Feb 272017
 

Dopo aver dimostrato che il teismo non conviene affatto a un governo repubblicano, mi sembra opportuno provare che non gli convengano neanche i costumi francesi. Questa parte è tanto più importante in quanto proprio i costumi saranno oggetto delle leggi da promulgare.

Francesi, voi siete troppo illuminati per non capire che un nuovo governo ha assoluto bisogno di nuovi costumi; è impossibile che il cittadino di uno Stato libero si comporti come lo schiavo di un re despota, perché la diversità d’interessi, doveri e relazioni determina chiaramente un diverso comportamento in seno al mondo. Così una serie di piccole colpe, di piccoli crimini sociali, ritenuti basilari sotto il governo dei re, che dovevano essere tanto più esigenti quanto più avevano bisogno di imporre dei freni per rendersi rispettabili o irraggiungibili dai propri sudditi, sotto un governo come il nostro diventano nulli. Altri crimini, come il regicidio o il sacrilegio, in uno Stato repubblicano che non conosce più né re né religione, vengono ugualmente annullati. Una volta concessa la libertà di coscienza e di stampa, cittadini, pensate che, tranne pochissimi casi, dovrà essere accordata quella d’azione e che, eccezion fatta per quanto colpisca direttamente le basi del governo, non resta quasi nessun crimine da punire perché, in effetti, esistono pochissime azioni criminose in una società costituita sulle basi di libertà e uguaglianza. Pensando ed esaminando obiettivamente la cosa, non esiste crimine se non in ciò che la legge condanna; infatti la natura ci suggerisce ugualmente vizi e virtù, in ragione del nostro organismo o, più filosoficamente ancora, in ragione del bisogno che essa ha degli uni e delle altre; come tale ciò che essa ci ispira diventerebbe una misura troppo incerta per regolare con precisione il bene e il male. In ogni caso, per illustrare meglio le mie idee su un argomento così importante, classificheremo ora le differenti azioni della vita umana che finora si era convenuto di chiamare criminose e le commisureremo agli autentici doveri di un repubblicano.

I doveri dell’uomo sono stati considerati in ogni tempo sotto i tre diversi rapporti che seguono:

1. quelli che la sua coscienza e la sua incredulità gli impongono verso l’Essere supremo;

2. quelli che deve osservare con i suoi fratelli;

3. quelli che ogni uomo ha con se stesso.

La indiscutibile certezza che nessun dio abbia a che fare con noi e che noi, creature necessarie della natura come le piante e gli animali, siamo al mondo perché era impossibile che non ci fossimo, questa certezza senza dubbio annulla, come si vede, all’istante la prima parte dei doveri, cioè quelli di cui ci crediamo falsamente responsabili verso le divinità; con essi scompaiono tutti i crimini religiosi, tutti quelli noti sotto i nomi vaghi e indefiniti di empietà, sacrilegio, bestemmia, ateismo ecc., tutti quelli insomma, che Atene punì tanto ingiustamente in Alcibiade e la France nello sventurato La Barre.

Se esiste una cosa assurda a questo mondo, è proprio quella di vedere gli uomini che, pur non conoscendo il loro Dio e quel che questo Dio possa esigere se non dalla vaga idea che se ne fanno, pretendono di decidere sulla natura di ciò che appaga o irrita questo ridicolo fantasma della loro immaginazione. Non vorrei dunque che ci si limitasse a permettere indifferentemente tutti i culti; vorrei che si fosse liberi di ridere o di prendere in giro tutti, che gli individui riuniti in un tempio qualunque per invocare a loro modo l’Eterno fossero presi per commedianti su un palcoscenico e che, vedendoli recitare, chiunque potesse farci sopra due risate. Se non considererete le religioni in questo modo, esse riprenderanno quell’aspetto di serietà che le rende importanti, proteggeranno ben presto le opinioni e appena torneranno a galla dispute sulle religioni si finirà anche per battersi in difesa di queste; l’uguaglianza distrutta dalla preferenza o dalla protezione concessa a una di esse scomparirà ben presto dal governo, e dalla riedificata teocrazia rinascerà quanto prima l’aristocrazia. Dunque, non lo ripeterò mai abbastanza: non più dèi, Francesi, non più dèi, se non volete che il loro funesto dominio vi ripiombi rapidamente in tutti gli orrori del dispotismo! E li distruggerete solo ridicolizzandoli; se li prenderete sul serio e darete loro importanza, che schiera di pericoli rinascerà subito appresso a essi! Non abbattete con collera i loro idoli: riduceteli in polvere scherzandoci sopra, e la credenza svanirà da sola.

Credo che sia sufficiente a dimostrare che non occorre promulgare alcuna legge contro i crimini religiosi, perché chi offende un fantasma, non offende nulla, e sarebbe estremamente incoerente punire coloro che oltraggino o disprezzino un culto di cui nulla vi dimostra indiscutibilmente la priorità sugli altri; vorrebbe dire adottare un partito e influenzare così la bilancia dell’uguaglianza, prima legge del vostro nuovo governo.

Passiamo alla seconda categoria dei doveri dell’uomo, quelli che lo legano ai suoi simili; essa è indiscutibilmente la più estesa.

La morale cristiana, troppo vaga sui rapporti dell’uomo con i suoi simili, pone basi così sofistiche che ci è impossibile ammetterle; infatti, quando si vogliono edificare dei principii, ci si deve ben guardare dal porvi come base dei sofismi. Da essa deriva quella morale assurda di amare il nostro prossimo come noi stessi. Nulla certo sarebbe più sublime se fosse possibile che quanto è falso potesse avere un’impronta di bellezza. Non dobbiamo amare i nostri simili come noi stessi, perché sarebbe in contrasto con le leggi della natura, il cui codice deve invece guidare tutte le azioni della nostra vita; dobbiamo amare piuttosto i nostri simili come fratelli, come amici che la natura ci dà, e con i quali dobbiamo vivere tanto meglio in uno Stato repubblicano in quanto la scomparsa di distanze deve di conseguenza stringere i legami.

L’umanità, la fraternità, la beneficenza ci prescrivano quindi i nostri reciproci doveri, e ognuno li adempia con quel poco di energia che la natura ci ha fornito appositamente, senza biasimare e soprattutto senza punire quanti, più freddi o più atrabiliari, non trovino in certi legami, pur così commoventi, tutte le dolcezze che altri v’incontrano. Infatti bisogna ammettere che voler prescrivere in proposito delle leggi universali sarebbe di una evidente assurdità; sarebbe un procedimento ridicolo quanto quello di un generale che pretendesse che tutti i suoi soldati fossero vestiti con un’uniforme della medesima taglia. È un’ingiustizia spaventosa pretendere che uomini di carattere diverso si assoggettino a leggi uguali; quanto va bene a uno non va bene a un altro.

Ammetto che non si possano emanare tante leggi quanti sono gli uomini; ma le leggi possono essere così miti e in così piccolo numero che tutti gli uomini, indipendentemente dal loro carattere, possano facilmente piegarvisi. E per di più vorrei che questo piccolo numero di leggi fosse tale da potersi adattare facilmente a tutti i diversi caratteri; dipenderà poi dall’intelligenza di chi li amministra colpire più o meno, in rapporto all’individuo da condannare. È dimostrato che esistono virtù dalla pratica impossibile per alcuni individui, come anche rimedi sconvenienti a certi temperamenti. Ora, sarebbe il colmo dell’ingiustizia usare la legge contro colui che non potesse piegarsi alla legge! Non commettereste forse un’iniquità simile a quella di cui sareste colpevoli se voleste costringere un cieco a distinguere i colori? Da questi primi principii deriva, è chiaro, la necessità di fare leggi miti e soprattutto di abolire per sempre l’atrocità della pena di morte, perché la legge che attenta alla vita di un uomo è impraticabile, ingiusta, inammissibile. Esistono infiniti casi in cui, come spiegherò fra breve, senza oltraggiare la natura (e lo dimostrerò), gli uomini hanno avuto dalla loro madre comune l’assoluta libertà di attentare alla vita altrui, ma è impossibile che la legge possa avere lo stesso privilegio, perché la legge, fredda di per se stessa, non riuscirebbe a compenetrare quelle passioni che rendono legittima nell’uomo la crudele azione dell’omicidio. L’uomo infatti riceve dalla natura gli impulsi che possono fargli perdonare quell’azione, mentre la legge sempre in opposizione alla natura e non ricevendo nulla da essa, non può esser autorizzata a permettersi le stesse licenze: non avendo gli stessi motivi, è impossibile che abbia gli stessi diritti. Queste sono distinzioni sapienti e sottili che a molti individui sfuggono, perché pochissimi riflettono; ma esse saranno accolte dalle persone colte alle quali mi rivolgo e influiranno, spero, sul nuovo Codice che si sta preparando.

Il secondo motivo per cui deve essere abolita la pena di morte è che essa non ha mai represso un crimine, dato che lo si commette ogni volta ai piedi del patibolo. Si deve sopprimere questa pena, insomma, perché non esiste calcolo più malvagio di quello di far morire un uomo perché ha ucciso un altro; in questo modo, invece di un uomo in meno, tutt’a un tratto ce ne sono due in meno, aritmetica, questa, che può andar bene solo per i boia e gli imbecilli.

In ogni caso, i crimini che possiamo commettere contro i nostri fratelli si riducono a quattro principali: la calunnia, il furto, quelli derivanti dalla libidine, che possono colpire spiacevolmente gli altri, e l’omicidio. Tutte queste azioni, considerate come capitali sotto un governo monarchico, sono altrettanto gravi in uno Stato repubblicano? È quanto esamineremo alla luce della filosofia, unico metodo con cui intraprendere un esame del genere. Non mi si accusi di essere un pericoloso innovatore; non mi si dica che è rischioso attenuare il rimorso nell’anima dei malfattori, come forse faranno questi scritti, o che è un male gravissimo aumentare con la mitezza della mia morale la tendenza che certi malfattori hanno per il crimine. Io affermo qui formalmente di non avere alcuna di queste perverse intenzioni; espongo soltanto le idee che si sono identificate in me dall’età della ragione e al sorgere delle quali l’infame dispotismo dei tiranni si è opposto per tanti secoli. Tanto peggio per quelli che potrebbero corrompere queste grandi idee! Tanto peggio per quelli che sanno vedere soltanto il male nelle opinioni filosofiche, così suscettibili di esser corrotti da tutto! E chi ci dice che non ci depraverebbero anche con la lettura di Seneca o di Charron? Ma io non mi rivolgo a loro; mi rivolgo solo a persone capaci di capirmi, e queste potranno leggermi senza alcun pericolo.

Con la più estrema franchezza confesso che non ho mai creduto che la calunnia fosse un male, e soprattutto in un governo come il nostro, in cui tutti gli uomini più uniti, più vicini, hanno logicamente maggior interesse a conoscersi bene. I casi sono due: o la calunnia è rivolta a un uomo veramente perverso o a un virtuoso. Nel primo caso è pressappoco indifferente che si dica un po’ più di male su di un uomo noto per farne molto; può anche darsi che il male inesistente faccia luce su quello esistente, e in questo modo il malfattore sarà conosciuto meglio.

Se, per esempio, a Hannover circola aria malsana e io, esponendomi all’inclemenza di quel clima, corressi il grosso rischio di prendermi un accesso febbrile, me la dovrei prendere con chi, per impedirmi di andarci, mi avesse detto che si muore appena arrivati là? Certamente no; infatti spaventandomi per un gran male, egli mi ha impedito di provarne uno piccolo. Quando invece una calunnia cade su un uomo virtuoso, egli non deve allarmarsi; mostri la propria virtù, e tutto il veleno del calunniatore ricadrà su se stesso. Per certe persone la calunnia non è che una prova epuratrice dalla quale la loro virtù esce ancor più splendente. Anche di qui deriva un profitto per la massa delle virtù della repubblica, perché quest’uomo virtuoso e sensibile, punto dall’ingiustizia subita, ce la metterà tutta per comportarsi sempre meglio; vorrà superare la calunnia dalla quale si riteneva al sicuro, e le sue belle azioni, acquisteranno in pratica un maggior grado di energia. Così, nel primo caso, il calunniatore avrà prodotto effetti complessivamente buoni, ingrandendo i vizi dell’uomo pericoloso; nel secondo gli effetti saranno eccellenti, perché la virtù sarà costretta a rivelarsi a noi completamente. A questo punto io domando in che caso il calunniatore possa apparirvi temibile, soprattutto in un governo in cui è essenziale conoscere i malvagi e accrescere l’energia dei buoni! Guardiamoci bene dall’infliggere una pena contro la calunnia; consideriamola sotto il duplice aspetto di un fanale e di uno stimolante e, in ogni caso, come qualcosa di utilissimo. Il legislatore, che deve avere una mentalità vasta quanto l’opera cui si applica, non deve mai badare agli effetti del diritto che colpisca solo individualmente; egli deve tener presente gli effetti sulla massa e, nel caso di quelli derivanti dalla calunnia, lo sfido a trovarci qualcosa di punibile! Lo sfido a saper dare qualche parvenza di giustizia alla legge che dovrebbe punirla! Ma piuttosto, se la favorisce o la premia, si rivelerà l’uomo più giusto e retto.

Il furto è il secondo dei crimini morali che ci siamo proposti di esaminare.

Se diamo uno sguardo ai tempi antichi, vediamo che il furto era permesso e ricompensato in tutte le repubbliche della Grecia; Sparta o Lacedemone lo favoriva apertamente; qualche altro popolo l’ha considerato una vera e propria virtù bellica. È indiscutibile che esso alimenta il coraggio, la forza, la scaltrezza, tutte quelle virtù, insomma che sono utili a un governo repubblicano e quindi al nostro. Io vorrei sapere, a questo punto, obbiettivamente se il furto, il cui effetto è quello di livellare le ricchezze, sia un gran male in un governo che ha come fine l’uguaglianza. No, senza dubbio; infatti se da un lato favorisce l’uguaglianza, da un altro stimola a una maggiore custodia dei propri beni. C’era un popolo che puniva non il ladro, ma colui che si era lasciato derubare perché imparasse ad aver cura delle sue proprietà. Questo ci porta a più ampie riflessioni.

Dio non voglia che mi metta ad attaccare o distruggere in questa sede il giuramento di rispetto della proprietà, che è stato appena pronunciato dalla nazione; ma potrò permettermi alcune osservazioni sull’ingiustizia di questo giuramento? Qual è lo spirito di un giuramento pronunziato da tutti gli individui di una nazione? Non è forse quello di mantenere una perfetta uguaglianza tra i cittadini, sottomettendoli tutti ugualmente alle legge protettrice della proprietà di tutti? E allora vi domando se vi sembra giusta la legge che ordina a chi non ha niente di rispettare colui che ha tutto! Su quali elementi si basa il patto sociale? Non consiste forse nel cedere un poco della libertà e delle proprietà personali per assicurare e mantenere quanto si conserva dell’uno e dell’altra?

Tutte le leggi si fondano su queste basi; esse sono i motivi delle pene inflitte a chi abusa della sua libertà. Inoltre esse autorizzano le imposte; questo fa sì che un cittadino non si lamenti quando queste vengono attuate, perché egli sa bene che in questo modo riesce a mantenere quanto gli resta; ma, anche in questo caso, su quale diritto colui che non ha niente sarà schiavo di un patto che protegge solo chi ha tutto? Se fate un’azione di equità conservando le proprietà del ricco, grazie a un simile giuramento, non vi pare che compite un’ingiustizia imponendo questo giuramento al «conservatore» che non ha nulla? Cosa interessa a costui il vostro giuramento? Perché volete che prometta una cosa favorevole esclusivamente a chi è così diverso da lui grazie alle sue ricchezze? Certamente non esiste nulla di più ingiusto; un giuramento deve avere un effetto uguale su tutti gli individui che si pronunciano; è impossibile che possa obbligare a mantenerlo chi non ne trae alcun interesse, altrimenti non sarebbe più il patto di un popolo libero, ma l’arma del forte sul debole, e quest’ultimo dovrebbe continuamente rivoltarsi contro l’altro. E tutto questo si verifica appunto nel giuramento di rispetto della proprietà che ora la nazione esige; ma così il ricco fa suo schiavo il povero, quel ricco che è l’unico ad avere un interesse per questo giuramento estorto alla buona fede del povero, perché questi lo pronuncia sconsideratamente senza rendersi conto che egli s’impegna a compiere una cosa che non potrà mai essere reversibile per lui stesso.

Convinti, come dovete esserlo, che si tratta di una barbara inuguaglianza, non aggravate la vostra ingiustizia punendo chi non ha nulla per aver osato togliere qualcosa a chi possiede tutto; il vostro iniquo giuramento gliene dà diritto più che mai. Costringendo allo spergiuro con questo giuramento assurdo, voi legittimate tutti i crimini a cui esso possa condurre; perciò non avete più diritto di punire quello di cui siete stati la causa. Non aggiungerò altro per dimostrare quale orribile crudeltà sia punire i ladri. Imitate la legge sapiente del popolo a cui accennavo in precedenza: punite l’uomo che è stato tanto negligente da farsi derubare, ma non pronunciate nessun tipo di pena contro colui che lo deruba; pensate che il vostro giuramento lo autorizza a questa azione e che, commettendola, ha soltanto seguito il primo e il più saggio impulso di natura, quello di mantenere la propria esistenza, a spese di chiunque.

I crimini da esaminare in questa seconda categoria dei doveri dell’uomo verso i propri simili consistono in quelle azioni in cui potrà portare il libertinaggio, tra le quali particolarmente risaltano, per essere quelle che maggiormente attentano a quanto ciascuno deve agli altri, la prostituzione, l’adulterio, l’incesto, lo stupro e la sodomia. Non dobbiamo dubitare un istante che tutto quel che è chiamato crimine morale, cioè ogni azione che abbiamo citato, non sia assolutamente indifferente per un governo che ha l’unico dovere di conservare, con qualsiasi mezzo, la forma essenziale del proprio mantenimento; questa è l’unica morale di un governo repubblicano. Ora, poiché è sempre contrastato dai despoti che lo circondano, evidentemente non si può credere che i suoi mezzi di conservazione siano mezzi morali; infatti si conserverà solo con la guerra, e niente è meno morale della guerra. E io mi domando come si riuscirà a dimostrare che, in uno Stato immorale per i suoi obblighi, si riveli essenziale che gli individui siano morali. E dirò di più; è bene che non lo siano affatto. I legislatori dell’antica Grecia avevano intuito perfettamente l’importante necessità di corrompere i membri della nazione affinché, con l’influenza della loro dissoluzione morale su quella utile al meccanismo, ne risultasse sempre indispensabile l’insurrezione in un governo che, perfettamente felice come quello repubblicano, deve necessariamente suscitare l’odio e la gelosia di tutto quanto lo circonda. L’insurrezione, pensavano quei saggi legislatori, non è affatto uno stato morale, eppure deve essere lo stato permanente di una repubblica; quindi sarebbe assurdo, nonché pericoloso, esigere che coloro i quali devono mantenere il perpetuo sconvolgimento immorale del meccanismo siano essi stessi degli esseri immoralissimi, perché lo stato morale di un uomo è quello di pace e tranquillità, mentre il suo stato immorale è quello di moto perpetuo che lo avvicina alla necessaria insurrezione, in cui il repubblicano deve mantenere sempre il governo di cui è membro.

Passiamo ai particolari, incominciando dall’analisi del pudore, questo pusillanime moto in netto contrasto con gli affetti impuri. Se la natura volesse che l’uomo fosse pudico, certamente non l’avrebbe fatto nascere nudo; moltissimi popoli, meno degradati di noi dalla civiltà, vanno nudi senza provare alcuna vergogna; non c’è dubbio che l’usanza di vestirsi ha avuto come origine soltanto l’inclemenza del clima e la civetteria delle donne. Esse capirono che avrebbero ben presto perduto tutti gli effetti del desiderio se li avessero prevenuti invece di lasciarli nascere e che, non avendole la natura create senza difetti, si sarebbero assicurate molto meglio ogni mezzo di piacere mascherando quei difetti con delle acconciature. Insomma, il pudore lungi dall’essere una virtù, fu anzi uno dei primi effetti della corruzione, uno dei primi mezzi della civetteria femminile. Licurgo e Solone, convinti che le conseguenze dell’impudicizia mantengono i cittadini nello stato immorale essenziale alle leggi del governo repubblicano, obbligarono le fanciulle a mostrarsi nude in teatro. Roma ben presto imitò questo esempio: ai giochi di Flora si danzava nudi; la maggior parte dei misteri pagani si celebrava così; presso alcuni popoli la nudità fu considerata anche una virtù. In ogni caso, dall’impudicizia nascono le tendenze lussuriose, e da certe tendenze prendono forma i pretesi crimini che stiamo analizzando, primo fra tutti la prostituzione. Ma ormai ci siamo ricreduti su certe cose, mettendo da parte tutti quegli errori religiosi che ci possedevano, e siamo più vicini alla natura grazie a tutti i pregiudizi annientati, ascoltiamo soltanto la sua voce; infatti siamo sicuri che, se ci fosse qualcosa di male, questo consisterebbe nel resistere alle tendenze ispirateci dalla natura e non nell’accondiscerle: la lussuria non è una conseguenza di queste tendenze, e quindi non dobbiamo tanto spegnere in noi questa passione quanto regolarne i mezzi per soddisfarla in pace. Dobbiamo insomma darci da fare per mettere ordine in questo campo, per stabilirvi tutta la necessaria sicurezza affinché il cittadino, spinto dalla necessità agli oggetti della lussuria, si dedichi con questi a quanto le sue passioni gli suggeriscono, senza sentirsi vincolato da qualcosa, perché non esiste passione nell’uomo che abbia maggior bisogno della più completa libertà. Nelle città saranno costruiti vari edifici sanitari, vasti, ben arredati e sicuri da tutti i punti di vista; là creature di ogni età e sesso saranno offerte ai capricci dei libertini che desiderino il piacere, ed esse per regola dovranno essere sottomesse a loro nel senso più assoluto, tanto che il minimo rifiuto verrà punito immediatamente ad arbitrio di colui al quale sarà stato rivolto. Mi spiegherò meglio su questo punto, valutandolo in base ai costumi repubblicani; ho promesso per ogni argomento la stessa logica e manterrò la parola.

Se, come ho appena detto, nessuna passione più di questa ha bisogno della più completa libertà, nessuna peraltro è altrettanto dispotica; è in essa che l’uomo ama farla da padrone, essere obbedito, circondarsi di schiavi costretti a soddisfarlo. Orbene, ogni volta che non darete all’uomo il mezzo per buttar fuori quella dose di dispotismo che la natura mette nel fondo del suo cuore, egli per esercitarlo si sfogherà su quanto lo circonda e disturberà il governo. Se volete evitare questo pericolo, permettete un libero sfogo a questi desideri tirannici che lo tormentano senza tregua suo malgrado; contento di aver potuto esercitare il suo piccolo dominio in un harem di paggi e odalische, di cui è padrone grazie alle vostre cure e al suo denaro, egli sarà soddisfatto e senza avere il minimo desiderio di rovesciare un governo che gli assicura con tanta compiacenza tutti i mezzi per placare la sua concupiscenza. Se invece vi comporterete diversamente, imponendo su questi oggetti di lussuria i ridicoli divieti già escogitati dalla tirannia ministeriale e dalla lubricità dei nostri Sardanapali, vedrete come l’uomo irritato contro il vostro governo e geloso del dispotismo che voi usate in esclusiva, scuoterà il giogo che gli imponete e, stanco del vostro modo di governare, imporrà un altro mutamento come ha appena fatto.

Considerate come i legislatori greci, che avevano assimilato bene certe idee, trattavano la dissolutezza a Lacedemone e ad Atene; ne inebriavano il cittadino, ben lontani dal proibirgliela; nessun genere di lubricità era proibita, e Socrate, proclamato dall’oracolo il filosofo più saggio della terra, passando indifferentemente dalle braccia di Aspasia e di Alcibiade, non per questo era sminuito come gloria della Grecia. Andrò oltre, e per quanto le mie idee possano essere contrarie ai nostri costumi attuali, in nome dello scopo che mi sono prefisso di dimostrare, e cioè che dobbiamo sbrigarci a cambiare certi costumi, se vogliamo mantenere il governo adottato, cercherò di convincervi che la prostituzione delle donne che vanno sotto il nome di oneste non è più pericolosa di quella degli uomini, e che non soltanto dobbiamo associarle alla lussuria esercitata nelle case di cui ho detto, ma dobbiamo anche costruirne per loro, affinché esse possano soddisfare con tutti i sessi capricci e bisogni del loro temperamento, che è ben più ardente del nostro.

Con quale diritto innanzitutto pretendete che le donne siano esenti dalla cieca sottomissione ai capricci degli uomini come la natura prescrive loro? E in secondo luogo, con quale diritto pretendete di asservirle a una continenza impossibile per il loro fisico e assolutamente inutile per il loro onore?

Tratterò separatamente l’una e l’altra questione. È certo che nello stato di natura le donne nascono vulgivaghe, cioè in grado di godere i vantaggi tipici degli altri animali femmina, e appartenenti, come quelli e senza eccezione alcuna, a tutti i maschi; queste furono indiscutibilmente le originali leggi di natura e le uniche istituzioni della prima associazione formata dagli uomini. L’interesse, l’egoismo e l’amore degradarono quei primi istinti piuttosto meschini, anche se naturali; si pensò di arricchirsi prendendo una donna e con essa i beni della sua famiglia, e furono soddisfatti i due primi sentimenti sopra indicati; ancor più spesso la donna fu rapita e ci si affezionò a lei, e si mise in pratica il secondo motivo anche se, in ogni caso, si attuò un’ingiustizia.

Non si può mai esercitare un atto di possesso su un essere libero; sullo stesso piano possedere una donna è ingiusto quanto possedere gli schiavi. Tutti gli uomini sono nati liberi, tutti hanno uguali diritti; non perdiamo mai di vista questi principii! Sulla base di essi non può esser dato a un sesso il diritto legittimo di impadronirsi in esclusiva dell’altro, e mai uno di questi sessi o una di queste classi può possedere l’altra arbitrariamente. Nella purezza delle leggi di natura una donna non può giustificare il rifiuto posto a chi la desidera con l’amore che ha per un altro, perché si tratta di un motivo di esclusione e nessun uomo può essere escluso dal possesso di una donna, essendo evidente che ella appartiene indubbiamente a tutti gli uomini. L’atto di possesso può essere esercitato soltanto su un immobile o su animale, mai su un nostro simile, e tutti i legami che possono incatenare una donna a un uomo, di qualunque specie li supponiate, sono tanto ingiusti quanto chimerici.

Se dunque è incontestabile che noi abbiamo ricevuto dalla natura il diritto di esprimere i nostri desideri indifferentemente a tutte le donne, è fuori discussione anche il diritto che abbiamo di poterle obbligare a sottomettersi a quei desideri, e non in esclusiva, il che sarebbe una contraddizione, ma momentaneamente. È incontestabile infatti che è nostro diritto stabilire delle leggi che le costringano a cedere alla passione di chi le desidera; e possiamo usare legalmente la violenza stessa, perché essa è un effetto del nostro diritto. La natura non ha forse dimostrato che esso ci spettava, dal momento che ci ha concesso la forza necessaria per sottometterle a noi?

Invano dunque le donne possono invocare in loro difesa il pudore o l’attaccamento ad altri uomini; sono espedienti chimerici di nessun valore. Già abbiamo visto come il pudore fosse un sentimento artificioso e da disprezzare; l’amore, che può essere definito la follia dell’anima, non ha più titoli del precedente per giustificare la fedeltà di una donna: non soddisfacendo che due individui, l’amante e l’amato, non può servire alla felicità degli altri, mentre le donne ci sono state date per la felicità di tutti e non per una felicità egoista e privilegiata. Tutti gli uomini hanno quindi un diritto di godimento uguale su tutte le donne; non c’è nessun uomo che per legge di natura possa arrogarsi un diritto unico e personale sopra una donna. La legge che le obblighi a prostituirsi finché noi vogliamo nelle case di piacere di cui ho detto, che le costringa in caso di un loro rifiuto, e che le punisca in caso di inadempimento, è quindi una legge molto equa e contro la quale non potrebbe essere sollevata alcuna opposizione legittima e giusta.

Un uomo che voglia godere di una donna o di una fanciulla qualsiasi, potrà dunque, se le leggi da voi emanate sono giuste, imporle di trovarsi in una delle case di cui vi ho detto e là, sotto la salvaguardia delle matrone di quel tempio di Venere, gli verrà consegnata perché soddisfi, con umiltà e sottomissione, tutti i capricci che a lui piacerà di togliersi con lei, per quanto bizzarri o irregolari possano essere, perché tutti sono naturali, tutti sono concessi dalla natura. A questo punto bisognerebbe fissare l’età; ma io sostengo che questo non può esser fatto senza intralciare la libertà di chi desideri godere di una fanciulla indipendentemente dalla sua età. Chi ha il diritto di mangiare il frutto di un albero può certamente prenderlo quando è maturo ma anche quando è acerbo, secondo il proprio gusto. Mi si obbietterà che c’è un’età in cui il traffico con gli uomini nuoce decisamente alla salute di una fanciulla. Mi sembra una considerazione insignificante; se mi concedete il diritto di proprietà sul godimento, questo diritto è indipendente dagli effetti che il godimento possa produrre; concesso quel diritto è indifferente se il godimento sia vantaggioso o nocivo all’oggetto che deve sottomettersi. Non ho già dimostrato che è legale costringere la volontà della donna a ciò? Dal momento che ispira il desiderio di un godimento, non deve ella sottomettersi automaticamente, mettendo da parte ogni sentimento egoista? Lo stesso discorso vale per la salute. Dato che riguardi usati per tale considerazione distruggono o attenuano il godimento di chi desidera una donna e ha il diritto di appropriarsene, questa considerazione non ha ragion d’essere, qui non interessa minimamente quanto possa provare l’oggetto condannato dalla natura e dalla legge all’appagamento momentaneo dei desideri dell’altro; qui interessa soltanto cosa convenga a colui che ha quei desideri. Ma ristabiliremo anche l’equilibrio.

Certamente, lo ristabiliremo, ed è un nostro dovere; queste donne che abbiamo così crudelmente asservito, dobbiamo risarcirle, non c’è dubbio; questa sarà la risposta al secondo quesito che mi sono proposto.

Se ammettiamo, come abbiamo fatto, che tutte le donne devono sottomettersi ai nostri desideri, dobbiamo permettere anche a loro di soddisfar completamente i propri; le nostre leggi devono apertamente favorire il loro temperamento di fuoco. È assurdo aver posto il loro onore e la loro virtù nella forza antinaturale che esse usano per resistere alle tendenze ricevute più abbondantemente da noi; e questa ingiustizia dei nostri costumi è ancor più stridente perché noi ci autorizziamo a renderle deboli con la seduzione e a punirle appena cedono a tutti gli sforzi da noi compiuti per spingerle a cadere. Mi sembra che in simile atrocità iniqua si rifletta tutta l’assurdità dei nostri costumi, e questo argomento dovrebbe essere sufficiente a farci sentire l’estremo bisogno che abbiamo di sostituirli con altri più puri. Dico dunque che le donne avendo ricevuto tendenze per i piaceri della lussuria ben più violente delle nostre, potranno dedicarvisi quanto vogliono, completamente libere da ogni legame del matrimonio, da ogni falso pregiudizio di pudore, restituite in tutto e per tutto allo stato di natura. Voglio che le leggi concedano loro di darsi a quanti uomini vorranno; voglio che sia loro permesso il godimento di tutti i sessi e di tutte le parti del corpo, come per gli uomini; e fermo restando la clausola di concedersi a tutti coloro che le desiderano, bisogna che anche loro abbiano la libertà di godere ugualmente di tutti quelli che giudicheranno degni di soddisfarle.

Che pericoli ci sono, domando io, in questa licenza? Dei bambini che non avranno un padre? Ma che importa questo in una repubblica in cui tutti gli uomini non devono avere altra madre se non la patria, in cui tutti gli uomini che nascono sono ugualmente figli della patria? Ah, quanto l’ameranno di più quelli che, avendo conosciuto soltanto lei, sapranno fin dalla nascita come soltanto da lei debbano attendersi tutto! Non sarete mai dei buoni repubblicani finché terrete isolati nelle famiglie i bambini; essi devono appartenere soltanto alla repubblica! In famiglia, abituandosi a dare solo a qualche individuo quell’affetto che dovrebbero elargire a tutti i loro fratelli, essi cadono logicamente nei pregiudizi così pericolosi di certi individui; finiscono per avere opinioni isolazionistiche, idee particolari, e tutte le virtù di un uomo di Stato sono per loro completamente inaccessibili. Abbandonando poi tutto il loro cuore a quelli che li hanno fatti nascere, non trovano più in esso alcun sentimento di affetto per quella che deve mantenerli in vita, farli conoscere e istruirli, come se certi benefici secondi nel tempo non fossero più importanti dei primi! Se esiste un grandissimo inconveniente nel permettere che dei fanciulli succhino in tal modo dalle loro famiglie interessi spesso tanto diversi da quelli della patria, grandissimo sarà allora il vantaggio nell’allontanarli dalle famiglie; e i mezzi che vengo proponendo non li separano già naturalmente? Considerando ormai nulli i legami del matrimonio, dai piaceri della donna nascono come frutti soltanto bambini ai quali è assolutamente impedito di conoscere il padre e, di conseguenza, anche la possibilità di non appartenere a una stessa famiglia invece di essere, come è ben che siano, unicamente figli della patria.

Dunque vi saranno case destinate al libertinaggio delle donne e, come quelle degli uomini, sotto la protezione del governo; là saranno loro forniti tutti gli individui dell’uno e dell’altro sesso che esse potranno desiderare, e più frequenteranno queste case più saranno stimate. Non esiste nulla di più barbaro e ridicolo dell’aver legato l’onore e la virtù delle donne alla resistenza che esse oppongono ai desideri ricevuti dalla natura e riscaldati senza tregua proprio da quelli che sono tanto barbari da condannarle. Fin dalla più tenera età una fanciulla, libera dai vincoli paterni, senza più nulla da conservare intatto per il matrimonio (completamente abolito dalle leggi sapienti che io desidero) al di là di ogni pregiudizio che incatenava al passato il suo sesso, potrà dunque abbandonarsi a quanto le detterà il suo temperamento nelle case a tal scopo fondate; vi sarà accolta con rispetto, soddisfatta a profusione, e tornando in società, potrà parlare apertamente dei piaceri gustati come oggigiorno fa di un ballo o di una passeggiata. Sesso incantevole, sarai libero! Godrai come gli uomini di tutti i piaceri che per natura sono un dovere, e senza alcuna limitazione! La parte più divina dell’umanità deve forse ricevere sempre catene dall’altra? Ah, spezzatele! La natura lo esige! Non abbiate altro freno se non quello delle vostre inclinazioni, altre leggi se non i vostri stessi desideri, altra morale se non quella della natura! Non avvizzite in certi pregiudizi barbari che facevano appassire delle vostre grazie e bloccavano gli slanci divini del vostro cuore! Voi siete libere come noi, quindi non dovete temere più certi assurdi rimproveri, perché pedanteria e superstizione sono annullate. Non vi vedremo più arrossire dei vostri piacevoli traviamenti: incoronate di mirti e di rose, vi stimeremo proprio secondo la portata di quelli a cui vi sarete concesse.

Questo discorso dovrebbe certamente dispensarci dall’esaminare l’adulterio, tuttavia diamogli uno sguardo, anche se in rapporto alle leggi che ho proposto non sarà considerato un crimine. È veramente ridicolo che nelle nostre antiche istituzioni lo si considerasse tale! Se c’è qualcosa di assurdo a questo mondo, è proprio l’indissolubilità dei legami matrimoniali! Credo che sarebbe sufficiente esaminare o provare tutto il peso di questi legami per ritenere più un crimine l’azione tendente ad alleviarli; se la natura, come si è detto, ha fornito le donne di un temperamento più ardente e di una sensibilità più profonda di quanto non abbia fatto con gli individui dell’altro sesso, il giogo di un matrimonio indissolubile risultava senza dubbio per loro più gravoso. Donne tenere e accese dal fuoco dall’amore, prendetevi adesso la rivincita senza timore! Convincetevi che non c’è niente di male nel seguire gli impulsi della natura e che la natura non vi ha create per un uomo solo, ma per piacere a tutti indifferentemente! Nessun freno vi trattenga! Imitate le repubblicane della Grecia; i legislatori che diedero loro delle leggi non pensarono mai di ritenere l’adulterio un crimine, e quasi tutti autorizzarono il traviamento delle donne. Tommaso Moro nella sua Utopia, attesta che è vantaggioso per le donne darsi alla dissolutezza, e le idee di questo grande uomo non erano sempre sogni.

Presso i Tartari più una donna si prostituiva e più era onorata; ella portava pubblicamente al collo i segni della sua impudicizia e quelle che non erano decorate in tal modo non erano stimate affatto. A Pegu le famiglie stesse consegnano le loro donne o figlie agli stranieri di passaggio; vengono noleggiate a tanto al giorno, come cavalli o carrozze! Insomma non basterebbero dei volumi per dimostrare che la lussuria non fu mai considerata un crimine da alcun popolo saggio di questo mondo. Tutti i filosofi sanno bene che solo per colpa dei cristiani impostori essa è classificata tra i crimini. E i preti, ostacolandoci la strada, ne avevano ben motivo; questa raccomandazione, riservando loro la conoscenza e l’assoluzione di segreti peccati, li dotava di un piacere incredibile sulle donne e apriva loro una strada di lubricità d’illimitata estensione. Ed è risaputo come essi ne abbiano approfittato e come ancora ne abuserebbero se questo loro credito non fosse irrimediabilmente perduto.

L’incesto è forse più dannoso? Certamente no. Esso allarga i legami della famiglia e, in conseguenza, rende più partecipe l’amore dei cittadini per la patria; ci è dettato dalle prime leggi della natura, lo sentiamo tutti, e il godimento degli oggetti che ci appartengono ci appare sempre più piacevole. Le prime istituzioni favoriscono l’incesto, e lo troviamo all’origine dei gruppi sociali, consacrato da tutte le religioni, favorito da tutte le leggi. Se facciamo poi un giro per il mondo, troviamo l’incesto ovunque fiorente. I negri della Costa del Pepe e del Rio Gabon prostituiscono le loro donne ai loro stessi figli; nel regno di Giuda il figlio maggiore deve sposare la donna di suo padre; in Cile si va a letto indifferentemente con una sorella o una figlia, e ci si sposa spesso sia con la madre che con la figlia. Insomma oso affermare che l’incesto dovrebbe esser concesso per legge da un governo fondato sulla fraternità. Uomini ragionevoli come hanno fatto a essere così assurdi da credere che possa essere un crimine godere della propria madre, sorella o figlia! Ma non è un pregiudizio abominevole, mi domando, considerare criminale l’uomo che scelga per proprio piacere l’oggetto al quale il sentimento della natura lo fa sentire più legato? Tanto vale dire che ci è vietato di amare troppo gli individui che la natura ci impone di amare di più, e che essa più ci inculca propensione verso un oggetto, più ci impone nello stesso tempo di allontanarcene! Sono divieti assurdi! Soltanto popoli abbrutiti dalla superstizione possono prestarvi fede o adottarli! Visto che la comunanza delle donne da me proposta comporta necessariamente l’incesto, c’è poco da aggiungere su un preteso crimine la cui inesistenza è fin troppo evidente perché io vi insista ancora. E passeremo allo stupro che, a prima vista, tra gli eccessi del libertinaggio appare quello che innegabilmente comporta una vera lesione, dato l’oltraggio che sembra arrecare. Tuttavia è certo che lo stupro, azione rarissima e difficile a essere provata, procura al prossimo un torto minore del furto, perché quest’ultima usurpa una proprietà che l’altra invece si contenta di deteriorare. D’altronde cosa potreste obiettare allo stupratore che vi rispondesse che il male da lui compiuto è in pratica piuttosto mediocre, perché egli si è limitato a mettere un po’ prima l’oggetto di cui ha abusato nell’identica condizione in cui l’avrebbe ben presto messo il matrimonio o l’amore?

Ma la sodomia, quel preteso crimine che attirò il fuoco del cielo sulle città che vi erano dedite, è proprio quel traviamento mostruoso per il quale nessuna punizione sarà mai abbastanza severa? È veramente doloroso per noi dover rinfacciare ai nostri antenati gli omicidi giudiziari che si sono permessi a questo riguardo. Come si fa a essere così barbari da osare condannare a morte un poveraccio che ha la sola colpa di non condividere i nostri gusti? È agghiacciante pensare che neanche quarant’anni fa l’assurdità dei legislatori arrivava ancora a tanto! Consolatevi, cittadini; certe assurdità non si verificheranno più: ve lo garantisce la saggezza dei vostri legislatori. Questa debolezza di alcuni appare ormai nella sua giusta luce; un errore del genere non può essere ritenuto un crimine. Inoltre la natura non può dare al fluido che scorre nelle nostre reni un’importanza tale da risentirsi sul percorso che ci piaccia far compiere a questo liquido!

Il crimine in cosa potrebbe effettivamente consistere? Non certo nel fatto di ficcarsi in questo o quel posto, a meno che non si voglia sostenere che non tutte le parti del corpo sono simili e che c’è da distinguere tra quelle pure e quelle impure. Data l’impossibilità di sostenere tali assurdità, l’unico crimine presunto potrebbe essere quello della perdita del seme. Ora io mi domando se è verosimile che questo seme sia così prezioso agli occhi della natura da diventare impossibile perderlo senza colpa. Ma se fosse così, perché lei stessa provocherebbe quotidianamente certe perdite? Infatti non è per sua autorizzazione che questo avviene nei sogni o godendo di una donna incinta? Come può essere pensabile che la natura ci abbia concesso la possibilità di un crimine che le rechi oltraggio? Come può mai lei stessa acconsentire che gli uomini distruggano i suoi piaceri e diventino su questa strada più forti di lei? È inaudito in quale abisso di assurdità si vada a finire quando per ragionare si abbandonino gli aiuti della fiaccola della ragione! Stiamo pur certi che è perfettamente la stessa cosa godere di una donna in un modo o in un altro, come anche di una fanciulla o di un ragazzo, e poiché è constatato che in noi possono esistere soltanto tendenze ricevute dalla natura, questa è troppo saggia e troppo conseguente per avercene immesse di quelle che possano offenderla.

La sodomia è frutto del nostro organismo, e noi non contribuiamo alla sua formazione. Fin dalla più tenera età alcuni fanciulli avvertono questo gusto e non se ne correggono mai. Talvolta è frutto della sazietà, ma in tal caso non appartiene ugualmente alla natura? Sotto tutti gli aspetti è opera sua e tutto quel che essa ispira, in ogni modo deve esser rispettato dagli uomini. Se con un censimento esatto si riuscisse a stabilire che questo gusto eccita infinitamente più dell’altro, che i piaceri derivanti da esso sono molto più vivi, e che per questo i suoi seguaci sono molto più numerosi dei suoi avversari, non si potrebbe concludere che questo vizio, lungi dal recare oltraggio alla natura, favorisce i suoi piani perché essa tiene molto meno alla procreazione di quanto noi abbiamo la follia di credere? In tutto il mondo, non vediamo che molti popoli disprezzano le donne? Alcuni se ne servono esclusivamente per avere un figlio che poi li sostituisca. L’abitudine degli uomini a convivere nelle repubbliche faciliterà la sempre maggior diffusione di questo vizio, ma non per questo sarà meno pericoloso. Se i legislatori greci l’avessero ritenuto tale, non l’avrebbero introdotto certamente nelle loro repubbliche. Al contrario, essi lo consideravano necessario a un popolo guerriero. Plutarco ci parla con entusiasmo della schiera di amanti e amati; e furono loro a difendere per lungo tempo la Grecia! Questo vizio regnò nelle associazioni dei fratelli d’armi, tanto da renderle più forti; e i più grandi uomini ebbero questa tendenza. L’America intera, quando fu scoperta, risultò popolata da gente con simile gusto. Nella Luisiana e nell’Illinois gli indiani, vestiti da donna, si prostituivano come cortigiane. I negri del Benguela si danno pubblicamente agli uomini; quasi tutti i serragli di Algeri ormai sono popolati di fanciulli. A Tebe non ci si accontentava di tollerare, ma veniva imposto l’amore per i ragazzi; il filosofo di Cheronea lo prescrisse come metodo per addolcire i costumi dei giovani.

Sappiamo a che punto la facesse da padrone a Roma; esistevano luoghi pubblici in cui si prostituivano ragazzi vestiti da fanciulla e fanciulle vestite da ragazzo. Marziale, Catullo, Tibullo, Orazio e Virgilio scrivevano ad altri uomini come a delle amanti, e in Plutarco leggiamo perfino che le donne non dovevano entrare assolutamente nell’amore degli uomini. Un tempo gli Amasiani dell’isola di Creta rapivano i fanciulli con cerimonie curiosissime. Quando gliene piaceva uno, avvisavano i parenti del giorno in cui l’avrebbero rapito; il ragazzo poteva opporre qualche resistenza solo nel caso non gli piacesse l’amante, altrimenti andava con lui e il seduttore, dopo essersene servito, lo rispediva a casa. Infatti questa passione, come capita con le donne, diventa insopportabile quando se ne ha abbastanza! Strabone dice che in questa stessa isola i serragli erano pieni di ragazzi che venivano prostituiti pubblicamente.

Volete un’ultima voce autorevole per dimostrare come questo vizio sia utile a una repubblica? Ascoltate Gerolamo il Peripatetico; si dice che l’amore per i ragazzi si diffuse in tutta la Grecia perché dava coraggio e forza, ed era utile a scacciare i tiranni. Si costituivano congiure tra amanti e questi si facevano torturare pur di non rivelare i nomi dei complici; tutto era sacrificato in nome del patriottismo, per il benessere dello Stato. Si era convinti che certi legami rafforzavano la repubblica; si lanciavano ingiurie contro le donne, mentre era una debolezza tipica dei tiranni dedicarsi a certe creature.

La pederastia fu sempre il vizio dei popoli guerrieri. Cesare ci racconta che i Galli vi si dedicavano intensamente. Furono le guerre sostenute dalle repubbliche a incrementare questo vizio tenendo separati i due sessi, e quando fu chiaro che gli effetti erano utili allo Stato, la religione non tardò a consacrarlo. Si sa che i Romani santificarono gli amori di Giove e Ganimede. Sesto Empirico attesta che questa fantasia era obbligatoria presso i Persiani. Si verificò che le donne, gelose e disprezzate, si offrirono ai mariti per rendergli lo stesso servizio che essi ricevevano dai ragazzi; qualcuno ci provò, ma fu pura illusione! Tornò alle vecchie pratiche.

I Turchi, fortemente inclini per questa depravazione che Maometto santificò nel Corano, assicurano che in ogni caso una vergine giovanissima può sostituire abbastanza bene un ragazzo, e raramente le spose diventano donne prima di aver superato tale prova. Sisto quinto e Sanchez autorizzarono questo vizio; il secondo tentò anche di dimostrare che era utile alla procreazione e che un bambino concepito dopo questa corsa preliminare nasceva di costituzione infinitamente migliore. Infine anche le donne si resero autosufficienti. Certamente questa fantasia non presenta inconvenienti minori dell’altra, perché il risultato è sempre quello di una opposizione alla procreazione, e i mezzi a disposizione di quanti hanno il gusto di aver figli sono abbastanza potenti senza che gli avversari gli possano nuocere. I Greci difendevano questa deviazione delle donne con ragioni di Stato; d’altronde esse, ritenute autosufficienti, e non avendo troppo frequenti rapporti con gli uomini, non disturbavano minimamente gli affari della repubblica. Luciano ci fa conoscere i progressi di questa licenza, e non senza interesse la riscontriamo in Saffo.

Insomma non c’è pericolo di alcun genere in tutte queste manie; anche se si andasse oltre, fino ad accoppiarsi con mostri e animali, come del resto si riscontra già in molti popoli, non ci sarebbe nulla di sconveniente in simili piccolezze; la corruzione dei costumi, spesso utilissima in un governo, non può nuocere in alcun modo, e noi dobbiamo sperare nella saggezza e prudenza dei nostri legislatori ed essere certi che non emanino nessuna legge tendente a reprimere certe debolezze che, dipendendo completamente dall’organismo, non potrebbero mai rendere colui che vi è incline più colpevole di quanto non lo sia l’individuo creato storpio dalla natura.

Ci resta da esaminare soltanto l’omicidio nella seconda classe dei crimini che l’uomo compie verso il suo simile; poi passeremo a quella dei doveri che egli ha verso se stesso. Tra tutte le offese che l’uomo può recare al suo simile, l’omicidio è indiscutibilmente la più crudele perché gli toglie l’unico bene ricevuto dalla natura, l’unico la cui perdita sia irreparabile. Tuttavia, a parte il torto causato dall’omicidio a chi ne è la vittima, si presentano diverse questioni.

1. Questa azione, unicamente in rapporto alle leggi di natura, è veramente criminosa?

2. E lo è in relazione alle leggi della politica?

3. È nociva alla società?

4. Come deve essere valutata in un governo repubblicano?

5. Infine, l’omicidio deve esser represso con l’omicidio?

Esaminiamo ogni questione separatamente; si tratta di un argomento abbastanza essenziale perché meriti di soffermarcisi. Le nostre idee appariranno forse un po’ forti, ma che importa? Non abbiamo forse acquistato il diritto di dire tutto? Spieghiamo agli uomini delle grandi verità: questo è quanto essi si attendono da noi, perché è ora che l’errore scompaia, e cada la sua benda insieme a quella dei re. L’omicidio è un crimine agli occhi della natura? È la prima questione.

Qui certamente umilieremo l’orgoglio dell’uomo, abbassandolo al rango di tutti gli altri prodotti della natura, ma il filosofo non accarezza le piccole vanità umane; sempre teso al raggiungimento della verità, egli la scopre sotto i pregiudizi sciocchi dell’amor proprio, l’afferra, la sviluppa e la rivela arditamente alla terra attonita.

Cos’è l’uomo, e che differenza esiste tra lui e le altre piante, tra lui e gli altri animali della natura? Certamente nessuna. Posto per puro caso, come loro, su questa terra, è nato come loro; si propaga, cresce e decresce come loro; giunge alla vecchiaia e cade nel nulla come loro dopo la fine che la natura assegna a ogni specie animale, in ragione della costituzione dei propri organi. Con simili accostamenti, così precisi da risultare del tutto impossibile all’occhio indagatore del filosofo cogliere una qualche differenza, sarà ugualmente un male uccidere sia un animale che un uomo, o un piccolo male in ambedue i casi; una differenza ci potrà essere solo per i pregiudizi del nostro orgoglio, ma nulla è sciaguratamente assurdo quanto questi pregiudizi! Comunque affrontiamo la questione. Voi naturalmente sarete dell’idea che non è la stessa cosa uccidere un uomo o una bestia; ma la soppressione di ogni animale vivente non è forse un male, come ritenevano i pitagorici e come ritengono ancora gli abitanti delle rive del Gange? Prima di rispondere, i lettori ricordino che stiamo esaminando la questione soltanto in relazione alla natura; in seguito la vedremo in rapporto agli uomini.

Dunque, io mi domando che valore possano avere per la natura degli individui che non le costano né la minima pena né la minima cura. L’operaio stima il suo lavoro solo in ragione della fatica che gli è costata e del tempo che vi ha impiegato per compierlo. L’uomo costa qualcosa alla natura? Supposto di sì, le costerà forse di più di una scimmia o di un elefante? E ancora: quali sono le materie prime della natura? Di cosa sono composti gli esseri che vengono al mondo? I tre elementi che li costituiscono non derivano forse dalla precedente distruzione di altri corpi? Se tutti gli individui fossero eterni, non potrebbe diventare impossibile per la natura crearne dei nuovi? Posto che gli esseri non possono per natura essere eterni, diventa una legge di natura la loro distruzione. E allora, se le distruzioni le sono tanto utili da non poterne fare a meno, e se essa non può arrivare a creare senza attingere a questi ammassi di rottami preparati dalla morte, evidentemente l’idea di annientamento che noi attribuiamo alla morte perde qualsiasi consistenza. Non esiste annientamento di alcun genere; quella che chiamiamo la fine dell’animale non sarà più una fine vera e propria, ma una semplice trasmutazione, alla base della quale c’è il moto perpetuo, vera essenza della materia e che tutti i filosofi moderni ritengono come una delle sue prime leggi. Seguendo questi irrefutabili principii, la morte non è altro che un mutamento di forma» un passaggio impercettibile da un’esistenza a un’altra, che poi è quel che Pitagora chiamava metempsicosi.

Ammesse queste verità, mi domando se si potrà ancora sostenere che la distruzione sia un crimine. Non credo proprio che, pur di mantenere i nostri pregiudizi assurdi, osereste affermare che la trasmutazione è una distruzione. Per questo dovreste dimostrare che esiste un momento di inazione nella materia, un momento di riposo. Ebbene, questo momento non lo scoprirete mai. Nello stesso istante in cui un grande animale perde la vita, si formano piccoli animali la cui esistenza non è che uno degli effetti necessari e determinanti del sonno momentaneo del grande. Oserete affermare che la natura ha preferenze tra l’uno e l’altro? Per dire una cosa simile bisognerebbe dimostrare una cosa impossibile, cioè che un forma lunga o quadrata è più utile e gradita alla natura di una forma oblunga o triangolare; bisognerebbe dimostrare che, per i piani sublimi della natura, un poltrone che ingrassa nell’inazione o nell’indolenza è più utile di un cavallo, che compie un servizio importante, o di un bove, dal corpo così prezioso che non se ne getta via nulla; bisognerebbe dimostrare che un serpente velenoso è più necessario di un cane fedele.

Dunque, poiché sono tutte affermazioni insostenibili, si deve assolutamente ammettere che è impossibile annientare le opere della natura, dal momento che, abbandonandoci alla distruzione, non facciamo altro che operare una variazione nelle sue forme, ma in maniera tale da non poter estinguere la vita, e di conseguenza è chiaramente superiore alle forze dell’uomo dimostrare che ci sia un qualche crimine nella pretesa distruzione di una creatura, di qualunque età, sesso o specie la supponiate. Andando avanti nella catena delle conseguenze, originatesi tutte l’una dall’altra, si dovrà riconoscere infine che l’azione da voi commessa, lungi dal nuocere alla natura, e variando le forme delle sue numerose opere, è vantaggiosa per lei poiché in tal modo le fornite la materia prima della sua ricostruzione, lavoro praticamente impossibile senza la vostra opera di annientamento. E lasciatela fare! vi dicono. Certo, bisogna lasciarla fare, ma quando l’uomo compie un omicidio segue i suoi impulsi; è la natura che glielo consiglia, e l’uomo che uccide il suo simile per la natura vale quanto una peste o una carestia, mandate ugualmente dalla sua mano che usa ogni mezzo possibile per ottenere più presto quella materia prima di distruzione, assolutamente essenziale alle sue opere.

Vediamo di rischiarare un istante la nostra anima con la fiaccola santa della filosofia: se è la voce della natura, e lei soltanto, a suggerirci odi personali, vendette, guerre, insomma tutte le cause tipiche dell’omicidio, se è proprio lei che ce li consiglia, vuol dire che ne ha bisogno; e allora come possiamo mai ritenerci colpevoli nei suoi confronti se non facciamo altro che seguire le sue intenzioni?

Mi pare ce ne sia più che abbastanza per convincere ogni lettore illuminato che è impossibile recare oltraggio alla natura con l’omicidio.

È un crimine in politica! Al contrario, osiamo confessare che disgraziatamente è una delle più grandi risorse della politica. Roma non è diventata padrona del mondo a forza di omicidi? E la Francia oggi non è libera a furia di omicidi? È inutile far notare che in questo caso si tratta di omicidi causati dalla guerra e non da atrocità compiute da fazioni e turbolenti, cioè da persone votate alla pubblica esecrazione per cui il solo nominarle genera immediatamente orrore e indignazione generali. Quale scienza umana ha bisogno di ricorrere all’omicidio più di questa che tende solo a ingannare e non ha altro fine se non quello dell’accrescimento di una nazione a spese di un’altra? Le guerre, unico frutto di questa barbara politica, non sono forse i mezzi di cui essa si serve per nutrirsi, rafforzarsi e consolidarsi? E cos’è la guerra se non scienza del distruggere? Strano accecamento dell’uomo che insegna pubblicamente l’arte di uccidere, ricompensa chi ci riesce meglio e punisce chi fa fuori un proprio nemico per ragioni personali! Non è tempo ormai di ricredersi da certi barbari errori?

Infine, l’omicidio è un crimine contro la società? Ma chi riuscirà a sostenerlo ragionevolmente? Cosa può importare alla società che vi sia un membro in più o in meno? Leggi, usanze e costumi ne risulteranno forse alterati? E ancora, la morte di un individuo ha mai influito sulla massa? E dopo la perdita della più grande battaglia, ma dirò di più, dopo l’estinzione della metà del mondo, e perfino della sua totalità, l’eventuale piccolo numero di sopravvissuti proverebbe forse la minima alterazione materiale? Ahimè, no! e neanche la natura ne risentirebbe! Lo sciocco orgoglio dell’uomo, credendo che tutto sia fatto per lui, resterebbe certo deluso constatando che, dopo la totale distruzione dell’umanità, nulla varia nella natura e il corso degli astri non ne subisce neanche un ritardo. E proseguiamo.

Come va considerato l’omicidio in uno Stato guerriero e repubblicano?

Sarebbe certamente piuttosto pericoloso opporsi a una simile azione o punirla. La fierezza del repubblicano ha bisogno di un po’ di ferocia; se si rammollisce, perde energia e prima o poi sarà soggiogato. A questo punto s’impone una riflessione, ed è bene farla, nonostante la sua arditezza, perché è vera. Una nazione che incominci a governarsi in forma di repubblica si sosterrà soltanto con le virtù; infatti per arrivare al più, bisogna sempre partire dal meno. Ma una nazione già vecchia e corrotta che scuoterà coraggiosamente il giogo di un governo monarchico per adottarne uno repubblicano si sosterrà soltanto con molti crimini; infatti essa è già nel crimine e se passasse dal crimine alla virtù, cioè da uno stato violento a uno mite, cadrebbe in un’inerzia che la porterebbe rapidamente alla rovina. Cosa diventerebbe l’albero trapiantato da un terreno pieno di vigore in una piana arida e sabbiosa? Tutte le idee intellettuali sono così subordinate alla fisica della natura che i paragoni forniti dall’agricoltura non ci inganneranno mai in morale.

I più indipendenti fra gli uomini, i più vicini alla natura, i selvaggi, esercitano impunemente l’omicidio tutti i giorni. A Sparta, a Lacedemone, si andava a caccia degli iloti come in Francia si va a caccia di pernici. I popoli più liberi sono proprio quelli che lo praticano maggiormente. A Mindanao chi vuol commettere un omicidio è considerato un valoroso e viene decorato immediatamente con un turbante; presso i Caraguos per ottenere l’onore di questo copricapo bisogna uccidere sette uomini. Gli abitanti del Borneo ritengono che tutte le persone uccise serviranno loro da defunti. Anche i devoti spagnoli facevano voto a san Giacomo di Galizia di uccidere dodici americani al giorno. Nel regno di Tangut, in alcuni giorni dell’anno, viene scelto un giovane forte e vigoroso al quale è permesso uccidere tutto quello che incontra. E poi, è mai esistito un popolo più devoto all’omicidio di quello ebraico? Appare evidente in ogni pagina della sua storia, sotto vari aspetti.

L’imperatore e i mandarini della Cina prendono ogni tanto dei provvedimenti per eccitare il popolo alla rivolta e ottenere da questa provocazione il diritto a compiere un’orribile carneficina. Ma prima o poi questo popolo debole ed effeminato si libererà dal giogo dei suoi tiranni, li ammazzerà a sua volta a maggior ragione, e l’omicidio, sempre adottato e necessario, avrà solo cambiato vittima; era la felicità degli uni, diventerà la felicità degli altri.

Un’infinità di nazioni tollera gli assassini pubblici; sono completamente permessi a Genova, Venezia, Napoli e in tutta l’Albania; a Kachao, sulla costa di San Domingo, gli assassini, in un costume facilmente riconoscibile, sgozzano su ordinazione e sotto i vostri occhi l’individuo che voi gli indicate. Gli Indiani fumano l’oppio per incoraggiarsi all’assassinio e poi si precipitano in mezzo alla strada per massacrare tutti quelli che incontrano; certi viaggiatori inglesi hanno riscontrato questa abitudine a Batavia.

Quale popolo fu contemporaneamente più grande e più crudele di quello romano, e quale nazione conservò più a lungo il suo splendore e la sua libertà? Lo spettacolo dei gladiatori sostenne il suo coraggio ed essa divenne guerriera a forza di considerare l’omicidio un gioco. Milleduecento o millecinquecento vittime al giorno riempivano l’arena del circo e là le donne, più crudeli degli uomini, osavano pretendere che i morenti cadessero con grazia, assumendo plastiche pose anche nelle convulsioni della morte. In seguito i Romani passarono al piacere di vedere i nani sgozzarsi davanti ai loro occhi, e quando la religione cristiana, infettando la terra, arrivò a convincere gli uomini che uccidere era peccato, subito dei tiranni resero schiavi questo popolo e gli eroi del mondo ne diventarono ben presto gli zimbelli.

Dovunque in seguito si credette che l’omicida, cioè l’uomo capace di soffocare la propria sensibilità fino al punto di uccidere il suo simile e sfidare la vendetta pubblica o privata, dovunque, dico, si credette che un simile uomo non potesse essere altro che un coraggioso e, di conseguenza, molto utile a un governo guerriero e repubblicano. Dando uno sguardo a quelle nazioni che, ancor più ferocemente, trovavano soddisfazione soltanto immolando bambini e spessissimo i propri, vedremo che queste azioni, in uso dappertutto, s’imposero a volte anche come leggi. Numerose tribù selvagge uccidono i propri figli appena nati. Lungo le rive del fiume Orinoco, le madri immolavano appena nate le proprie figlie, convinte come erano che esse sarebbero state un giorno delle infelici perché destinate a essere spose dei selvaggi di quella regione, i quali odiavano le donne. Nella Trabopane e nel regno di Sopit tutti i fanciulli deformi venivano uccisi dai genitori stessi. Le donne del Madagascar abbandonavano alle bestie feroci i figli nati in particolari giorni della settimana. Nelle repubbliche della Grecia tutti i bambini appena nati venivano attentamente visitati e se non erano ritenuti di costituzione adatta a poter difendere un giorno la repubblica, erano immediatamente uccisi; là non si riteneva opportuno costruire case ben arredate per mantenere questa vile feccia della società. Fino al trasferimento della sede dell’impero, i Romani che non volevano nutrire i loro figli li buttavano nel pubblico letamaio. Gli antichi legislatori, senza alcun scrupolo, destinavano i fanciulli alla morte, e nessun loro codice represse mai i diritti riconosciuti al padre sulla propria famiglia. Aristotele consigliava l’aborto; questi antichi repubblicani, pieni di entusiasmo e amor di patria, ignoravano quella commiserazione per l’individuo che è presente invece nelle nazioni moderne; si amavano meno i propri figli, ma era più forte l’amor di patria. In tutte le città della Cina, un’incredibile quantità di bambini è abbandonata in mezzo alla strada: all’alba passa una carretta che li preleva e li scarica in una fossa; spesso le stesse levatrici ne sbarazzano le madri soffocando i neonati in tinozze di acqua bollente o buttandoli nel fiume. A Pechino vengono messi in cestini di giunco e abbandonati sui canali; questi canali sono dragati ogni giorno e, secondo una valutazione del celebre viaggiatore Duhalde, ne sono raccolti giornalmente più di trentamila. Non si può negare che non sia straordinariamente necessario ed estremamente politico in un governo repubblicano mettere un freno alla popolazione; per motivi completamente opposti deve essere invece incoraggiata in un governo monarchico. I tiranni, la cui ricchezza è basata sul numero dei propri schiavi, hanno certamente bisogno di uomini; ma non c’è dubbio che la sovrappopolazione è un servizio reale in un governo repubblicano. Tuttavia non bisogna soffocarla per diminuirla, come suggerivano i nostri moderni decemviri; piuttosto è bene toglierle qualsiasi mezzo per estendersi oltre i limiti prescritti per il suo stesso bene. Fate attenzione all’eccessivo aumento della popolazione, ogni membro della quale è sovrano, perché le rivoluzioni dipendono sempre dalla sovrappopolazione. Se, per lo splendore dello Stato concedete ai vostri soldati il diritto di far strage di uomini, permettete anche a ogni individuo di disporre a suo piacere, dal momento che può farlo senza recare oltraggio alla natura, del diritto di uccidere i figli che non potrà nutrire o dai quali il governo non ricaverebbe in futuro alcun vantaggio. E concedetegli anche il diritto di uccidere, a suo rischio e pericolo, tutti i nemici che gli possano nuocere, perché certe azioni, di per sé assolutamente nulle, riusciranno a mantenere la vostra popolazione in uno stato moderato e non sarà mai così numerosa da abbattere il vostro governo. Lasciate pur che i monarchici dicano che la grandezza di uno Stato si basa sulla sua sovrappopolazione: lo Stato in realtà sarà sempre povero con una popolazione eccessiva rispetto ai mezzi di sussistenza, e sarà sempre ricco se, mantenendosi nei giusti limiti, potrà trarre vantaggi commerciali dal superfluo. Quando un albero ha troppo fronde non viene potato? E per conservare il tronco non si tagliano i rami? Ogni sistema che si allontani da questi principii è una stravaganza i cui abusi ci porterebbero ben presto al crollo totale dell’edificio che con tante difficoltà siamo riusciti a costruire. Ma per diminuire la popolazione non si deve eliminare l’uomo maturo: è ingiusto accorciare la vita a un individuo di buona costituzione; non è ingiusto invece impedire di nascere a un essere che sarà senz’altro inutile alla società. La specie umana deve essere epurata all’origine; se ritenete che egli non potrà mai essere utile alla società, è bene strapparlo dal suo seno: questi sono gli unici mezzi ragionevoli per diminuire la popolazione perché la sua eccessiva estensione, come abbiamo dimostrato, è un abuso pericolosissimo.

E ora concludiamo.

L’omicidio va represso con l’omicidio? Certamente no. All’omicida va imposta soltanto la pena nella quale può incorrere per vendetta degli amici o della famiglia dell’ucciso. «Vi concedo la grazia», disse Luigi XV a Charolais che aveva ucciso un uomo per divertirsi, «ma la concedo fin d’ora a colui che vi ucciderà». In questa frase sublime si trovano i fondamenti della legge contro gli omicidi.

Insomma l’omicidio è un orrore, ma un orrore spesso necessario, mai criminoso e va tollerato assolutamente in uno Stato repubblicano. Ho dimostrato che ne viene un continuo esempio dal mondo intero; ma va ritenuto come un’azione punibile con la morte? Risolvendo questo dilemma nello stesso tempo sarà risolta la questione se l’omicidio sia un crimine o no. Se non lo è, perché mai promulgare leggi che lo puniscano? E se lo è, per quale barbara e stupida incoerenza lo punirete con un crimine analogo?

Ci resta da parlare dei doveri dell’uomo verso se stesso. Poiché il filosofo dà importanza a questi doveri solo se hanno come fine il proprio piacere e la propria conservazione, è del tutto inutile raccomandargli di applicarli e ancor più inutile imporgli delle pene se si tira indietro.

L’unico crimine che l’uomo possa commettere in questo campo è il suicidio. Non mi divertirò a dimostrare qui l’imbecillità di quanti ritengono quest’azione un crimine; rimando alla famosa lettera di Rousseau chi possa nutrire ancora qualche dubbio in proposito. Quasi tutti gli antichi governi autorizzavano il suicidio da un punto di vista sia politico che religioso. Gli Ateniesi esponevano all’Aeropago i loro motivi di suicidio, e poi si pugnalavano. Tutte le repubbliche della Grecia tolleravano il suicidio, che rientrava in pratica nei piani dei legislatori: ci si uccideva in pubblico, dando spettacolo con la propria morte. La repubblica di Roma incoraggiò il suicidio; i famosi sacrifici per la patria non erano altro che suicidi. Quando Roma fu presa dai Galli, i più nobili senatori si uccisero: e noi, con quella stessa tempra, adottiamo le medesime virtù. Durante la campagna del ’92, un soldato si uccise per il dispiacere di non poter seguire i suoi compagni nella battaglia di Jemappes. Incessantemente all’altezza di questi fieri repubblicani, finiremo per superare le loro virtù; è il loro governo che fa l’uomo. La lunga abitudine al dispotismo aveva completamente snervato il nostro coraggio e depravato i nostri costumi; ora risorgiamo e presto si vedrà di quali sublimi azioni sia capace il genio e il carattere francese, quando è libero. A prezzo delle nostre fortune e della vita stessa, difendiamo questa libertà che già ci costa tante vittime! Ma non le rimpiangeremo mai, se giungeremo allo scopo: esse si sono sacrificate volontariamente. Non rendiamo inutile il loro sangue! Ma occorre restare uniti… uniti, o perderemo il frutto di tutte le nostre sofferenze. Stabiliamo leggi eccellenti con le vittorie ottenute! I nostri primi legislatori, schiavi del tiranno che finalmente abbiamo abbattuto, ci avevano dato soltanto leggi degne di quel tiranno, che essi incensavano: rifacciamo la loro opera, e pensiamo che adesso lavoriamo per repubblicani e filosofi! Le nostre leggi siano miti come il popolo che devono governare.

Dimostrando qui, come ho fatto, la nullità e l’indifferenza di un’infinità di azioni considerate criminose dai nostri antenati, sedotti com’erano da una falsa religione, riduco il nostro lavoro a ben poco. Promulghiamo poche leggi, ma buone. Non si tratta di moltiplicare i freni, ma di dare una qualità indistruttibile a quelli che usiamo. Le leggi che promulgheremo abbiano come unico scopo la tranquillità e la felicità del cittadino e lo splendore della repubblica! Ma io non vorrei che, dopo aver cacciato il nemico dalle vostre terre, o Francesi, foste trascinati oltre dall’ardore di propagare i vostri principii; infatti solo col ferro e col fuoco potrete portali in capo al mondo! Prima di imbarcarvi in certe imprese, ricordatevi del disgraziato esito delle Crociate. Datemi ascolto! Quando il nemico sarà dall’altra parte del Reno, custodite le vostre frontiere e restate a casa vostra. Riattivate il commercio, ridate energia e sbocchi alle vostre manifatture, fate rifiorire l’arte, incoraggiate l’agricoltura tanto necessaria in un governo come il vostro che deve avere come unico intento quello di essere autosufficiente. Lasciate pure che i troni d’Europa crollino da soli; ben presto col vostro esempio e la vostra prosperità, saranno abbattuti senza che voi ve ne immischiate.

Invincibili sulle vostre terre e di modello a tutti i popoli con il vostro regolamento e le vostre buone leggi, non ci sarà più governo al mondo che non si dia da fare per imitarvi, non uno che non sia onorato di essere vostro alleato. Ma se, per la vanagloria di portare lontano i vostri principii, abbandonerete la cura della vostra felicità, risorgerà il dispotismo che è soltanto addormentato, sarete divisi da lotte intestine, sperpererete finanze ed eserciti, e alla fine tornerete a baciare le catene sotto i tiranni che avranno approfittato della vostra assenza per soggiogarvi. Tutto quel che desiderate lo potete realizzare anche restando nei vostri confini; gli altri popoli vi vedranno felici e correranno anch’essi sulla stessa strada da voi tracciata.

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