Giu 272020
 

Finita la declamazione, chiamo Gitone e gli faccio: «Ma dimmi un po’, caro fratellino, in tutta coscienza: quella notte che Ascilto ti portò via da me, restò sveglio fino a quando riuscì a possederti, oppure si accontentò di una notte vedova e casta?». Il ragazzino si toccò gli occhi e giurò nel modo più solenne di non aver subito violenza da Ascilto.

*

… e inginocchiandomi sulla soglia del tempio, rivolsi questa preghiera al dio che mi aveva voltato le spalle:

«Delle Ninfe e di Bacco compagno, che Dione la bella

fece dio delle selve fiorenti, che regni sull’inclita

Lesbo e la verde Taso, cui innalza preghiere il Lido

dai sette fiumi, e dedica templi in Ipepa,

vieni qua, protettore di Bacco e amore delle Driadi insieme,

e ascolta una timida prece. Non vengo cosparso

di sangue funesto, né mai i tuoi templi violai

con sacrilega mano, ma misero e messo alle strette,

se mai un delitto commisi, non fu con il corpo mio tutto.

Minore è la colpa di chi pecca per debolezza. Per questo,

ti prego, l’animo mio solleva e indulgi a un peccato minore,

che, se mai mi sorrida un’ora di buona fortuna,

il tuo nume io non lascerò senza onori. All’ara tua andranno,

o divino, il capro, il padre cornuto del gregge,

e vittima ancora lattante, il parto di querula scrofa.

Nei calici spumeggerà il vino dell’anno, e tre volte

danzando i giovani ebri il giro del tempio faranno».

*

Mentre son lì che recito questa preghiera, senza mai togliere gli occhi dal caro estinto tra le gambe, entra nel tempio una vecchia orripilante, coi capelli scarmigliati e una veste nera addosso, che mi abbranca e mi porta fuori dal tempio.

*

LA VECCHIA PROSELENO A ENCOLPIO. «Che razza di streghe ti hanno mangiato i nervi, o quale schifezza o cadavere hai calpestato nel cuor della notte a un crocicchio? Nemmeno con il ragazzo sei riuscito a rifarti ma, molle, fiacco e scoppiato come un ronzino in salita, ci hai rimesso soltanto fatica e sudore. E non contento di essere già tu in peccato, hai messo gli dèi anche contro di me».

*

E poi, senza che io facessi alcuna resistenza, mi trascinò di nuovo nella cella della sacerdotessa, mi cacciò sul letto e, dopo aver afferrato una canna dietro la porta, cominciò a darmele di santa ragione, senza che io avessi il coraggio di reagire. E se la canna non si fosse rotta quasi subito, diminuendo così la violenza dei colpi, probabilmente quella mi avrebbe fratturato testa e braccia. A piagnucolare cominciai invece quando lei si mise a trafficare con l’arnese e, mentre le lacrime mi rigavano il volto, caddi riverso sul cuscino nascondendomi la faccia con la destra. Allora anche la vecchia scoppiò a piangere e, sedutasi sull’altra sponda del letto, cominciò a lamentarsi, con voce tremula, di quanto le pesassero tutti i suoi anni, finché non intervenne la sacerdotessa: «Che ci fate voialtri» ci investì, «qui nella mia cella? Non l’avrete mica presa per una tomba ancora fresca? E per giunta in un giorno festivo, quando ride anche chi dovrebbe piangere?».

*

PROSELENO AD ENOTEA, SACERDOTESSA DI PRIAPO «O Enotea» le si rivolse la vecchia, «questo giovanotto qui è nato davvero sotto una cattiva stella: figurati che non riesce a piazzare la sua mercanzia né agli uomini né alle donne. Un disgraziato come questo non l’hai mai visto: al posto dell’affare là sotto, ci ha un’anguilla marinata. Per fartela breve, che cosa mi dici di uno che si è alzato dal letto di Circe senza aver goduto?». Udite queste parole, Enotea prese posto in mezzo a noi e, dopo aver scosso per un bel po’ la testa, disse: «Io sono l’unica che può guarirlo da questa malattia: e per dimostrarvi che non parlo a vanvera, chiedo che questo tuo giovanotto dorma con me una notte, e poi vediamo se non glielo faccio ritornare duro come un corno:

Tutto ciò che vedi al mondo, mi si inchina. La florida terra

se voglio la faccio languire arida, con tutte le linfe essiccate,

se voglio, lei spande i suoi beni e rocce selvagge e macigni

eruttano acque del Nilo. A me il mare sottomette

gli inerti marosi, e innanzi ai miei piedi gli zefiri fermano

taciti i soffi. A me obbediscono i fiumi, le tigri d’Ircania,

e i draghi immobili a un cenno. Perché mai parlare di cose

da nulla? La mia voce d’incanto fa scendere dal cielo la Luna,

e Febo sgomento costringo a mutare il suo corso, volgendo

a ritroso i suoi bai furibondi.

A tanto giungono gli scongiuri. L’ardore dei tori si placa,

bloccato da riti di vergine, con magici filtri la figlia

di Febo che è Circe trasforma i compagni di Ulisse,

e Proteo assume l’aspetto che vuole. Esperta ch’io sono

in quest’arte, sul fondo dei mari trapianto i boschi dell’Ida,

e l’acqua dei fiumi sospingo alle vette più alte.

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