Feb 292016
 

Si chiamava Emily, era una bellissima ragazza bionda, dalle forme così piene e ben fatte da sfidare il canone estetico della magrezza. Aveva gli occhi azzurri che traboccavano di una dolcezza inesprimibile, e non c’era niente di più grazioso della sua bocca e delle sue labbra che si schiudevano lasciando intravedere due file di denti candidi e perfetti. Esordì come segue:

«Non è certo per vantarmi della mia estrazione sociale o delle mie avventure più critiche se ho avanzato una tale proposta. Mio padre e mia madre erano, e per quel che ne so sono tuttora, agricoltori a una quarantina di miglia da Londra. La loro crudeltà nei miei confronti era pari al favore di cui godeva mio fratello, al quale riservavano ogni attenzione, al punto che pensai di fuggire almeno un migliaio di volte. L’occasione propizia mi si presentò quando avevo circa quindici anni. Per sbaglio ruppi un vaso di maiolica al quale i miei genitori tenevano moltissimo, così, per timore del terribile castigo che inevitabilmente avrei dovuto subire, nell’incoscienza dell’età decisi di andarmene di casa e mi diressi a Londra. Come la mia famiglia prese la mia partenza, non lo so, poiché da allora non ho mai più avuto notizie da loro. Il mio bagaglio consisteva in due monete d’oro di mia nonna, qualche scellino, due fibbie e un ditale d’argento. Così equipaggiata, senza altri vestiti se non quelli ordinari che portavo addosso, spaventata da ogni passo o rumore che sentivo dietro di me, iniziai ad affrettarmi. Potrei giurare di aver camminato almeno dodici miglia prima di fermarmi per la fatica e la stanchezza. Mi sedetti su una scala a riposare, e qui piansi amaramente, spaventata per la fuga, ma ancor più terrorizzata a morte dall’idea di ritornare dai miei snaturati genitori. Ristorata da quel riposo e rinfrancata dal pianto, mi rimisi in viaggio, quando fui raggiunta da un robusto ragazzo di campagna, anch’egli scappato di casa e diretto a Londra in cerca di fortuna. Non doveva avere più di diciassette anni, era rubicondo e abbastanza piacente, con capelli biondi e arruffati. Indossava un berretto, tabarro di lana e calzettoni: in breve, era un vero e proprio contadino. Lo vidi arrivare dietro di me fischiettando, con un sacchetto legato a un bastone, il suo bagaglio. Camminammo fianco a fianco per un bel tratto senza scambiare una parola, ma alla fine facemmo amicizia e decidemmo di continuare il viaggio insieme. Non ho la più pallida idea di quali fossero i suoi progetti o intenzioni, ma posso giurare sull’innocenza dei miei».

«Sul fare della sera, insorse la necessità di trovare una locanda o un ricovero, e soprattutto di pensare a cosa dire della nostra situazione se ce lo avessero chiesto. Dopo qualche riflessione, il giovane azzardò una proposta che mi sembrò la migliore possibile: e immaginate un po’ cosa poteva essere? Di farci passare per marito e moglie. Le conseguenze di ciò non le potevo immaginare. Dopo esserci messi d’accordo, arrivammo a una di quelle squallide locande per chi viaggia a piedi, dove alla porta c’era una vecchia sghemba che, vedendoci passare, ci invitò a entrare. Lieti di qualsiasi riparo, entrammo. Fu il ragazzo a occuparsi di tutto, poi ordinò quello che offriva la casa e cenammo insieme da marito e moglie, benché la cosa fosse poco credibile data la nostra giovane età e il nostro aspetto. Quando fu l’ora di andare a letto, nessuno dei due ebbe il coraggio di contraddire il nostro racconto, e fu molto piacevole vedere come il giovane fosse perplesso quanto me all’idea di giacere insieme. Mentre ci trovavamo in quell’imbarazzo, la vecchia prese le candele e ci accompagnò in camera, che si trovava alla fine di un lungo corridoio, separata dal corpo principale della casa. Nessuno di noi due osò dire nulla e così fummo lasciati soli in un’orrenda camera con un letto discutibile. Da parte mia, ero talmente ingenua che non consideravo l’andare a letto con quel giovanotto molto più pericoloso dall’andare a letto con una delle nostre contadine. Anch’egli sembrava non avere che pensieri innocenti, finché l’occasione non gliene fece sorgere altri».

«Prima che ci spogliassimo, comunque, il giovane spense la candela; per il freddo, dopo essermi tolta gli abiti mi infilai subito sotto le coperte, dove lo trovai già coricato, e il contatto con il suo corpo caldo invece di spaventarmi mi fece star bene. Ero troppo turbata da quell’insolita situazione per poter dormire, ma ancora ero del tutto ignara del pericolo. Ma quanto sono potenti gli istinti naturali, e quanto poco ci vuole per farli scattare! Il ragazzo mi passò un braccio intorno al corpo e mi strinse a sé, come se volesse che ci scaldassimo a vicenda, e il calore che sentii dal contatto tra i nostri petti me ne provocò un altro che non avevo mai provato prima, poiché ignara della sua natura. Incoraggiato dalla mia tranquillità, mi baciò, e io lo ricambiai, senza sapere quali conseguenze il mio gesto avrebbe avuto: infatti prese ad accarezzarmi il seno e poi iniziò a scendere fino a quella parte di me così squisitamente sensibile, come sperimentai quando, al suo tocco, si accese di un calore strano. Lì si soffermò, per il mio e il suo piacere, finché non divenne troppo audace e mi fece male, così mi lamentai. Allora mi prese una mano e la portò tra le sue cosce strette, che erano estremamente calde: lì la premeva e strusciava finché, crescendo un poco per volta, mi fece sentire l’orgogliosa differenza tra il suo sesso e il mio. Spaventata da quella novità, ritrassi la mano. Tuttavia, incuriosita da quelle nuove e piacevoli sensazioni, non potei fare a meno di chiedergli di che si trattasse. Il ragazzo mi rispose che me lo avrebbe fatto vedere se volevo, e senza aspettare una risposta, che evitò tappandomi la bocca con baci che non ripudiavo affatto, montò sopra di me e mi aprì le cosce con il suo ginocchio, facendosi strada per il suo scopo. Era una sensazione così inusuale e nuova, che giacqui passiva tra timore e desiderio, finché non sentii un dolore così terribile che mi fece gridare. Ma ormai era troppo tardi: era così saldamente in sella che, nonostante i miei sforzi, non potei disarcionarlo, e ben presto, con un colpo poderoso assassinò la mia verginità, e per poco anche me. Ora giacevo sanguinante, testimone della necessità imposta al nostro sesso per estrarre il primo miele dalle spine».

«Ma con il diminuire del dolore, aumentava il piacere, e così fui pronta per nuove prove, e prima che fosse giorno, niente a questo mondo mi era più caro di quel ladro delle mie delizie virginali: per me era diventato tutto».

«Come unimmo le nostre fortune, come arrivammo in città insieme, dove abitammo per un po’ finché la necessità ci separò e mi portò a intraprendere la mia vita attuale, che mi avrebbe già fatta a pezzi molto tempo fa se non avessi trovato rifugio in questa casa, sono tutte circostanze che esulano dall’obiettivo proposto, pertanto il mio racconto termina qui».

In base all’ordine dei posti, era il turno di Harriet. Era bellissima, non credo di aver mai visto una donna bella come lei, con una simile armonia di forme. Era la grazia in persona, tale era la simmetria del suo corpo minuto ma ben forgiato. Aveva la carnagione chiara, esaltata ancora di più da due occhi neri intensi che donavano al suo viso una vivacità rara. Sulla pelle candida del volto il piacevole rosa delle guance sfumava con delicatezza. Il suoi lineamenti fini incorniciavano un’impressione di dolcezza alla quale si accompagnava un carattere indolente, languido e passionale. Sollecitata a iniziare il suo racconto, sorrise arrossendo un po’, e infine ci accontentò.

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