesa. Ma ebbe paura di diventare ancora più malinconico e tornò subito a casa.

Charles e sua moglie arrivarono a Tostes verso le sei. I vicini vennero alle finestre per veder la nuova sposa del medico.

La vecchia governante si presentò, porse loro il benvenuto, si scusò perché la cena non era ancora pronta ed esortò la signora a visitare intanto la casa.

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