Dic 282019
 

Finita questa filippica, Gitone, che se ne stava accucciato ai miei piedi, scoppiò anche lui in una risata sguaiata dopo essersi a lungo trattenuto. Non appena l’avversario di Ascilto se ne accorse, attaccò a prendersela col ragazzo e lo assalì con queste parole: «E tu? Adesso ti metti a ridere anche tu, pezzo di cipolla coi boccoli? Ma cos’è, siamo già a Carnevale, è già dicembre? E il tuo cinque per cento quand’è che l’hai pagato? Ma guarda cosa combina ‘sto pendaglio da forca, ‘sta carogna da corvi. Ci penso io, che Giove ti strafulmini, te e questo qui che non sa tenerti a bada! Possa il pane farmi schifo, se non è vero che lo lascio stare solo per rispetto al mio compare, liberto pure lui. Altrimenti l’avrei già messo a posto come si deve. Noi ce ne stiamo qua bravi bravi, e questi due cretini non sanno farti stare al tuo posto. Ma è un fatto che il servo è tale quale il padrone. A stento riesco a trattenermi: eppure sono uno che non si scalda subito, ma quando comincio non mi fermo nemmeno di fronte a mia madre. Bene, razza di chiavica, ci vediamo fuori, brutto carciofo. Che io possa criccare all’istante, se il tuo padrone non lo riduco in poltiglia e non faccio passare anche a te un brutto quarto d’ora, dovessi anche chiamare in causa il padreterno, maledetta miseria. Fidati, quella capoccia di capelli da due soldi non ti servirà a un bel niente né a te né a quella mezza calzetta del tuo padrone. Dovrai pure capitarmi a tiro: e non sono più io, se non ti tolgo la voglia di prendere per il culo, anche se tu avessi la barba d’oro. Che Atena ti stramaledica, te e quell’altro che per primo ti ha adescato. Io non so di matematica, né di critica e di tutte le altre insulsaggini, ma le maiuscole le leggo e so dividere per cento tutti i pesi e le misure. Insomma, te la vuoi fare una scommessina? Ecco la mia posta, tira fuori la tua. E anche se mastichi un po’ di retorica, ti farò vedere che tuo padre ha buttato via i suoi soldi. Beccati questo:

“Cosa sono? Vado su, vado giù, indovinami un po’ tu”.

E ancora: “Chi si muove e fermo sta?”; “Cos’è che cresce e poi si accorcia?”. Corri, t’imbamboli, annaspi che sembri un topo finito nel cesso. E allora chiudi il becco e non infastidire chi è meglio di te e non sa manco che sei nato. A meno che non ti passi per la testa che mi interessi quella bigiotteria che hai alle dita e che hai grattato alla tua troietta. San Trafficone mi protegga! Andiamo al foro a chiedere soldi in prestito, e vedrai se il mio anello non vale di più anche se è solo di ferro! Ah, sei proprio bello con quella faccia di volpe fradicia! Possa io fare un sacco di soldi e morire tanto bene che la gente venga a giurare sulla mia tomba, com’è vero che ti correrò dietro fino alla fine del mondo, foss’anche con la toga messa al rovescio! Gran bell’elemento anche quell’altro che ti insegna ‘sta roba, un ciarlatano, altro che maestro! Ai miei tempi le cose non stavano così: il maestro ci diceva: “Avete finito? Allora andatevene a casa. Non state a guardarvi intorno e abbiate rispetto degli anziani”. Ma oggi son tutte palle e non ce n’è uno che valga un fico secco. Quanto a me, se sono così come mi vedi, devo solo dire grazie al padreterno per l’educazione che ho avuto».

Ascilto era lì lì per rispondergli per le rime, quando Trimalcione, divertito dall’eloquenza del suo compare, interviene: «Avanti, piantatela di litigare. Torniamocene di buonumore e tu, Ermerote, lascia stare il ragazzino che ha il sangue caldo, e mostrati superiore. In faccende come queste, chi cede ha sempre la meglio. Anche tu nei tuoi giorni di galletto facevi chicchirichì e non avevi la testa granché a posto. Vediamo quindi di tornare allegri come prima, che è meglio, e godiamoci gli omeristi». E infatti, proprio in quell’istante, fa il suo ingresso una compagnia di guitti al suono di aste battute contro gli scudi. Trimalcione si stravacca per bene sul cuscino e, dato che gli omeristi si esibivano in greco secondo la loro stramaledetta abitudine, si mette a leggere ad alta voce un libro in latino. All’improvviso, dopo aver imposto il silenzio, dice: «Ma lo sapete che storia stanno rappresentando? Diomede e Ganimede erano fratelli ed Elena era la loro sorella. Agamennone la rapì e a Diana rifilò in cambio una cerva. Così adesso Omero racconta in che modo Troiani e Parentini si facciano la guerra. Naturalmente ha la meglio Agamennone, e dà la figlia Ifigenia in moglie ad Achille. Ed è per questa ragione che Aiace esce pazzo e adesso vedrete voi stessi come va a finire la vicenda». Appena Trimalcione finisce di parlare, gli omeristi si mettono a schiamazzare, mentre in mezzo alla servitù indaffarata viene portato, sopra un vassoio sulle duecento libbre di peso, un vitello lesso, per di più con un elmo sulla testa. Dietro di lui arriva un Aiace che, brandendo la spada con gli occhi impallati, lo fa a brandelli e, colpendo ora di taglio ora di punta, infilza i pezzetti sulla punta della lama e li distribuisce tra gli invitati rimasti a bocca aperta.

Ma non possiamo goderci a lungo quelle piroette così eleganti, perché all’improvviso il soffitto si mette a scricchiolare e l’intera sala traballa. Balzo in piedi spaventato, nel timore che dal tetto crolli giù qualche acrobata. Anche gli altri invitati, non meno esterrefatti di me, alzano gli occhi per vedere quale sia la novità in arrivo dal soffitto. Ma ecco che allora la volta si spalanca e all’improvviso viene giù un grosso cerchio (forse tolto da un’enorme botte), lungo il cui intero perimetro erano appese delle corone d’oro e delle boccette di alabastro piene di profumi. Mentre veniamo invitati a prendere quei regali, io mi volto verso la tavola…

Ci avevano già piazzato un grosso portavivande con sopra delle focaccine: al centro, imponente, un Priapo fatto in pasticceria, reggeva in grembo, secondo l’uso comune, frutti di ogni genere e uva. Al colmo della gola allunghiamo le mani su tutto quel ben di dio, e all’improvviso una nuova invenzione ci riporta il sorriso sulle labbra. Infatti non appena le tocchiamo, da tutte quelle focaccine e da quella frutta schizza fuori dello zafferano che con un getto sgradevole ci arriva fino alla faccia. Pensando che una portata servita con tutta quella parata di simboli avesse qualcosa di sacro, ci alziamo impettiti ed esclamiamo: «Lunga vita ad Augusto, padre della patria!». Ma quando ci rendiamo conto che qualcuno, appena finito il brindisi, aveva già arraffato dei frutti, ci riempiamo anche noi i tovaglioli, e soprattutto il sottoscritto, cui non sembrava mai di aver gonfiato abbastanza le tasche di Gitone.

Nel frattempo entrano tre schiavetti vestiti con delle tuniche bianche e attillate: due piazzano sul tavolo le statue dei Lari con le loro brave medagliette al collo, mentre il terzo porta in giro una brocca di vino gridando: «Che gli dèi ci siano propizi!» …

Diceva che uno si chiamava Affarone, il secondo Contentone e il terzo Guadagnone. E siccome tutti si mettono a baciare un ritratto al naturale di Trimalcione, non ci sembra affatto bello svignarcela senza esserci adeguati.

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