Mag 302016
 

Appena il signor Barville mi vide, si alzò in piedi con un’evidente espressione compiaciuta e allo stesso tempo sorpresa. Allora mi salutò e chiese alla signora Cole se io fossi la ragazza designata. Lei confermò e, leggendo nei suoi occhi che poteva lasciarci soli, se ne andò raccomandandogli di usare moderazione con una così dolce novizia.

Mentre parlavano, io esaminai la figura e la persona dell’infelice giovane gentiluomo, condannato a provare piacere a suon di frustate, come gli scolari con l’apprendimento.

Aveva capelli biondissimi e pelle levigata. Non dimostrava più di vent’anni, benché ne avesse tre in più di quanti gliene avevo attribuiti, forse per via della sua corporatura tarchiata e il viso paffuto e rubicondo che lo faceva assomigliare a un Bacco, non considerando quell’aria austera, quasi arcigna, che mal si addiceva alla sua faccia e rovinava la somiglianza. Era vestito in maniera semplice e sobria, per nulla confacente all’immensa fortuna di cui era in possesso, ma era una questione di gusto, non di avarizia.

Quando la signora uscì, il signor Barville si sedette accanto a me e mi guardò con un’espressione molto dolce e cordiale, un cambiamento ancora più notevole dell’altro estremo, che, come scoprii in seguito, era dovuto al suo costante conflitto e disprezzo di sé per essere schiavo di una perversione così particolare, dovuta a un fattore ereditario che lo rendeva incapace di provare piacere senza sottomettersi a quei mezzi straordinari che gli procuravano dolore, e la costante consapevolezza di ciò gli aveva alla fine impresso un’espressione acida e severa sul suo volto, che in realtà era del tutto estranea alla suo carattere dolce.

Dopo essersi prodigato in mille scuse per quello che mi avrebbe fatto e avermi incoraggiata a sopportare la mia parte con spirito e costanza, si mise accanto al fuoco mentre io andai a prendere gli strumenti del castigo da un armadietto. Erano diverse verghe, ognuna composta da due o tre spessi rami di betulla, che il giovane prese in mano, soppesò e osservò con estremo piacere, mentre io rabbrividivo all’idea di cosa sarebbe accaduto.

Poi prendemmo dal fondo della stanza una lunga panca, dov’era più facile sdraiarsi grazie al morbido cuscino di velluto che la rivestiva. Quando tutto fu pronto, si levò la giacca e il panciotto, e su sua richiesta gli sbottonai i calzoni e gli arrotolai la camicia sopra la vita. Allora lo sguardo mi cadde su quel padrone capriccioso, per il quale stavamo prendendo tutte quelle disposizioni, che era quasi sprofondato tra le pieghe del suo corpo, solo la punta era appena visibile tra i ciuffi di ricci vaporosi, come uno scricciolo che fa capolino tra l’erba.

Quindi si chinò per slacciarsi le giarrettiere e me le porse, chiedendomi di usarle per legargli le gambe alla panca, cosa che ritenevo inutile, ma che doveva far parte del cerimoniale che lui stesso si era creato.

Lo condussi alla panca e, come previsto dal mio ruolo, lo costrinsi a sdraiarsi, al che lui, dopo una riluttanza di forma, ubbidì. Si distese prono sulla panca, con un cuscino sotto il viso, quindi gli legai mani e piedi ai sostegni. Così disteso, con la camicia arrotolata sopra le reni, gli abbassai i calzoni fino alle ginocchia, lasciando esposto il suo posteriore: aveva due natiche paffute, levigate e abbastanza bianche che si dipartivano dalle cosce robuste e carnose e culminavano in una fessura, un solco alto fino alla cinta che sembrava fatto apposta per ricevere la verga.

Afferrai una delle verghe e, seguendo le sue istruzioni, gli diedi almeno dici sferzate con tutta la forza e il vigore che il mio braccio mi permetteva, facendo vibrare i suo globi carnosi. Il signor Barville non si scompose più di un’aragosta al morso di una pulce. Nel frattempo osservavo l’effetto delle vergate su di lui e mi parve crudele: ogni colpo aveva scorticato la pelle di quelle bianche colline che diventarono rosso fuoco, segnando soprattutto la parte più esterna con lividi e tagli dai quali usciva sangue a grosse gocce, mentre da alcune ferite mi toccò persino estrarre le schegge della verga che si erano conficcate nella pelle. Ciò non doveva meravigliare: la verga era verde, la punizione severa e la superficie della sua pelle era così liscia e soda che non poteva attutire i colpi, che tagliavano nel vivo laddove cadevano.

Tuttavia, a quella vista mi impietosii al punto che il mio cuore mi impedì di riprendere. Avrebbe preferito smettere, l’uomo doveva averne avuto abbastanza. Ma in seguito ai suoi incoraggiamenti e incitamenti a continuare, gli diedi altre dieci sferzate. Mi fermai dunque a osservare il sangue aumentare e, innervosita dalla sua impassibilità e compostezza di fronte alla sofferenza, ripresi la punizione, finché non lo vidi contorcersi e fremere, non tanto per il dolore quanto piuttosto per una sensazione nuova e forte. Incuriosita, durante una delle pause mi avvicinai a lui mentre ancora si agitava e strusciava la pancia contro il cuscino: prima gli accarezzai la zona delle natiche rimasta illesa dalle vergate, poi gli infilai con dolcezza una mano tra le cosce, dove ebbi una sorpresa. Il suo strumento, che all’inizio mi era sembrato quasi inesistente, o minuscolo, ora, in virtù del dolore e della devastazione delle sue natiche, non solo viveva una prodigiosa erezione, ma aveva assunto dimensioni spaventose, davvero eccezionali! Solo la sua testa riempiva quasi del tutto la mia mano, e quando, mentre si agitava avanti e indietro, divenne visibile, mi ricordò un tondo filetto di manzo, come il suo padrone, corto e tozzo in proporzione allo spessore. Quando sentì la mia mano lì, il signor Barville mi pregò di riprendere subito a frustarlo, altrimenti non avrebbe mai raggiunto l’ultimo stadio del piacere.

Ripresi dunque le sferzate. Avevo consumato tre verghe quando, dopo un picco di agitazione e contorcimento accompagnato da un gemito o due, lo vidi giacere fermo immobile. Allora mi chiese di smettere, e io ubbidii all’istante. Quando lo slegai, non potei non ammirare la sua capacità di sopportazione alla vista della pelle delle sue natiche, prima bianche e levigate, e ora massacrate e straziate: ogni centimetro era coperto da tagli, lividi, sfregi e sangue, al punto che quando si alzò riuscì a camminare a stento. In breve, era in dolce sofferenza.

Notai sul cuscino i segni dell’abbondante aspersione, mentre il pigro membro si era già ritirato nel suo nido a nascondersi, come se si vergognasse di mostrare la sua testa, dato che niente sembrava destarlo se non le scudisciate sulle vicine parti posteriori, che erano pertanto costrette a continue sofferenze per i suoi capricci.

Il gentiluomo si era rivestito e ricomposto, poi mi baciò e si sedette accanto a me con molta cautela, poggiandosi solo con una parte del posteriore, poiché era troppo dolorante per sopportare tutto il peso del suo corpo.

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