Ott 102022
 

—    Commendatore de’ credenti — disse Zobeida al Califfo — l’istoria che debbo raccontare a Vostra Maestà è una delle più sorprendenti. Le due cagne nere ed io siamo tre sorelle nate da una stessa madre e da uno stesso padre, e vi dirò per quale strano accidente esse siano state mutate in cagne. Le due donne che stanno con me qui presenti sono anche sorelle mie per via di padre, ma di un’altra genitrice. Quella che ha il seno coperto di cicatrici si chiama Amina, l’altra Sofia ed io Zobeida. Dopo la morte di mio padre, i beni che ci avea lasciati furono divisi egualmente fra noi: e quando queste due ultime sorelle ebbero presa la loro porzione, si separarono ed andarono a dimorare con la loro madre. Le due altre mie sorelle ed io restammo con la nostra madre, la quale viveva ancora, ma che morendo lasciò a ciascuna di noi mille zecchini.

Quando avemmo ciò che ci apparteneva, le due maggiori sorelle, perché io sono la minore, si maritarono.

Poco tempo dopo il loro matrimonio, il marito della prima vendé tutto ciò che aveva di beni e di mobili e col denaro ricavatone andarono in Africa.

Colà il marito sciupò in divertimenti tutti i suoi beni e quel che aveagli portato la moglie. Indi, vedendosi ridotto all’ultima miseria, trovò il pretesto di ripudiarla e la scacciò. Essa tornò a Bagdad. Io la ricevetti con affezione, le domandai perché fosse in così miserabile stato, ed ella manifestò, piangendo, la cattiva condotta di suo marito e l’indegno trattamento che le avea fatto. Fui commossa dalla sua sventura e piansi con lei.

Vivemmo insieme molti mesi con buona intelligenza e mentre ci intrattenevamo sovente della nostra sorella terza, ed eravamo meravigliate di non averne niuna nuova, essa giunse nell’istesso cattivo stato dell’altra; suo marito l’avea maltrattata nell’istesso modo, ed io la ricevetti con eguale amorevolezza.

Era un anno che stavamo in perfetta unione e vedendo che Dio aveva benedetto il piccolo mio fondo, formai il disegno di fare un viaggio per mare, e di rischiare qualche cosa nel commercio. Per ciò andai colle mie due sorelle a Bassora, ove comprai una nave tutta equipaggiata, che caricai di mercanzie fatte venire da Bagdad.

Quando fummo in alto mare, prendemmo la via delle Indie, e dopo venti giorni di navigazione vedemmo terra. Siccome avevamo il vento favorevole, arrivammo di buon’ora al Porto; ove gittammo l’ancora.

Non ebbi la pazienza di aspettar le mie sorelle, mi feci sbarcar sola, ed andai difilata alla città. Vi trovai un gran numero di persone sedute, ed altre in piedi; avvicinatami a loro, riconobbi che erano pietrificate. Giunta in una gran piazza vidi una gran porta coperta di lamine d’oro, i cui battenti erano aperti. Dopo aver considerato l’edificio, mi persuasi esser quello il palazzo del Principe che regnava in quel paese, e vi entrai.

Eranvi in una sala degli eunuchi neri, tutti pietrificati.

Passai in molti altri appartamenti e gabinetti eleganti e magnifici, i quali mi condussero in una stanza di grandezza straordinaria, dove vi era un trono di oro massiccio, smaltato di grossi smeraldi e sul trono un letto di ricca stoffa, sulla quale splendeva un ricamo di perle.

V’era a capo del letto dell’uno e dall’altro lato un lume acceso, di cui non compresi l’uso; nulladimeno simile circostanza mi fece credere esservi qualche vivente in quel superbo Palazzo.

Intanto si avvicinava la notte; volli riprendere il cammino per dove era venuta, ma non mi fu facile trovarlo. Mi confusi negli appartamenti, e trovandomi nella grande stanza ov’era il trono, il letto e i lumi accesi, risolvetti passarvi la notte e rimettere al domani prestissimo il ritorno al mio vascello.

Era circa mezzanotte, quando intesi la voce d’un uomo che leggeva il Corano. Mi alzai subito, e prendendo un lume andai dalla parte ove mi pareva venisse la voce; mi arrestai finalmente alla porta d’un gabinetto. Posato il lume a terra, e guardando per una fessura, mi parve che fosse un oratorio. Vidi ancora un piccolo tappeto steso, a guisa di quelli che si usano presso di noi per posarvisi sopra e far la preghiera.

Un giovine di bell’aspetto, seduto su quel tappeto, recitava con grande attenzione il Corano.

Siccome la porta era appena socchiusa, l’aprii, entrai, e standomi in piedi, feci ad alta voce questa preghiera:

«Lode a Dio che ci ha favorito d’una felice navigazione. Ci faccia la grazia di proteggerci anche fino al nostro arrivo al paese. Ascoltatemi, Signore, esaudite la mia preghiera!»

Il giovine si volse a me e disse:

—    Mia buona donna, vi prego di dirmi chi siete, e ciò che vi ha condotta in questa desolata città. In compenso vi dirò chi son io, quel che mi è avvenuto, per qual ragione gli abitanti di questa città son ridotti nello stato in cui li avete osservati.

Io gli raccontai in poche parole donde veniva, ciò che m’avea spinto a far quel viaggio, ed in qual modo era giunta facilmente in Porto dopo una navigazione di venti giorni.

Egli mi fece sedere vicino a lui, e prima di cominciare il suo discorso, non potei trattenermi dal dirgli:

—    Parlate, ve ne scongiuro: ditemi, per qual miracolo siete solo in vita fra le tante persone morte in modo inaudito?

—    Questa città era la capitale d’un potente regno, del quale portava il nome il Re mio padre. Questo Principe, la sua Corte tutta, gli abitanti della città e tutti gli altri suoi sudditi erano maghi, adoratori del gran fuoco di Nardun, antico re de’ Giganti ribelli a Dio.

Quantunque nato da un padre e da una madre idolatri, io ebbi la fortuna di aver nell’infanzia una governante, che sapeva a memoria il Corano e lo spiegava perfettamente bene.

M’insegnò a leggere in arabo, e il libro che mi diede per esercitarmi fu il Corano.

Ella morì, ma dopo avermi dato tutte le istruzioni ond’io aveva bisogno per esser pienamente informato della religione musulmana.

Dopo la sua morte persistetti costantemente nel sentimento che essa mi aveva fatto concepire, ed ebbi in orrore il falso Dio Nardun.

Scorsi tre anni e qualche mese, allorché una voce tonante fece udire le seguenti parole: «Abitanti, abbandonate il culto di Nardun del fuoco, adorate il Dio unico che fa misericordia!»

La stessa voce si fece udire per tre giorni di seguito: ma non essendosi convertito alcuno, l’ultimo dei tre

giorni, alle tre o alle quattro del mattino tutti gli abitanti furono in un istante mutati in pietra.

Il Re mio padre provò la stessa sorte, e fu mutato in una pietra nera, e la regina mia madre ebbe lo stesso destino. Io sono il solo su cui Dio non ha fatto cadere il suo terribile castigo. Da quel tempo continuo a servirlo con più fervore di prima, e son persuaso, mia bella signora, ch’egli vi ha inviata per mia consolazione.

Siffatto racconto, e specialmente le ultime parole, terminarono di infiammarmi per lui, e gli dissi:

—    Principe, non bisogna dubitarne, la Provvidenza mi ha spinta nel vostro porto per offrirvi l’occasione di allontanarvi da un luogo così funesto. Il vascello sul quale io son venuta può persuadervi che godo qualche considerazione a Bagdad, ove ho lasciato dei beni assai considerevoli: posso offrirvi un asilo.

Non è possibile che restiate in una città, dove gli oggetti devono esservi insopportabili. Il mio vascello è al vostro servizio e potete disporne assolutamente. Egli accettò l’offerta.

Quando comparve il giorno, uscimmo dal palazzo ed andammo al Porto ove trovammo le mie sorelle, il Capitano ed i miei schiavi inquieti sul conto mio. I marinai impiegarono più giorni a sbarcare le merci ch’io avevo portate, ed imbarcarvi in loro vece tutto ciò che di più prezioso era nel palazzo, in pietre, in oro ed in argento.

Dopo aver caricato il vascello delle cose che più ci piacquero, prendemmo le provvigioni e l’acqua che ci parvero bisognare per il nostro viaggio, indi mettemmo alla vela col vento favorevole.

Il giovine Principe, le mie sorelle ed io c’intrattenemmo tutti i giorni piacevolmente. Ma, ahimè! la nostra unione non durò molto tempo. Le mie sorelle s’ingelosirono, e mi domandarono un giorno maliziosamente che avrei fatto di lui giungendo a Bagdad.

Io fingendo di volger la cosa a scherzo, risposi loro che lo avrei preso per mio sposo; indi volgendomi al Principe, gli dissi:

—   Vi prego di acconsentire: appena saremo a Bagdad, il mio disegno è di offrirvi la mia persona per essere la vostra umile schiava.

—   Signora — rispose il Principe — non so se scherziate; in quanto a me vi dichiaro seriamente avanti le vostre sorelle, che fin da questo momento accetto di buon cuore l’offerta da voi fattami, non già per considerarvi come una schiava ma come mia padrona, non pretendendo avere alcun impero sulle vostre azioni.

Eravamo nel golfo Persico, e ci avvicinavamo a Bassora, ove, col vento favorevole, sperava giungere l’indomani. Ma la notte mentre dormiva, le mie sorelle mi gettarono in mare, come pure il Principe, il quale si annegò. Io mi sostenni qualche tempo a fior d’acqua, e poscia per fortuna, o piuttosto per miracolo, trovai fondo.

Mi diressi verso un punto nero, il quale per quanto permettesse l’oscurità, distinsi esser terra; infatti giunsi ad una spiaggia, e la luce del giorno mi fece conoscere ch’io era in un’isola deserta, situata a circa venti miglia da Bassora. Feci subito asciugare i miei abiti al sole, e camminando osservai molte specie di frutta, per cui non perdetti la speranza di poter conservar la vita.

Mi riposava all’ombra, quando vidi un serpente alato grossissimo e lunghissimo che si avanzava verso di me oscillando la lingua.

Mi alzai, e vedendo ch’era seguito da un altro serpente ancor più grosso che lo teneva per la coda e faceva i suoi sforzi per divorarlo, n’ebbi pietà; invece di sfuggire ebbi il coraggio di prendere una pietra, scagliarla con tutta la mia forza contro il serpente più grosso; egli se ne volò. Io mi tornai a sedere all’ombra di un albero. Nel destarmi, pensate qual fu il mio stupore quando vidi a me d’accanto una donna nera, di fisionomia viva e piacevole, che teneva legate due cagne dell’istesso colore; le domandai chi fosse ed ella mi rispose:

—    Io sono il serpente da voi poc’anzi liberato dal suo crudele nemico. Ho creduto non potervi meglio rimeritare dell’importante favore a me reso, che facendo ciò che ho fatto. Ho saputo il tradimento delle vostre sorelle, e per vendicarvi, tosto che fui liberata col vostro generoso soccorso, ho chiamato molte Fate mie compagne, abbiamo portate tutte le merci del vostro vascello nei vostri magazzini di Bagdad, e queste due cagne nere sono le vostre due sorelle, alle quali ho dato questa forma.

A queste parole la Fata mi abbracciò strettamente, poscia trasportandomi nella mia casa di Bagdad, vidi nel mio magazzino tutte le ricchezze ond’era carico il vascello. Prima di abbandonarmi, mi lasciò le due cagne, e mi disse:

—   Sotto pena di esser mutata come esse in cagna, vi ordino di dare ogni notte cento frustate a ciascuna delle vostre sorelle, per punirle del delitto commesso.

Io fui obbligata di prometterle di eseguire gli ordini suoi: e voi vedete che invece d’essere biasimata, merito d’essere compianta.

Il Califfo, dopo aver ascoltato Zobeida con ammirazione, fece pregare dal suo gran Visir la graziosa Amina di volergli spiegare perché fosse marcata di cicatrici.

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